Una scelta comunicativa di Disney+ ha reso tristi e impauriti molti utenti, sebbene sia una prassi pluriennale. Vediamo perché.

Disclaimer: questo articolo viene pubblicato nella sua forma originale. Potrebbe contenere frasi che vi fanno sentire in colpa, ma non fatelo.

Negli ultimi giorni, a seguito dell’arrivo di Disney+, molti utenti si sono trovati spiazzati da un raro annuncio che anticipa la visione di film e cartoni molto datati, che all’incirca recita: “Questo programma è nella sua forma originale. Potrebbe contenere rappresentazioni culturali datate”.

Cosa significa “rappresentazione culturale datata“, nel linguaggio Disney? Molto banalmente, intendono sottolineare che racconti stracolmi di riferimenti razziali come Dumbo e Peter Pan mostrano, ovviamente, delle caricature (a volte, delle vere e proprie rappresentazioni razziste) di minoranze e gruppi sociali che, in quel contesto culturale, erano considerati nettamente inferiori.

Ad esempio, il leader dei corvi di Dumbo si chiama Jim Crow, nome originario di una ballata caricaturale e razzista dell’afroamericano, che diede poi il nome anche alle “leggi Jim Crow”, ossia i testi della segregazione razziali statunitense che rimasero legge ben oltre l’uscita di Dumbo (il film è del 1941, la fine delle leggi segregazioniste è del 1965).

Ovviamente, un tale crimine, un così grave sgarbo culturale, un atto censorio di questa magnitudo non è stato accettato da centinaia di utenti, grazie ai quali la nostra libertà di parola, d’espressione e di creatività rimane intoccata ancora oggi. Questi eroi, questi sagaci guerrieri del web, si sono subito espressi contro questo fenomeno censorio e politically correct, ricordando con forza e coraggio che “le storie sono solo storie”, e pretendendo che un bambino di 9 o 10 anni effettui quella serie di ragionamenti cultuali e sociali necessari per adattare in modo coerente e completo quei cartoni al periodo che li ha generati.

“Ma allora mettiamo gli avvisi pure prima di Tintin”, hanno affermato questi eroi della libertà, senza però sapere che da anni i fumetti di Tintin presentano spesso disclaimer e avvisi sul contenuto “datato”. “E allora Warner Bros?”, si chiedono ancora i nostri coraggiosi guerrieri, senza sapere che da anni la compagnia di Bugs Bunny annuncia la presenza di contenuti razzisti all’interno dei suoi cartoni.

Ok, la smetto con l’ironia e le prese in giro, che vi chiedo di concedermi per via dell’evidente reazione insensata da parte di molte realtà social, sia italiane che internazionali.

I temi portati avanti da chi sostiene che questo genere di scelte aziendali siano errate sono sostanzialmente due, almeno in queste ore: il primo, riguarda la “banalità” di certi contenuti, talmente semplici che basterebbero le scuole dell’obbligo per coglierne errori e stereotipi nelle rappresentazioni culturali; il secondo, invece, presenta il tutto come un’intromissione nella “libertà” di godere dell’opera così per come è stata concepita, una scelta politica che intende moderare e riscrivere il messaggio presente nel testo in esame.

Per quanto riguarda il primo punto, la retorica che vuole che razzismo, fascismo, inciviltà e cattiveria si battano con “i libri e i viaggi“, con lo studio e la cultura, è appunto solo ed esclusivamente retorica. I fatti storici la negano: “gli assassini seriali dei campi di concentramento erano uomini colti, non erano buzzurri. Leggevano Goethe, ascoltavano Bach, conoscevano il latino, avevano studiato il greco” (Marco Revelli). Ma anche in piccolo i nostri più recenti autori del disumano non sono di certo analfabeti.

Inoltre, proprio parlando di cartoni animati, dare per scontato che siano solo adulti con lauree e viaggi alle spalle a nutrirsi di questi contenuti è fazioso e sbagliato. La causa di questi fenomeni appare dunque più profonda, strutturale. Potremmo ricondurla al termine “reificazione”: la trasformazione degli uomini in cose. Qualcosa da usare, e non più qualcuno con cui condividere la propria comune natura.

La trasformazione degli uomini in cose è la sintesi del modo di produzione dell’etica del capitalismo, talmente diffusa da aver ribaltato il pensiero razionale illuminista in un’approccio produttivo senza alcuna distinzione tra forza lavoro, uomini e dignità. 

disney+ politically correct

Per ottenere un mondo sociale che non mettesse in discussione tutto questo, è stato necessario mortificare e sminuire l’arte e la cultura, creando e cementando nella coscienza del pubblico quell’informe e falsa idea che è “l’intrattenimento”.

Oggi, quando viene pubblicato un nuovo videogioco o film di una major, non è raro trovare chi ne giustifica, legittima o esalta le scelte produttive in funzione del ritorno sull’investimento, delle esigenze di mercato, del valore azionario o dei numeri ottenuti sui social: l’arte e la comunicazione sono dunque percepite come prodotti, quando invece rimangono senza dubbio alcuno i più evidenti (ma non unici) degli oggetti culturali, ossia tutto l’insieme di creazioni umane, che siano materiali (un vestito, una sedia) che immateriali (la religione, un film).

Se dunque nell’antica Grecia le tragedie, le commedia e la poesia assumevano a priori la forma di luogo in cui la società scambiava e formava opinioni e idee, dalla Rivoluzione Industriale l’arte è diventa prima di tutto consumo e prodotto, perdendo col tempo quell’alone di forza rivoluzionaria e di luogo di catarsi emotiva che l’aveva caratterizzata in larghi tratti della storia umana. Oggi, invece, il termine “cultura” viene utilizzato solo per pochi eletti, mentre tutto ciò che è popolare o di massa viene declassato, al massimo analizzato nella sfera della “pop culture”, proprio per distinguerla da quella teoricamente più “alta”.

È dunque normale e conseguente che, dopo decenni di narrazioni simili, chi alla sera si siede di fronte al divano, magari dopo una faticosa giornata di lavoro che lo aliena, non voglia rotti gli zebedei con disclaimer che gli ricordano che sta facendo ancora qualcosa che richiede il suo impegno, che non è il lavoro fisico in fabbrica ma il dover mettere in crisi mentalmente i suoi valori e i suoi ricordi, magari arrivando ad affermare che quel cartone che ci ha fatto piangere e di cui sappiamo le canzoni a memoria presenta elementi culturali… di dubbio valore.

Di conseguenza, l’unica vera soluzione è esattamente quella opposta alle proposte banali e fuori dal mondo (nel senso proprio di slegate dal reale) citate prima: bisogna tornare a ribadire che l’intrattenimento non esiste, che ogni comunicazione e ogni opera culturale sono intrinsecamente politiche, e che quindi è legittimo e persino salutare mettere tutti gli interattori di un prodotto mediatico nelle condizioni di sapere di essere di fronte a qualcosa che rafforza o mette in crisi i valori che riconoscono, e che quindi li porta a farsi delle domande o a darsi delle risposte.

Purtroppo, ciò che oggi viene recepito è che sia in atto un processo di colpevolizzazione di chi si nutre (nutriva) di questa dieta mediatica, mentre ciò che si cerca generalmente di fare è di spingere a mettere in crisi non il divertimento generato o l’affezione verso il passato, ma i valori, il portato culturale di quel passato (e del presente). Ma non dobbiamo assolutamente sentirci in colpa (dato che chi vi scrive è un grandissimo appassionato dell’animazione Disney), fintanto che ci mettiamo a disposizione per un dialogo nuovo, proficuo, e soprattutto per l’ascolto delle voci di chi, in passato, non ha avuto spazio e tempo per dire la sua.

Per quanto riguarda il secondo punto, credo sia evidente a chiunque che un semplice avviso che compare prima di avviare un contenuto non rappresenta, ovviamente, una censura o un’intromissione nel vivere un contenuto mediatico, ma è esattamente ciò che succede ogni singola volta che ci interfacciamo con un film, un cartone, un fumetto o qualsiasi altra cosa.

Quando guardiamo un trailer, quando leggiamo un’intervista, quando ci imbattiamo in un commento su Facebook o in un dibattito sul tram, entriamo in contatto con l’opera e ne veniamo influenzati, esattamente come tra l’altro facciamo con il nostro “orizzonte d’aspettative”.

Cos’è questo orizzonte? Semplicemente, tramite numerosi esperimenti, molti ricercatori e scienziati sociali hanno dimostrato che lo stesso contenuto viene recepito in modo diverso da membri di nazionalità, classi sociali e identificazioni diverse, e che quindi la “verginità” dell’esperienza, un momento in cui ci troviamo solo noi come guscio vuoto e il film come contenuto che deve riempirci, non esiste, ma al massimo possiamo avere più o meno influenze esterne che filtrano in modo diverso quel che stiamo vedendo. Un disclaimer fa quello che fa un trailer o un commento su Facebook: aggiunge un livello, ritenuto necessario o utile per funzioni economiche, politiche e altro ancora, ma non si pensi che sia un fenomeno nuovo né evitabile.

Inoltre, come da immagine poco sotto, il testo del disclaimer è davvero minuscolo e privo di particolare impatto visivo, e anzi, giustamente molte figure del mondo culturale statunitense si sono espresse contro la banalità di questo avviso, rispetto alla più netta presa di posizione della concorrenza (come la già citata Warner Bros). Cosa diamine è una “rappresentazione datata”?

disney+ politically correct

 

Un linguaggio simile mi fa pensare più che altro alla mancanza di possibilità tecniche, non di quello che è a tutti gli effetti dell’evidente razzismo, come è scontato che fosse negli anni ’40, ’50 e ’60 del secolo scorso. In generale, d’altronde, tutto si può dire delle recenti scelte Disney e delle grandi aziende del mondo dell’intrattenimento, ma di certo sono ben lontane da presentare effettive prospettive di cambiamento radicale e di rivoluzione delle percezione della cultura. Anzi.

Cosa ci insegna, dunque, quest’ennesimo, ridicolo, triste caso di preventivo orrore e linciaggio mediatico sulla base di un teorico e presunto arrivo della censura del politically correct? Queste reazioni ci suggeriscono che stiamo combattendo una battaglia che, al momento, di certo non stiamo vincendo, e che riguarda una totale riscrittura del ruolo della cultura, della comunicazione e del teorico “intrattenimento” nella nostra società.

Dobbiamo fare in modo tale che la si smetta di viverlo come un inesistente “passatempo” libero da pensieri e impegni, ma che al contrario si veda proprio nei linguaggi lo strumento principale di riscrittura e ripensamento delle attuali strutture di potere, che siano economiche, culturali o politiche. O più semplicemente, come diceva Mark Fisher: “Le politiche emancipatorie devono sempre distruggere le apparenze di un ordine naturale, devono rivelare come una semplice contingenza ciò che viene presentato come come necessario e inevitabile, in modo tale che dimostri che quanto veniva considerato impossibile sembri ottenibile”.