Amore, Tempo e Morte

Non è facile trattare il tema del dolore ed uscirne illesi. Argomenti come la morte di qualcuno a noi caro sono talmente delicati e fragili che spesso non basta la sola sensibilità o un alto grado di empatia, è necessario essere rispettosi; una cosa che tuttavia sembra essere stata dimenticata un po’ da tutti, partendo dai talk show pomeridiani che manipolano le tragedie per vendere spazi pubblicitari, finendo al cinema, dove il dolore viene brutalmente mercificato per portare la disperazione più assoluta con il fine ultimo di mascherare il vuoto cosmico di una pellicola.

Ovviamente è il caso di Collateral Beauty, film del 2016 e uscito appena quattro giorni dopo l’inizio del 2017 in Italia ma già potenziale peggior film dell’anno per essere riuscito, in appena 96 minuti, a qualificarsi come un insulto alla decenza e alla sensibilità delle persone.

Ma andiamo con ordine.
Howard Inlet (Will Smith) è un dirigente pubblicitario di successo, almeno finché la morte della figlia di sei anni non lo porta sull’orlo di una crisi esistenziale molto grave. I suoi amici e soci Whit Yardsham (Edward Norton), Claire Wilson (Kate Winslet) e Simon Scott (Michael Peña) sono molto preoccupati per lui, ma anche della loro società che, senza il lavoro di Howard, rischia di chiudere i battenti. I tre scoprono, grazie ad un’investigatrice privata, che il loro amico scrive lettere alle così dette tre Astrazioni, ovvero Amore, Tempo e Morte: a quel punto nasce in loro l’idea di far incontrare ad Howard una personificazione dei destinatari delle sue missive, interpretate da tre attori di una piccola compagnia teatrale, Aimee (Keira Knightley), Brigitte (Helen Mirren) e Raffi (Jacob Latimore) come se fosse una sorta di terapia per affrontare la perdita.

Dobbiamo riconoscere che le prime fasi del film sono piacevolmente scorrevoli e la sceneggiatura stessa mostra un certo savoir faire nel portare avanti la trama in modo netto ma mai sbrigativo. Basterà comunque qualche scena per cominciare a farsi un’idea dell’intero svolgimento della pellicola, grazie a un numero talmente spropositato di climax che rompono la magia della sceneggiatura e una moltiplicazione delle storyline tutte orientate verso un obiettivo unico: colpire basso sotto la cintola e fare male.

Ovviamente non parliamo di un male fisico ma mentale, di quelli che tuttavia vi torcono le budella e provocano un dolore tanto brutale quanto artefatto, sfruttando il maggior numero possibile di drammi portando inevitabilmente all’isteria di massa, o comunque a far singhiozzare metà della sala. Un dolore che è figlio illegittimo di quello pseudo-capolavoro di Sette Anime di Gabriele Muccino che, nonostante tutto, seppe permeare la pellicola fino all’esplosione finale, senza però dover ricorrere ad un logoramento di mezz’ora per poi poter dire “Ehi, avete visto quanto sono bello e drammatico?” e magari ricevere anche gli applausi dalla sala perché beh, fa piangere quindi è un buon film, poco importa se per ottenere questa reazione abbia finito per accanirsi violentemente sullo spettatore senza il minimo rispetto per il dolore altrui.

Sia chiaro, il dolore può essere intrattenimento ma, come abbiamo detto nel nostro incipit, va fatto con il dovuto rispetto e sensibilità e, in tal senso, Collateral Beauty ha gli stessi effetti di un elefante in una cristalleria che, non contento, espleta anche i suoi bisogni sul pavimento senza la minima vergogna. Dimenticatevi della leggerezza di film come Colpa delle Stelle, che sarà pure un teen drama ma non pecca mai di brutalità, oppure della lotta contro il morbo di Alzheimer in Still Alice con Julianne, in cui si ha a che fare con una sofferenza concreta ma che non ricorre a mezzucci strappalacrime per rendere solida la storia.

Tutto questo finisce poi per impattare anche sulla recitazione, con un cast altisonante che non riesce mai a spiccare: Will Smith è padrone della situazione ma mai davvero convincente se non verso il finale, così come Edward Norton in evidente difficoltà ed una Kate Winslet che, pur dimostrando più coinvolgimento degli altri attori, resta comunque in secondo piano. Paradossalmente, l’unica figura a spiccare è quella di Helen Mirren, il cui personaggio però resta sempre in bilico tra il dramma assoluto e i pochi spunti di comicità (sì, tra l’altro ogni tanto c’è anche del comico) dimostrandosi perlopiù controverso e fuori posto, al netto della buona interpretazione.

Passando all’aspetto tecnico, la regia di David Frankel resta sullo scolastico andante evitando virtuosismi (ed è un peccato, perché sa farlo davvero bene, se vuole), limitandosi a svolgere il compitino senza grosse sbavature, quest’ultime forse più legate alla qualità della fotografia non sempre all’altezza e molto raffazzonata e svogliata e, a dirla tutta, anche un po’ smarmellata e tenuta a bada per garantire l’effetto “Ehi, avete visto quanto sono bello e drammatico?”. Lo stesso dicasi per la colonna sonora, studiata a tavolino per incanalare meglio lo tsunami emotivo, riservandosi anche spazio per qualche canzone-sponsor come Let’s Hurt Tonight dei One Republic.

In definitiva, Collateral Beauty è una produzione assolutamente irritante, che ferisce lo spettatore con una coltre di insopportabile sofferenza pur di mascherare il vuoto cosmico che lo circonda, sfruttando temi come la morte, la malattia e altro per cercare di elevarsi a qualcosa che non è: un buon film.

Francesco Paternesi
Pur essendo del 1988, Francesco non ha ricordi della sua vita prima del ’94, anno in cui gli regalarono un NES: da quel giorno i videogiochi sono stati quasi la sua linfa vitale e, crescendo con loro, li vede come il fratello maggiore che non ha mai avuto. Quando non gioca suona il basso elettrico oppure sbraita nel traffico di Roma. Occasionalmente svolge anche quello che le persone a lui non affini chiamano “un lavoro vero”.