Estetica, grafica, potenza tecnica e avanzamento tecnologico – nel discorso videoludico – spesso assumono caratteri interscambiabili e vengono confusi in un unico grande concetto. Eppure, ciascuno di essi, ha un suo ruolo e suoi significati specifici all’interno del processo progettuale che porta alla realizzazione di un videogioco.

Tengo l’articolo che state per leggere in un cassetto mentale da circa un decennio, più o meno da quando ho iniziato a studiare all’Università e a scoprire concetti come “estetica” e “progettazione” all’interno di discipline di studio e di analisi. Ovviamente, quando è iniziato a balzarmi in testa, non era minimamente così: quanto segue è infatti frutto di un’integrazione dopo un’altra, tanto di quanto stava susseguendosi nel mondo quanto delle cose che io ho imparato da esso via via. Sono però tanti anni che le domande alla base del mio ragionamento mi viene in mente più o meno allo stesso modo.

Perché il visivo nel videogioco viene contemporaneamente bistrattato e relegato al solo progresso tecnologico? Qual è il motivo per cui questo elemento – spesso racchiuso dentro il termine “grafica” – è quasi sempre relegato a valore secondario o correlato soltanto a quanti dettagli vengono elaborati su schermo? Perché, anche quando si tratta il videogioco come progetto (tirando in ballo il cosiddetto game design, con tutte le interpretazioni del caso su di esso), comunque ciò che si vede è meno importante di ciò che si gioca? Quando è successo che termini che indicano cose molto specifiche sono stati intesi in un altro modo, contrapposto ad altri (come, per esempio, “direzione artistica”)? 

In occasione di un recentissimo ritorno di fiamma della questione che contrappone giocabilità e fotorealismo, divertimento/fruizione a stupore visivo/tecnologia avanzata ho pensato fosse finalmente giunto il momento di raccogliere anni di pensieri. Ovviamente si tratta di un processo parziale e personale, che vuole suggerire un altro modo di vedere la questione prima di tutto a me stesso piuttosto che a chi legge. Un percorso, che affronteremo insieme e sul quale non voglio arrogarmi il diritto di guida o accompagnatore, attraverso una parte per me fin troppo mal vista del videogioco che ha subito distorsioni deleterie per il medium tutto e le sue caratteristiche progettuali e linguistiche uniche. Procederemo in questo viaggio insieme per confronti, contrapposizioni di senso, vocaboli che si scontrano tra di loro e che – irrimediabilmente – modificano la percezione delle parole in sé ma anche e soprattutto dei concetti.

Il bello contro il perfetto: estetica e rifinitura

Da insegnamenti kantiani – ovvero nella sua accezione trascendentale – e da successive integrazioni di Baumgarten sappiamo che possiamo intendere l’estetica più o meno come la dottrina del bello, quel processo filosofico che determina e racchiude la sensibilità per qualcosa dal valore artistico intrinseco. Ovviamente i vocaboli sono fluidi, soggetti a variazioni durante il tempo e questo vale soprattutto per concetti legati al pensiero che più di ogni altro subiscono mutazioni legate al periodo in cui vengono analizzate. Il “bello” è un valore strettamente dipendente dalle epoche, che giustamente si è modificato e ora implica velleità totalmente differenti rispetto al passato. Nel discorso sul videogioco, però, trovo si faccia parecchia confusione riguardo all’individuazione di ciò che risalta a livello estetico, principalmente in due direzioni: una solitamente con accezione positiva e l’altra negativa, che però non sempre hanno l’efficacia e completezza che invece meriterebbe un discorso simile.

Il primo è quello che considera la cosiddetta “direzione artistica”, usato per indicare lo stile visivo scelto come orientativo di una produzione. Un ragionamento sacrosanto ma che manca però di alcune specificazioni. Un’estetica viene scelta per veicolare un messaggio e deve contenere e amplificare quest’ultimo, ed essa non è solo contenuta nel visivo sebbene esso sia il valore forse più facilmente verificabile. Il “bello” viene veicolato attraverso tutti gli elementi velleitari: il sonoro, la narrazione e la componente ludica fanno parte della direzione artistica e sono anch’essi veicoli estetici. Ciò che vediamo, sentiamo e giochiamo è pensato in concerto, non in esclusione o come elemento singolo (ritorneremo sulla questione più avanti, parlando di progettazione). La direzione artistica passa attraverso ogni aspetto, viene usata come raccordo per rendere omogenee le parti e non riguarda mai soltanto una di esse.

Secondariamente, sovente viene confusa la pulizia tecnica – la rifinitura e la perfezione – con l’estetica. Certo, l’assenza di sbavature e la ricercatezza sono fattori che aiutano a far trasparire il valore e l’efficacia di un messaggio velleitario ma tutta altra cosa è legare le due questioni a doppio filo. Non è detto in senso assoluto che un lavoro esteticamente rilevante lo sia perché i suoi veicoli sono estremamente limpidi, rifiniti e perfetti e viceversa. Può anzi succedere che produzioni ricche di imperfezioni abbiano un’estetica coesa e ben congegnata e che invece altre contraddistinte da grandi raffinatezze nascondano al loro interno una certa vuotezza contenutistica, valoriale e argomentativa (caratteristiche fondamentali di una direzione artistica efficace e con una forte dimensione estetica ed estetizzante).

Insomma: l’estetica e la rifinitura sono due concetti sì ravvicinati ma non per forza di cose aderenti. Pensate per esempio alla pittura: quante volte avete visto quadri realizzati in una direzione che non puntava verso il ritrarre il reale per come è ma anzi inserendolo in relazioni metaforiche? Che effetto ha avuto su di voi, rispetto a un altro in cui la rappresentazione si avvicinava al realismo? Questo è estetica, questo è direzione artistica e ideazione in relazione a un messaggio.

Il progetto contro il progresso: grafica e tecnologia

Una delle cose più tipiche – quando si parla di videogiochi – è intendere generalmente con “grafica” il punto in cui si posiziona un determinato titolo su un’ipotetica linea di potenza relativa alla tecnologia, all’elaborazione e alla gestione di elementi visivi. Anche qui, un po’ come per il paragrafo precedente, ci troviamo di fronte a un’elaborazione che per quanto verosimile presenta le sue lacune, generalizzazioni e superficialità.

La ricercatezza grafica, infatti, non presuppone in senso assoluto la presenza delle più alte tecnologie del momento e la loro applicazione. Ciò che si deve tenere conto, in questo caso, è invece una strutturazione basata su regole e procedimenti (che possono essere standard o sovvertitivi, a seconda del messaggio anche questa volta): la progettazione. Progettare vuol dire creare coerenza attraverso delle regole, dei modi: rendere sensato attraverso una struttura. La grafica di per sé deve dunque occuparsi di rispettare questioni come la chiarezza e la leggibilità che non presuppongono in senso assoluto la presenza di tecnologie avanzate, fotorealismo e densità poligonali.

E quindi come dovremmo valutare quelle produzioni con il “graficone spacca mascella”? Come poco rilevanti perché in un videogioco conta altro? No, al contrario andrebbe messa in relazione la questione tecnica e tecnologica con tutto il resto, comprendere cosa significano a livello progettuale, di direzione artistica e di messaggio: che valore hanno nel pacchetto, come sono correlate con il resto. Dovremmo domandarci perché è stato scelto quell’approccio anziché un altro, ma questo è un esercizio che andrebbe fatto per qualunque aspetto di qualunque prodotto quando si va ad analizzarlo. Ragioniamo il videogioco come un insieme di parti che si relazionano e comprendiamo come esse portano a chi gioca il pensiero di chi l’ha realizzato. Un videogioco con una densità poligonale elevatissima ma con un level design lacunoso e svogliato cosa ci comunica? E perché?

(I limiti del)l’evoluzione contro (i limiti del)la concorrenza: opportunità, hardware e mercato

Affrontata la questione tecnologica è inevitabile parlare anche di hardware, di mercato e di concorrenza. Il recentissimo e citatissimo esempio di The Legend of Zelda: Tears of the Kingdom ha riaperto tantissimi dibatti sul come Nintendo si relaziona al resto del mondo dei videogiochi e quali sono le rispettive priorità. Moltissimi discorsi mettono in contrapposizione la componente visiva (in accezione tecnologica) con quella ludico-meccanica facendo notare come l’ultimo gioco con Link punti a una maggiore enfasi sulla creatività piuttosto che sulla potenza: ma è corretto mettere a confronto questi due aspetti? Per quanto mi riguarda no: perché si rischia di entrare in discorsi parziali e faziosi.

Contrapporre ciò che si vede a ciò che si può fare in un videogioco e relazionarli come escludenti a vicenda a priori è sbagliato, specialmente quando poi viene lodata la “direzione artistica” come in questo caso. L’assenza delle ultime tecnologie è anch’essa parte della progettazione e i limiti che ne conseguono devono essere considerati, ma non in ottica di contrasto. Quel che dovremmo chiederci è, piuttosto, perché TotK è stato realizzato con quell’hardware, quali opportunità apre e preclude questa scelta e dove il gioco si posiziona nel mercato e con quale destinazione d’uso.

Ogni prodotto ha la sua funzione, più o meno evidente ed efficace: semplicemente l’ultimo Zelda non vuole essere quel che non può essere tecnologicamente. Preferire una strada piuttosto che un’altra – sia per chi sviluppa che per chi gioca – è questione di prospettive, intenzioni e volontà che sono sempre valide a prescindere e mai da intendersi come più o meno di livello rispetto alla controparte (che controparte non è). Quel che si potrebbe fare, piuttosto, è considerare le strade che un titolo come quello preso in esame può insegnare a livello produttivo, imparare dal segno tracciato per realizzare progetti complessi che hanno consapevolezza di tutte le loro parti e le usano per veicolare messaggi in modo esaustivo e – soprattutto – in equilibrio.

Un caso di studi che ci mette di fronte alle opportunità sconfinate che il videogioco ha dentro di sé, che giocoforza vanno di pari passo con il mercato e l’avanzamento tecnologico ma di cui devono tenere conto per coerenza comunicativa. Non sarebbe possibile un gioco come quello in un periodo storico diverso dal nostro, anche e soprattutto per quello che gli succede intorno e da cui si differenzia.

Responsabilità e dialogo: cosa fare?

In ultima battuta mi andrebbe di capire insieme dove risiedono le responsabilità dei fraintendimenti che abbiamo visto, implicando ci siano, e comprendere quali prospettive possiamo considerare per il futuro. Prima di tutto va specificato che il colpo d’occhio, in un medium che ha una componente visiva così prominente, è e sarà sempre una questione importante nelle analisi e nella ricezione di un videogioco. Non si potrà mai pensare a un momento in cui ci sarà soltanto un focus sulle meccaniche e che la parte visiva verrà messa definitivamente in secondo piano (e che vi scrive afferma “per fortuna”).

Ma perché succede questo? Innanzitutto, perché, come già detto, il visivo è il primo impatto con un videogioco. Secondariamente perché il materiale promozionale, di anteprima e di discussione quasi sempre esclude l’interazione diretta ma si basa appunto su ciò che vediamo. Trailer e recensioni ci arrivano attraverso gli occhi e tramite questi elaboriamo ragionamenti analitici, per tanto è inevitabile che siano questi a guidare il giudizio pre-gioco. Senza contare la quantità di spazio che aziende e stampa di settore dedicano alle specifiche tecniche dell’hardware, all’uso di motori grafici d’avanguardia e implementazioni tecniche sempre più raffinate.

Ma la colpa è dunque solo dei “piani alti”, dell’industria? No, ovviamente ma non tanto per una questione di assenza di responsabilità ma perché di fatto un’origine univoca di questa non esiste. Il pubblico ha avuto la sua fetta di rilievo nel discorso, perché come spesso accade nell’informazione si crea quel meccanismo per cui chi produce informazione intercetta (e anticipa, creandone di nuovi) i bisogni del pubblico che, a sua volta, si abitua e continua a chiedere contenuti familiari che è capace di riconoscere. Quindi, piuttosto che puntare il dito cercando “l’origine del male” proviamo a chiederci qual è il quadro generale della situazione, qual è il motivo per cui si è in questa e cosa ne possiamo leggere e comprendere del videogioco.

Luca Parri
Nato a Torino, nel 1991, Luca studia scienze della comunicazione come conseguenza della sua ossessione nei confronti delle possibilità che offrono i mezzi di comunicazione e ha lavorato come grafico e consulente marketing (lavoro che ha fatto crescere esponenzialmente la sua ossessivo-compulsività per le cose simmetriche e precise). Lo studio gli ha permesso di concretizzare la sua passione per i differenti linguaggi dei media, sperimentando con mano l'analisi linguistica e semiotica; il lavoro gli ha dato la possibilità di provare a inserire la teoria nel pratico. Studio e lavoro, insieme, lo hanno portato a scrivere di, tra gli altri argomenti, grafica pubblicitaria, marketing, comunicazione e comunicazione visiva collegata al videogioco.