La strana coppia

Orchi, elfi, esseri umani, magia, Will Smith in divisa ed un approfondimento sul tema dell’odio razziale, tutto quanto messo insieme nella Los Angeles dei giorni nostri.
Follia? Genio? Non lo sappiamo, probabilmente entrambe, ma di sicuro Netflix, assieme a David Ayer, ha voluto osare producendo un fantasy poliziesco decisamente controverso ed interessante, spaccando a metà l’opinione pubblica.

Bright, è questo il titolo dell’ultima creazione di Ayer, il quale, dopo il semiflop di Suicide Squad, ritorna con una produzione affine alle sue corde, mostrandoci una pellicola che si immette nel filone del poliziesco di ambientazione urbana, per passare poi ad una storia fortemente fantasy.

L’opera è di sicuro tra le più importanti produzioni Netflix in assoluto, ed ha fatto nascere, almeno oltreoceano, parecchie critiche negative, che l’hanno stroncata sin dal primo trailer.
Bright però è qualcosa di molto particolare, e infatti ci ritroviamo in un mondo affascinante, dove esseri umani, orchi ed elfi provano a convivere (con scarsi risultati) dopo un antico e misterioso conflitto.
L’idea, nata dalla mente di Max Landis (Dirk Gently; Victor – La storia segreta del dott. Frankenstein), è esageratamente interessante, e si tratta di una commistione di generi che funziona in pieno, unendo mondi che, cinematograficamente, non avevamo mai visto assieme.
In sostanza è un buon prodotto, che sa intrattenere, divertire e a tratti riesce anche ad affascinarci, sapendo mantenere un ritmo molto incalzante e godibile, salvo andare a scemare in alcune sequenze centrali e in un post risoluzione finale sottotono.


La regia di Ayer torna ad essere quella che ci aveva colpito con End of Watch e Fury, dimostrandoci che queste ambientazioni sono il suo pane quotidiano.
Il cineasta riesce a farci immergere in un mondo vivo, sporco, uno spaccato della società odierna, dove i deboli, in questo caso, vengono proiettati nei ghettizzati orchi.
La buonissima resa viene aiutata anche dalla strana coppia di poliziotti composta da Will Smith (Ward), sempre a proprio agio in questi ruoli, e Joel Edgerton (Jakoby), in una splendida versione orchesca, i quali andranno a ricalcare (delle volte in maniera eccessiva) il classico duo di agenti di polizia che eravamo solito vedere nelle produzioni degli anni ’80.
La sceneggiatura, oltre ad un’idea originale veramente forte, è altrettanto buona, pur perdendosi (ahinoi) nel finale, lasciandoci un po’ con l’amaro in bocca.

Purtroppo Bright può essere paragonato ad una cena in un ristorante di cucina fusion, con piatti interessanti e particolari, ma che per dolce ti offre una pietanza semplice, comune, quasi a volerti dare un “contentino”.
Perché è proprio nel finale che la pellicola di Ayer si perde, donandoci una risoluzione sostanzialmente opaca e abbastanza piatta.
Tutto ciò è un vero peccato dopo le ottime premesse poste durante la prima mezz’ora abbondante di proiezione ed il ritmo frizzante dell’arco narrativo.
Altro tasto dolente è la scarsa caratterizzazione di alcuni personaggi di contorno e della mitologia/religione del mondo rappresentato, problema che, probabilmente, nasce dall’aver deciso di mettere molta carne al fuoco nonostante un minutaggio più o meno nella norma (117 minuti).
A pagarne le spese sono in particolar modo le belle Lucy Fry e Noomi Rapace, entrambe in versione elfica, le quali riescono a catturare con facilità l’attenzione dello spettatore, ma lasciano totalmente irrisolti una serie di punti interrogativi sui propri personaggi.
Questo però non è assolutamente colpa delle attrici, visto che le rispettive prove sono promosse, ed in particolar modo quella della Rapace, che riesce a donare molta forza alla sua Leilah.

In Bright ritroviamo, oltretutto, qualcosa che ci aveva già fatto vedere, o meglio sentire, Ayer in Suicide Squad, visto che anche qui la colonna sonora è ricchissima di tracce (spesso create ad hoc per questa produzione) che si amalgamano bene con le sequenze che accompagnano (e questo è un miglioramento rispetto ad SS, dove spesso la tracklist risultava quasi forzata).
Senza dubbio è un fenomeno di marketing studiato, dato che la soundtrack vanta collaborazioni, tra gli altri, con Bastille, Steve Aoki, Marshmello e Ty Dolla, che ci propongono delle sonorità fresche, elettroniche e pop, decisamente affini ad un pubblico giovane (e ci sentiamo di promuovere questa scelta), risultando comunque non solo indirizzate alla vendita, ma anche ottimamente congeniali all’opera di casa Netflix.
Per tornare allo script, chiudendo, bisogna spezzare un’altra lancia a suo favore, visto che la scelta di trattare il tema dell’odio razziale, mostrandoci gli orchi ghettizzati in una società dove i ricchi sono prevalentemente gli elfi, la troviamo funzionale ed interessante e, senza alcun dubbio, originale.

Verdetto:


Bright è un prodotto fresco, interessante, nato da un’idea tanto folle quanto geniale, che riesce ad intrattenere il pubblico grazie alla forte componente action.
Benissimo lo strano duo Smith – Edgerton, che funziona a meraviglia, tanto da far commettere ad Ayer l’errore di voler incentrare troppo lo sviluppo narrativo sul loro particolare rapporto, mettendo spesso in secondo piano le tematiche più affascinanti ed interessanti dell’opera.
La fotografia, a cura del russo Roman Vasyanov (fedelissimo del regista di Champaign), è promossa tanto quanto la soundtrack che l’accompagna, visto che tramite la loro fusione riusciamo a fruire di un mondo urbano/fantastico realistico e convincente.
Bene il ritmo dell’opera, ma molto deludente la resa finale dello sviluppo dello script durante l’arco narrativo, che ci lascia con qualche punto interrogativo e, soprattutto, con l’amaro in bocca dopo un finale decisamente sottotono rispetto a quanto potuto vedere durante la parte iniziale.
Bright, in sostanza, non è assolutamente da buttare, anzi è un prodotto interessante, con tantissimi spunti meritevoli, i quali, per quanti sono, potrebbero benissimo necessitare di una produzione seriale (che ci piacerebbe vedere) per poter essere analizzati nel loro complesso.
Un’opera vivace, frizzante, in grado di unire brillantemente generi cinematografici totalmente agli antipodi fra di loro, ma incapace di saper sfruttare appieno tutto questo potenziale, visto uno sviluppo narrativo che non riesce a valorizzare lo script né alcuni suoi interpreti, finendo per diventare più una storia incentrata sullo strano – ma comunque promosso – duo protagonista.

Leonardo Diofebo
Classe '95, nato a Roma dove si laurea in scienze della comunicazione. Cresciuto tra le pellicole di Tim Burton e Martin Scorsese, passa la vita recensendo serie TV e film, sia sul web che dietro un microfono. Dopo la magistrale in giornalismo proverà a evocare un Grande Antico per incontrare uno dei suoi idoli: H. P. Lovecraft.