Gli autori italiani non amano più il cinema di genere.

(Pupi Avati, conferenza stampa romana de Il Signor Diavolo).

 

Il cinema italiano conta ormai sulla punta delle dita i Maestri che ancora lavorano e portano in sala opere nuove. Per questo, quando Pupi Avati non solo firma un nuovo film, ma torna al genere che l’ha lanciato, l’horror, la notizia merita sicuramente tutta la nostra attenzione. 

Nonostante questa operazione si inserisca nel trend internazionale che valorizza il cinema di genere come prodotto d’autore, se vi aspettate di vedere un horror in linea con quelli usciti negli ultimi anni, allora è il caso di fare qualche premessa.

Il Signor Diavolo è un horror d’autore

L’equilibrio tra genere e autorialità è un elemento che i cinefili apprezzano e riconoscono anche nelle firme più giovani, come Jordan Peele, Ari Aster, Pascal Laugier. Si può dire che Avati abbia fatto scuola, in questo senso, destreggiandosi con sicurezza sia in produzioni horror, sia in commedie o drammi. In tutti i suoi film, la mano di Avati resta più che riconoscibile, imprimendo in ogni scena e in ogni scelta la sua forte personalità.

il signor diavolo

Uno di questi tratti distintivi sta nella scelta dell’ambientazione, tanto cara al vissuto di Avati. La storia dell’omicidio del giovane e deforme Emilio (Lorenzo Salvatori) da parte del coetaneo Carlo Mongiorgi (Filippo Franchini) si consuma nei paesaggi sinistri delle campagne venete, dove – specialmente negli anni Cinquanta – la componente cattolica era particolarmente opprimente. Il contesto storico-politico della storia raccontata da Avati (che firma la sceneggiatura tratta dal suo romanzo insieme al figlio Tommaso e al fratello Antonio) è infatti quello dell’Italia della Democrazia Cristiana, a cui si fa riferimento esplicito nell’incipit del film.

La dimensione politica è intrinsecamente legata allo svolgimento dei fatti, difatti il protagonista (uno dei protagonisti) è proprio un inviato dal Ministero, Furio Momentè (Gabriele Lo Giudice). Questo omino timido e bistrattato dalla vita è incaricato di evitare che “un religioso finisca in tribunale”, proprio per preoccupazione manifesta del gabinetto di De Gasperi che vuole scongiurare qualsiasi interferenza sulla fedeltà dell’elettorato veneto. 

Parliamo di horror gotico

L’elemento religioso è molto sentito da Avati, così come dimostra la sua filmografia. Restando nella produzione di genere, infatti, tutti gli horror firmati dal regista emiliano hanno un personaggio legato alla Chiesa Cattolica. Lui stesso non fa mistero di essere stato fortemente segnato nel suo immaginario da tutto quello che è legato al rito, alle credenze e al misticismo cristiano. Come i protagonisti più giovani de Il Signor Diavolo, anche Avati è stato chierichetto, maturando suggestioni persistenti alimentate dal timore del Pulpito pre-conciliare, da messe in latino e dalla costante incombenza del Diavolo sulle coscienze. 

il signor diavolo

Sta di fatto che, da La casa dalle finestre che ridono (1976), a Zeder (1983), passando per Thomas e gli indemoniati (1970) e risalendo fino a Balsamus, l’uomo di Satana (1968), nei film di paura di Avati la religione ha sempre un peso determinante nella creazione di quell’ambientazione creepy che rimane così fortemente scolpita nella mente dello spettatore.

La provincia, una mentalità antidiluviana, il completo saltare di ogni schema logico-razionale spesso si scontrano con personaggi esterni, provenienti dal cosiddetto mondo civilizzato. La grande forza dell’Italia antitecnologica, quella delle favole contadine, sconvolge questi visitatori scettici e vince su ogni tentativo di normalizzare il grande mistero di Dio, della Morte e del Diavolo. 

Non è un caso che il primo romanzo gotico della storia, firmato dal britannico Horace Walpole sia ambientato in Italia. Il castello di Otranto, pur ambientato in terra completamente diversa da quella raccontata da Avati, ha con essa un elemento in comune: la fortissima influenza del sacro nella cultura popolare

Un horror di famiglia

Altra cifra riconoscibile della mano di Avati è la scelta del cast, composto sia da volti nuovissimi (quelli dei ragazzi) sia da attori che hanno alle spalle collaborazioni decennali con il regista. Ne Il Signor Diavolo, infatti, tornano Lino Capolicchio (il protagonista de La casa dalle finestre che ridono), che ha preso parte a nove film di Pupi Avati, Cesare S. Cremonini che aveva avuto già delle parti sia in Ma quando arrivano le ragazze? e ne Il papà di Giovanna, Alessandro Haber, che col regista ha girato Regalo di Natale e La rivincita di Natale, Andrea Roncato (il comico ha partecipato a sei film di Avati) e Gianni Cavina, che ritroviamo anche in Balsamus, Thomas e gli Indemoniati, Bordella, La casa dalle finestre che ridono e diverse altre produzioni di genere del Maestro.

Questo rapido elenco di nomi e film fa capire il tono quasi familiare con cui Avati si è cimentato nel progetto. Il regista ripropone un cinema artigianale, in un periodo in cui l’horror ha completamente assimilato il supporto visivo del digitale. Per realizzare questa impresa reazionaria, è intervenuto uno specialista del settore, già legato professionalmente al regista emiliano e a molti altri autori dell’horror all’italiana: Sergio Stivaletti

Analogamente, anche l’autore della colonna sonora, è un nome noto ai fan di Avati. Si tratta di Amedeo Tommasi, pianista jazz e storico collaboratore, già firma del commento musicale della già citata La casa dalle finestre che ridono e di tanti altri cult.

Il signor Diavolo, tra infanzia e vecchiaia

Salvo gli interpreti storici, più rodati – come Capolicchio, Haber, Roncato –  e la performance convincente di Chiara Caselli, le doti attoriali degli altri personaggi sono visibilmente acerbe. Bisogna riconoscere, però, che non è per nulla semplice rendere naturale una sceneggiatura così poco quotidiana e ambientata in un contesto decisamente sopra le righe. E probabilmente questo non era neanche tra gli obiettivi del regista.

Tra le componenti che risultano allo stesso tempo efficaci e fortemente distintive dell’immaginario di Avati, infatti, c’è la scelta di volti decisamente carichi, ritratti in maniera grottesca. Quasi filtrati dalla memoria distorta di un bambino, che vede il male, il demonio e il pericolo in ciò che è brutto e oscuro, i protagonisti sono fantocci di un mondo antico, magri, deformi, emaciati. Avati reinterpreta la figura del bambino nell’horror, dando una chiave di lettura assolutamente personale a uno dei cliché più longevi e sfruttati del genere.

Per apprezzare Il signor Diavolo occorre entrare in sala consapevoli di vedere un film che parla un linguaggio  fuori dal tempo, concepito da un cineasta che impone la sua visione senza curarsi di compiacere il pubblico. Il dubbio resta su quale tipo di spettatori questo film sarà in grado di intercettare e se riuscirà a essere compreso da chi ormai parla un linguaggio completamente diverso. Alcune scelte registiche, tra cui l’uso reiterato del rallenty, sono espedienti visivi a cui siamo sempre meno abituati e ritrovarli sul grande schermo può destabilizzare un occhio calibrato su un’estetica patinata.

il signor diavolo

Finisce che l’autorialità di Avati fa il giro su se stessa e dà lezione a tutti su come “colto” non significhi “complicato”. La storia de Il signor Diavolo – come suggerisce il tono ingenuo del titolo – è semplice e non mancano le imperfezioni: eppure, quello che trasmette è un vero gusto del racconto, come quello dei bambini che giocano a spaventarsi raccontandosi storie al buio.

Mettersi i brividi, cercare il dettaglio, colorare ogni scena con le tinte più turpi: Avati torna all’essenza del racconto dell’orrore con l’ispirazione di chi riconosce la paura come sentimento sacro, irrinunciabile e atavico, comune a vecchi e a bambini e primo motore (im)mobile di ogni autore che voglia dedicarsi al cinema di genere.  

Parte della campagna Moviement, che si impegna a distribuire titoli “forti”anche nella più svantaggiosa stagione estiva, Il Signor Diavolo sarà in sala a partire dal 22 agosto. 

 

Francesca Torre
Storica dell'arte, giornalista e appassionata di film e fumetti. Si forma come critica tra Bari, Bologna, Parigi e Roma e - soprattutto - al cinema, dove cerca di passare quanto più tempo possibile. Grande sostenitrice della cultura pop, segue con interesse ogni forma d'arte, nella speranza di individuare nuovi capolavori.