I danari per la politica sono come le armi per la guerra, mi spiace deludere qualcuno ma…la democrazia ha un costo”

“L’ho aspettato sei mesi, ma volevo solo lui” raccontò Gianni Amelio riferendosi a Pierfrancesco Favino e, guardando il risultato finale, come potremmo dargli torto?
Arriva nelle sale italiane un’opera autobiografica che si contamina, delicatamente, con la tragedia greca. Una prosopopea dell’esistenza, dove il nichilismo delle strutture, schiaccia l’essenza dell’uomo. La storia di Bettino Craxi ha un nome: Hammamet.

Hammamet

Il pluripremiato regista Amelio, torna al cinema con una creatura che fa l’eco alle precedenti narrazioni nostrane di politici cardine della nostra storia, come Il Divo o Loro, offrendoci lo spaccato degli ultimi istanti della vita dello storico leader socialista dopo i fatti di Mani Pulite.

Il giocattolo di Amelio è delicato, difficile da maneggiare, e non tutti gli spettatori potranno e/o sapranno coglierlo nella sua totalità, vista l’innata capacità del cineasta nel mostrarci una narrazione asettica (nel senso buono), incapace di far vertere la bilancia da una parte. Partendo da una locandina che si candida per essere tra le più povere e tristi della storia italiana, riuscendo però a centrare il segno con gli intenti iniziali, le vicissitudini di Bettino Craxi sono narrate passo dopo passo in un esilio forzato. La città tunisina diventa un tristo e spoglio girone infernale che, per la legge del contrappasso, dona al leader socialista una sofferente quiete e l’anonimato, ponendolo su un piano bianco privo di ornamenti.
I tempi dei garofani rossi sono perduti nella memoria, quello che resta al politico è una serra di sabbia che consuma il suo animo e inaridisce la sua famiglia.

In questa struggente narrazione, ricca di sottilissima ironia, manca però un ritmo vero. Gli eventi vengono privati di un piano temporale, i protagonisti non hanno una vera identità, non si sentono cognomi, e il protagonista non verrà mai chiamato se non con il titolo di “Presidente” o “papà”.  L’epica si affievolisce, la storia diventa memoria, e la macchina arriva a conclusione senza vere sporcature. Troppo pulita, troppo limpida.

In questa sobria e minimalista cornice, il vero protagonista è Pierfrancesco Favino. L’attore romano dimostra nuovamente di poter essere un vero orgoglio nazionale (mantenendo, dopo Il Traditore, un livello eccezionale). Una pietanza prelibata e camaleontica tale da poterci far gonfiare il petto ancora una volta. Un ruolo scomodo, delicato, fine, affrontato in maniera eccelsa nella dialettica, nella postura, nell’espressività facciale, e con una recitazione bilingue di prim’ordine.
Una figura che acquisisce ulteriore valore grazie all’incredibile lavoro svolto dal team di truccatori, i quali, adoperando delle innovative tecniche di trucco e protesi facciali, adoperate sino ad ora ”solo in Inghilterra” (parola di Amelio), permettono ad Hammamet di seguire la scia lasciata da Gary Oldman con L’ora più Buia, donando al cinema italiano, sotto questo aspetto, nuova linfa vitale. Un trucco che necessitava di tre ore di preparazione e altre due per essere rimosso, ma che ha permesso una resa incredibile.

Hammamet

Hammamet, intesa come città, è un micro mondo quieto, dove le abitazioni bianche e la sabbia delle strade permettono di esaltare ancora di più l’animo di Craxi. Il fragore delle onde sulle coste tunisine, o la scrosciante pioggia, sono gli unici elementi visivi e sonori che permettono di rompere questo perfetto equilibro. Come se l’acqua, nella sua ciclicità, decidesse di portare via e filtrare ulteriormente le colpe di un uomo abbandonato al suo destino.

Hammamet prende delle sembianze oniriche, diventando sogno ed incubo di una mente che prova a vincere la lotta contro una carne stanca.

La difficoltà della pellicola sta tutta nella sua capacità di sapersi adattare alla narrazione del tempo, senza cadere mai nell’eccesso. Forse manca di quell’appeal tale da poterla rendere un’opera più frizzante di quello che realmente poteva essere, o forse non riesce a trovare una sua reale collocazione temporale a livello cinematografico (e alcuni green screen lo confermerebbero), ma resta il fatto che a questa creatura manca qualcosa per poter spiccare realmente il volo. Un vuoto che è perfettamente incarnato da Bettino Craxi. Una figura che si limita ad esistere dopo essere stata privata di tutto.

Un uomo che, però, non viene mai mostrato come martire.Le colpe sono poste in bella mostra sul tavolo, ma è l’essere stato l’unico vero capro espiatorio del secolo che fa riflettere realmente lo spettatore. In un sistema malato, dove la collettività pecca e sovrasta il singolo, è lecito pensare che sia il singolo l’unico vero factotum? Amelio e Favino ci pongono l’interrogativo, tra uno stacco e l’altro, tra una ballata romantica e un film alla TV, tra una spiaggia e uno sguardo al tramonto, ricordandoci di ricordare senza mai giudicare, perché a quello ci penserà la Storia di cui noi saremo solo spettatori.

Leonardo Diofebo
Classe '95, nato a Roma dove si laurea in scienze della comunicazione. Cresciuto tra le pellicole di Tim Burton e Martin Scorsese, passa la vita recensendo serie TV e film, sia sul web che dietro un microfono. Dopo la magistrale in giornalismo proverà a evocare un Grande Antico per incontrare uno dei suoi idoli: H. P. Lovecraft.