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Le emoji sono oramai entrate nell’immaginario collettivo, grazie all’abbondante (eccessivo) uso che se ne fa nelle varie applicazioni di IM. Qualcuno in Sony deve aver pensato che fosse cosa buona costruirci attorno un film per i più giovani, dato il particolare attaccamento che questi hanno nei confronti dei propri smartphone.
Ci troviamo quindi alle prese con Emoji (nelle sale dal 28 settembre), un’opera con protagoniste proprio le famose “faccine”, che vivono all’interno dello smartphone di un adolescente alle prese con la ragazza che gli piace. Un film che, ovviamente, non ci risparmia le classiche scene piene di giovani alienati, persi con la faccia verso lo schermo, con quel classico tono paternalista che – ammettiamolo – ha anche un po’ scocciato.

Gene è un Bah, un’emoji sempre indifferente, alle prese con il suo primo giorno di lavoro. Questi ha però un brutto problema, nel fantastico mondo della città dell’app dedicata agli SMS: non ha una sola espressione, come dovrebbe essere, bensì è in grado di mostrare tutta la gamma di sentimenti, cosa che le altre emoji non sanno fare, costantemente bloccati alla loro espressione di riferimento a prescindere da cosa stiano provando dentro.
Per colpa di questo suo difetto, Gene sbaglierà “faccina” la prima volta in cui il proprietario del telefono cercherà di inviare un “bah”, così da essere costretto a fuggire dalla città girando di app in app, per farsi correggere il codice sorgente, inseguito dagli sgherri dell’app di messaggistica per tutto il telefono. Nel frattempo, parallelamente ma con molto meno peso, si sviluppa la storia di Alex, il piccolo proprietario dello smartphone.

Il pretesto su cui il film dovrebbe reggersi è piuttosto semplice, e coerente con il materiale di riferimento, le emoji, e quindi le diverse espressioni collegate ad un’emozione. Ciò che proprio non funziona però è la voglia costante del film di far vedere come quello di Gene non sia davvero un problema, che il suo essere diverso e capace di esprimere una più ampia gamma di sentimenti sia un bene. Grazie della spiegazione, avevamo sempre pensato il contrario!

Il discorso è banale ed è stato affrontato ovunque in modo più intelligente, divenendo quindi uno zoppo tentativo di dire qualcosa di più, senza la capacità per farlo, giusto per poter mettere in scena le famose “faccine” che tutti utilizziamo, tentando di giustificare un film il cui unico reale appeal è quello di vedere in movimento queste emoji, e trovare una reinterpretazione visiva delle meccaniche che muovono le varie app.
Così Spotify è composto di flussi musicali, resi graficamente come fiumi, e Instagram è una serie continua di scatti in uno spazio vuoto. Niente di particolare quindi, anche sotto questo aspetto, che avrebbe potuto rivelarsi interessante sotto il profilo artistico, e invece è semplicemente scontato. Dall’altra parte troviamo questa costante rappresentazione di orde di adolescenti non più in grado di vivere normalmente, chiusi come in una gabbia nel loro smartphone. Che sicuramente è un problema reale, ma come ogni problema reale andrebbe analizzato e non banalizzato con il tono del “eh, i giovani d’oggi”, perché non aggiunge nulla alla conversazione ed è francamente fastidioso. E no, l’umorismo non giustifica, dato che non parliamo di satira. Direttamente collegato a questo troviamo una messa in scena del funzionamento di uno smartphone, e quindi di un computer, che neanche si impegna ad avvicinarsi un minimo alla realtà.
Perché è collegato al punto precedente? Perché un altro grande problema dei più giovani è che sanno usare uno smartphone o un computer ma, avanzando per generalizzazioni, spesso non si chiedono minimamente come funzioni, credendo che tutto si risolva in un app che si scarica dallo store e fa tutto in automatico. Ma, anche qui, dato il pubblico di riferimento del film, proprio non ci siamo.

Chiudiamo poi con l’aspetto estetico del film, che è conteso tra una grande qualità della computer grafica in senso stretto e un aspetto artistico veramente di poco valore. È ovvio che il materiale da cui si parte è quello che è, e c’è poco da lavorare sulle emoji per rendere il tutto più piacevole, però molti altri aspetti potevano essere decisamente curati meglio. Il primo di questi è certamente il già citato “funzionamento” delle app, davvero poco ispirato e molto scontato. Ciò che ho trovato però davvero fastidioso è l’aspetto della città che ospita le emoji, che altro non è che quello di un qualsiasi city builder per smartphone. E poi, soprattutto, perché se ogni altra app ha un aspetto coerente con la sua funzione, quella di messaggistica è una città?

emoji recensione

Verdetto:

Emoji è un film di cui davvero non avevamo bisogno, che non riesce né a portare avanti un discorso maturo, come a tratti sembrerebbe voler fare, né a divertire per la debolezza della maggior parte delle sue gag. Non ci sentiamo neanche di dire che sia un peccato, perché davvero è difficile trovare il buono che non è stato valorizzato. D’altra parte si tratta di un film che potrebbe probabilmente divertire i più piccoli, ma di certo stancando gli eventuali accompagnatori adulti.

Luca Marinelli Brambilla
Nato a Roma nel 1989, dal 2018 riveste la carica di Direttore Editoriale di Stay Nerd. Laureato in Editoria e Scrittura dopo la triennale in Relazioni Internazionali, decide di preferire i videogiochi e gli anime alla politica. Da questa strana unione nasce il suo interesse per l'analisi di questo tipo di opere in una prospettiva storico-politica. Tra i suoi interessi principali, oltre a quelli già citati, si possono trovare i Gunpla, il tech, la musica progressive, gli orsi e le lontre. Forse gli orsi sono effettivamente il suo interesse principale.