Peninsula – sequel di Train to Busan – perde la semplicità del predecessore e, nonostante gli incassi, non vale la risonanza ricevuta

Train to Busan era stata una piacevole sorpresa. Nel marasma di film sull’invasione di zombie, il blockbuster coreano di Yeon Sang-ho non aveva né reinventato il genere, né scelto di addentrarsi in complicate sovrastrutture narrative e coreografiche che avrebbero reso soltanto pirotecnico e esasperato il suo lavoro, ma nella semplicità di un concept abbordabile e di un setting ben circoscritto, aveva saputo costruirci attorno un paese diretto verso la rovina su di un treno ad alta velocità.

Quella pillola primigenia, l’essenzialità del vedere i suoi mostri partire all’attacco per infettare il resto di regioni e città, viene ampliato dallo stesso autore in Peninsula per fare della sua intuizione un mondo ormai mutato e reimpostato sulle conseguenze della catastrofe zombie, non potendo però contare su quella sua prima buona trovata visto l’ampliamento che ne ha voluto adottare.

Volontà creativa, ma investimento anche economico visto il successo che portò alla ribalta la pellicola del 2016, che nella sua sincerità d’intrattenimento, nel voler offrire al pubblico nulla più se non un’esperienza frenetica per le carrozze di un veicolo ferroviario implacabile, ha acquisito il modo di arrivare ancora più lontano.

Un divertimento venuto a incassare 87.547.518 milioni di dollari in tutto il mondo, oltre alle lodi di un pubblico e di una critica che hanno saputo accogliere con pieno coinvolgimento le volontà enfatiche e adrenaliniche di Train to Busan. Incentivo che ha portato l’ideatore Yeon Sang-ho a spingersi ancora oltre le possibilità già offerte e pienamente compiute del suo film e che, in quella malattia zombie che aveva colpito i suoi abitanti, nel 2020 ha visto l’uscita del sequel proprio in un momento storico sotto le regole della pandemia.

Peninsula e l’uscita nelle sale cinematografiche post-lockdown

Peninsula, quindi, non solo è l’opera d’entertainment che ha fatto da prolungamento all’universo trasformato e marcio di Sang-ho, ma ha esteso la sua malattia all’interno di una terra, nella finzione, colpita prima marginalmente e ora capillarmente da quell’inspiegabile morbo, mentre al suo di fuori, nella vita vera, era un altro nemico, altrettanto temibile, che le persone stavano affrontando.

Nell’era Covid-19 in cui Peninsula va collocandosi, dovendo inizialmente venir presentato in occasione del Festival di Cannes e rimandato a causa del lockdown, quello del cineasta coreano è stato tra i primi titoli a riaprirsi al mercato cinematografico post-quarantena, facendo da traino per un’industria che ha sofferto e sta soffrendo tutt’ora della poca incidenza economica con cui sta scendendo a patti, superando le aspettative e incassando più di quanto si sarebbe anche solo potuto immaginare.

Soltanto nel suo primo weekend, Peninsula è riuscito a segnare al box office un totale di circa 20 milioni di dollari, risultato record per un mondo uscito poco tempo prima da un lockdown rigido e necessario, che contava gli introiti solamente del mercato asiatico dove era stata rilasciata la pellicola.

Un risultato dalle più rosee aspettative, che sottolineava in tutto e per tutto una speranza di ritorno a una normalità di fruizione filmica che si è rivelata, poi, in contrasto con altri parti del mondo e legata alla mancata distribuzione delle opere di maggior richiamo per il panorama cinematografico, ma ancor più per l’immaginario che Yeon Sang-ho aveva creato, affidando alle glorie e ai meriti di Train to Busan l’opportunità di potersi ripresentare con una pellicola realizzata in veste di sequel.

Dall’idea base di Train to Busan all’eccesso di Peninsula

peninsula

La genuinità, però, che aveva visto nell’horror dinamico dell’autore coreano il cuore e il coraggio di una storia che puntava sulla limitazione dei luoghi e dei personaggi, nonché del loro intersecarsi umanamente e narrativamente all’interno dei fili conduttori di Train to Busan, viene tradita con totale ed eccessiva esuberanza da quel Peninsula che, nonostante gli incassi, non può aggiudicarsi i medesimi elogi del suo predecessore, vivendo della luce che il lavoro originale ha acceso, spegnendo qualsiasi entusiasmo durante lo svolgersi dei suoi atti.

Se la sorpresa per la sveltezza e le architetture umane che gli zombie sono in grado di edificare dava vigore ai toni di Train to Busan, è non riuscendo a riproporla con il medesimo impatto che Peninsula esagera lì dove la consistenza delle innovazioni visive viene evidentemente a mancare, pensando di poter adempiere alle sue fallaci trovate con quantità di melodramma e ripetizione, non sapendo invece di sbagliare. 

Presa quasi da un raptus di follia come a voler dimostrare di essere ancora più imponente e più spropositato di quanto aveva fatto con il Train to Busan di ben altro tenore, la produzione sequel di Sang-ho concentra le proprie forze sull’esaltazione che, nella sostanza, nasconde soltanto la verità di scene già viste e, un secondo dopo, dimenticate, non riuscendo a riproporre quell’epicità che, seppur modesta, aveva designato il reale successo della pellicola passata, finendo per sembrare certamente più grande e sontuosa, ma dovendo scontare il peso della mediocrità.

Un contraltare che sembra quasi una contraddizione in essere, vista l’ingerenza tale con cui Peninsula dispone le proprie pedine e le fa muovere con febbrile animosità, ma che dietro alla presunta grandezza nasconde proprio quella vuotezza che sembra derivare dalla saturazione di un’idea che, in Train to Busan, si legava a un concetto di luogo – il treno – e di spazio – il percorso da casa a Busan – definiti, aprendosi enormemente con una pellicola che non riesce a soddisfare le sue stesse prerogative e finendo per colpire e funzionare meno della schiettezza e autenticità di quello a cui, in prima istanza, si rifaceva.

Lo scontro tra qualità e botteghino

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Un incasso notevole al botteghino che può dunque venir attribuito più alla speranza di veder riproposta la fantasia consistente del lavoro precedente di Yeon Sang-ho che una reale ammirazione per un film che eccede con precaria e discutibile inerzia, ma in una rimarcazione continua del dramma che rende insofferente il racconto, assieme a un crescendo musicale d’accompagnamento a sottolineare il dolore e la tragicità dei momenti.

Un caso, quello di Peninsula, interessante sotto la sua lente economica e di fruibilità del prodotto in sala dopo la sventura della quarantena, ma che in verità, al suo interno, è solo nebbia che offusca la vista degli spettatori con sequenze orrorifiche di dubbio gusto e una frenesia a tratti fastidiosa e insensata.