Tra definizioni azzardate e pareri poco informati, una riflessione sulle definizione della letteratura fantastica

volte ritornano.
Chi?
Le scrittrici e gli scrittori con la maiuscola che cercano di insegnare a chi legge letteratura fantastica cosa questa possa o non possa essere.

Permettetemi di darvi delle coordinate: l’ultimo (ma solo in ordine di tempo – e comunque non sarà l’ultimo) caso di literaturesplaining ai danni di fantasy e fantascienza arriva da Joyce Carol Oates, prolifica autrice, incidentale frequentatrice del genere – nel 2018 ha scritto e pubblicato Pericoli di un viaggio nel tempo (La nave di Teseo), un tentativo di critica sociale sotto forma di distopia in grado di lasciare nell’insoddisfazione sia le persone che già conoscevano le opere dell’autrice, sia chi a essa si è avvicinata proprio in virtù di questa puntata nel mondo della narrativa speculativa.

Il 19 settembre Oates twitta – parlando dell’intervento di Ted Chiang al Volume Writers Festival di Seattle – “Ted Chiang differenzia con attenzione tra fantascienza (impersonale, mai magica) e fantasy (personale, character-driven, magico). Ragionamenti interessanti e convincenti che suggeriscono il motivo per cui il fantasy come genere è fondamentalmente young adult.”

Purtroppo l’intervento in questione non si trova online, ma dalle risposte ottenute dal tweet di Oats possiamo supporre che l’autrice abbia travisato il – o omesso parte del – discorso di Chiang, fino a restituirne una sentenza striminzita e divisiva; una frasetta lapidaria che dà l’impressione di essere stata partorita da una persona che poco ne sa del mondo che pretende di definire con le sue parole.

Di definizioni, nel mondo della SFF (acronimo-ombrello preso in prestito dalle lingue anglofone, che racchiude Science Fiction & Fantasy), si è sempre parlato e discusso: Robert Heinlein ha definito la fantascienza “una narrativa speculativa in cui l’autore assume come primo postulato il mondo reale come noi lo conosciamo, includendovi tutti i fatti riconosciuti e le leggi naturali”; Margaret Atwood (un’altra che ci tiene a sottolineare che lei non scrive fantascienza) ha a lungo dibattuto con Ursula Le Guin (che invece ha sempre chiamato ogni cosa con il suo proprio nome e proprio ad Atwood non le ha mandate a dire) sulle supposte differenze tra Science e Speculative Fiction. Sostiene infatti l’autrice de Il racconto dell’ancella che la fantascienza sia composta da quei “[…] libri che contengono cose che non possiamo ancora fare, come raggiungere un altro universo attraverso un buco nero nello spazio”, mentre apparterrebbero alla narrativa speculativa, quei lavori che “utilizzano mezzi che sono già disponibili, come l’identificazione a partire dal DNA e le carte di credito, e che si svolgono sul pianeta Terra”.

fantasy fantascienza gente

Se a partire dal 1994 Giorgio Gaber ha iniziato a interrogarsi su cosa fosse la destra e cosa la sinistra, infatti, la fauna intellettuale mondiale ha sempre cercato di definire i generi letterari, molto spesso per potersene distaccare il più radicalmente possibile, rifiutandone i canoni e sfruttandone gli stilemi solo quando, alla bisogna, quei generi minori si fossero rivelati vincenti dal punto di vista delle vendite. Che un’autrice come Joyce Carol Oates, mera turista del genere, abbia un’opinione semplicistica e prescrittiva di ciò che possono essere fantasy e fantascienza (per non parlare di quel vago sentore di supponenza nel declassare la letteratura fantasy a roba da adolescenti – come se uno young adult avesse intrinsecamente un valore letterario inferiore rispetto ai libri-da-adulti™ – come se non fossero le persone più giovani a leggere di più), personalmente non mi stupisce, né mi fa adirare; la considero soltanto l’ennesima riprova che, da alcune categorie di scriventi, la letteratura fantastica verrà sempre considerata un niente di serio su cui esprimere opinioni informate senza saperne niente.

Questo perché ancora troppo spesso la letteratura fantastica non viene considerata abbastanza alta da meritarsi di diventare oggetto di studio accademico, questo perché ancora, nel 2022, i romanzi fantasy e di fantascienza vengono tenuti fuori dai programmi di insegnamento, con una miopia didattica che vede le letterature come compartimenti stagni e ragiona su schemi di merito che premiano il realismo come strumento di indagine del mondo passato e presente, senza lasciare aperti degli spiragli a una letteratura che, per sua stessa definizione, specula (non nel senso finanziario del termine) sulla società e sul mondo presente e futuro.

Ben venga, perciò – parafrasando Karl Kraus – il fantastico, perché il realismo non ha funzionato. E ben vengano le riflessioni che nella bookcommunity di Twitter sono scaturite dalla lapidaria sentenza Oatesiana e che hanno dato vita a una serie di thread in cui le e gli utenti del social hanno risposto causticamente alla domanda “cos’è il fantasy, cos’è la fantascienza”, portando alla ribalta alcuni dei problemi dei cliché del fantastico.

“Fantasy è quando viene detto che le persone nere sono storicamente inaccurate, fantascienza quando viene detto che le persone nere presenti sono spazzatura politicamente corretta”, si legge, o “fantasy è quando colonizzi antiche culture asiatiche e fantascienza è quando colonizzi futuristiche culture asiatiche”.

E se da una parte resta margine di discussione sul concetto di magia e tecnologia – segno che qualcuno, fuori dal circolo dei letterati, ha almeno assimilato la terza legge di Clarke – c’è chi la butta sull’erotico, con una definizione che, tutto sommato, è comunque più sensata di quella data da Joyce Carol Oates:

Angela Bernardoni
Toscana emigrata a Torino, impara l'uso della locuzione "solo più" e si diploma in storytelling, realizzando il suo antico sogno di diventare una freelancer come il pifferaio di Hamelin. Si trova a suo agio ovunque ci sia qualcosa da leggere o da scrivere, o un cane da accarezzare. Amante dei dinosauri, divoratrice di mondi immaginari, resta in attesa dello sbarco su Marte, anche se ha paura di volare. Al momento vive a Parma, dove si lamenta del prosciutto troppo dolce e del pane troppo salato.