Lo aspettavamo da tempo, ma il film di Olivia Wilde manca l’appuntamento

dont worry darling

ncora prima di arrivare nel Fuori Concorso della 79esima edizione del Festival di Venezia, Don’t Worry Darling era già sulla bocca di tutti per le motivazioni sbagliate. Una lunghissima sequela di chiacchiericci (o cinguettii) social ha accompagnato la presentazione di un film sul quale set probabilmente non si è divertito nessuno.

Olivia Wilde che dice di aver licenziato Shia LaBeouf per proteggere Florence Pugh; Shia LaBeouf che dice di essersene andato di sua spontanea volontà; Florence Pugh che pare non vedere di buon occhio la Wilde e diserta la conferenza stampa; Chris Pine che ogni volta che parla Harry Styles alza gli occhi al cielo; Harry Styles che pare sputargli tra i piedi durante la premiere (cosa poi smentita ufficialmente, ma la internetnovela è fatta e servita caldissima).

Insomma, che dire, tanto lavoro per i PR e tanta pubblicità come se già non bastassero le distese di fan urlanti in attesa di vedere l’idolo ex One Direction nel suo primo ruolo da protagonista al cinema. Cinema che è anche questo, divismo partorito in provetta e confezionato per accompagnare un film che alla fine non è che sappia farsi poi così tanto all’altezza del clamore suscitato.

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Don’t Worry Darling vuole essere principalmente due cose: un film di genere che esplora il thriller/horror psicologico, poi una riflessione sulla condizione della donna nella società ai tempi degli incel. E tonfa clamorosamente in entrambi i casi. Questo perché la sceneggiatura di Katie Silberman (già in writing room di Booksmart, l’acclamato esordio alla regia di Wilde) vuole lavorare a cielo aperto. È palese che in questa cittadina statunitense in perfetto stile borghese anni Cinquanta, Victory, ci sia qualcosa che non va.

Alice (Florence Pugh) e Jack (Harry Styles) vivono in una rotonda para para a Grove Street di San Andreas e tutto attorno a loro ci sono altre coppie sposate le cui donne rimangono a fare la vita da servizievole e devota casalinga mentre gli uomini si recano ogni giorno a lavorare a un progetto segreto di cui la sera a tavola non possono parlare. Ne è a capo il manifesto cattivo di turno, Frank (Chris Pine), la cui prima regola è impedire alle mogli di superare i confini della città oltre la quale c’è solo una grande distesa deserta.

Già da qui è tutto abbastanza leggibile. E andrebbe pure bene eh, non è mai stato un grande mistero l’intento di insinuare un tarlo per parlare in realtà della posizione della figura femminile all’interno dei rapporti di forza di genere. La problematica sta nel fatto che Don’t Worry Darling non accompagna mai il suo essere scoperto sul tavolino a una gestione della tensione che stimoli l’interesse di uno spettatore già conscio di dove si stia andando a parare.

Il primo atto è lunghissimo (praticamente metà del film, nel complesso di due ore) e si limita a proporre un riciclo delle dissonanze percettive di cui è vittima Alice. Vive la sua normalissima vita, ha dei flash che non riesce a identificare, un po’ alla volta le sue visioni si intensificano e capisce che qualcosa qui dentro non va. Ma molte di queste spaccature nella percezione rimangono come puri strumenti di rottura, come soluzioni utilizzate perché lo impone la formula adottata e non perché più tardi troveranno un’adeguata collocazione della ragione per cui assumono quell’aspetto e quell’idea visiva. Se il film in seguito non spiegasse nulla ci potrebbe anche stare, ma il fatto è che qualcosa vuole spiegarlo e non è il ritorno di quello che ci è stato imposto fino a quel momento.

E su questo si impianta anche l’altra grande e ingombrante problematica del film. Don’t Worry Darling enuncia il suo sostrato lanciandolo addosso allo schermo. Ne è emblema una cena alla quale tutti gli imputati sono presenti: la mente malefica Frank, il rampante marito Jack, la risvegliatrice di coscienze Alice e un altro paio di coppie del quartiere (c’è pure la stessa Wilde). Siamo nel terzo atto, i nodi stanno venendo al pettine, la tensione dovrebbe essere al suo apice e Alice affronta a viso aperto le verità di cui si sta rendendo consapevole. Una scena che invece manca totalmente di pathos, anticlimatica e disinnescata dalle urla di una Alice utilizzata come una clava roteata in aria con il, cito quasi testualmente, “ci stanno facendo qualcosa, ci stanno controllando!”.

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Ora, non si sminuisce in nessun modo la tematica di per sé, che anzi viene affrontata in alcuni frangenti anche in maniera stimolante, come con il progressivo far passare per pazze le donne per poi costringerle a un trattamento di cura (un agghiacciante metodo di coercizione che fino a non troppi anni fa era l’ordine del giorno). Se ne contesta il metodo di esposizione, che nella commistione del genere con la tematica d’attualità pare nutrirsi e appropriarsi anche del lavoro di Jordan Peele (Get Out è chiaramente il primo riferimento). Ma pure di altre frange del black cinema, che della mescola surreale di genere ha fatto la chiave per raccontare l’irrazionalità della realtà afroamericana contemporanea, come con il “plot twist” alla base del film che pare prelevato identico da quello dell’Antebellum di Gerard Bush e Christopher Renz.

Don’t Worry Darling non trova quindi la sua strada e rimastica tutto il rimasticabile. Una prova tiepida di Wilde in regia sul tessuto di un’opera manifesta e scialba (e noiosa!), incapace di cogliere le sfumature di una questione ben più complessa di come venga trattata da queste parti.

Alessio Zuccari
Laureato in Arti e Scienze dello Spettacolo all'Università Sapienza di Roma, al momento prosegue lo studio accademico del mirabolante mondo del cinema. Nel fare equilibrismo tra film, videogiochi e serie TV, si interessa pure attivamente alla sfera della critica cinematografica facendo da caporedattore per la webzine studentesca DassCinemag e autore all'interno delle redazioni di IGN Italia e StayNerd. Crede in poche cose, una di quelle è la Forza. This is the way.