In viaggio col suocero

Ogni mese, da quando esiste, Netflix rinnova il suo catalogo puntuale come l’Araba Fenice che periodicamente risorge dalle sue ceneri (o come Fanny, esempio lampante per i tutti i fan potteriani). Spesso questa marea del cambiamento si abbatte su alcuni dei titoli più apprezzati come un’onda anomala, privando gli spettatori di questo o quel film messo da parte in vista di giorni migliori o di questa o quella serie TV. Ultimamente, la perenne risacca ha visto buone pellicole sparire nel nulla e altre prendere il loro posto, in particolare quelle originali prodotte e pensate dalla piattaforma. Film, come abbiamo detto più volte su queste pagine, spesso inconcludenti, fini a se stessi, incapaci di trovare un motivo valido per farsi guardare, complice anche una promozione non convincente.

Alla fine, il risultato è chiaro: Netflix non sembra riuscire ad offrire una cinematografia degna di questo nome, in grado di rivaleggiare con le altre case di produzione tradizionali. Il motivo di questa mancanza è sconosciuto ai più. Com’è possibile che un marchio famoso per offrire al proprio pubblico alcuni dei prodotti televisivi migliori del globo faccia così tanta fatica misurarsi col grande schermo? Complotti e dietrologie a parte, si tratta di una carenza che spesso rischia di danneggiare anche quei pochi film meritevoli, perlomeno, di una possibilità. Ed è questo il caso di La fine (How it ends), uscito il 13 luglio.

 

Will (Theo James) è un giovane avvocato in rampa di lancio, convive da sei anni con la ragazza Sam (Kat Graham) a Seattle e i due progettano di sposarsi. Decidono di non perdere altro tempo quando scoprono che aspettano un bambino, un maschio. Allora Will parte per andare a Chicago e chiedere la benedizione al padre di lei, Tom (Forest Whitaker), un ex marine severo, burbero e all’antica con cui non ha un buon rapporto. L’incontro tra i due si risolve in nulla di fatto. Will, deluso, cerca di partire per tornare dalla sua amata ma all’aereoporto sembra essere scoppiato il finimondo: tutti voli sono stati cancellati e un improvviso blackout ha messo in ginocchio la città. Le notizie, in giro per il paese, non sono confortanti. Un disastro di proporzioni epocali ha flagellato gli Stati Uniti. Preoccupato per Sam, Tom progetta di andare in macchina fino a Seattle per salvarla e parte insieme al futuro suocero. I due viaggeranno in un’America sull’orlo del baratro e impareranno presto a lottare per sopravvivere.

Ad essere sinceri, più che la trama ad essere veramente interessante è la vicenda che sta dietro la realizzazione di questo film. La sceneggiatura, infatti, è stata scritta ben otto anni fa da Brooks McLaren, un autore molto apprezzato nell’ambiente eppure, stranamente, introvabile. Di lui si sa veramente molto poco. Non è ben chiaro a cosa abbia effettivamente lavorato e perfino sulla rete non si trovano informazioni valide, se non qualche indizio sulla sua nazionalità canadese. Ma le bizzarrie non finiscono qui: oltre all’alone di mistero che circonda il suo autore, anche lo script ha dietro di sé una storia molto particolare. È stato pescato infatti dalla celebre Black List, ovvero il sondaggio annuale che riporta le sceneggiature più amate di Hollywood ma che, per qualche motivo, non hanno ancora attirato l’interesse di qualche produttore.

Chi conosce bene i meccanismi dell’industria sa bene che a volte ci vuole tempo affinché un testo, per quanto valido, venga trasformato in un film e spesso ce ne vuole molto di più per dare il via all’intero processo. Sono molti i capolavori che sono passati per questa famosa lista. Per citarne un paio: The Millionaire, Argo e Il Caso Spotlight. A questo punto, c’è quasi da domandarsi se venire inclusi in questa insolita classifica non sia un riconoscimento per le proprie potenzialità. Ed è proprio seguendo questa idea che, nel 2011, ha portato la Sierra/Affinity ad investire un discreto budget in How it ends, sotto l’egida di Paul Schiff. Il realtà, il progetto si è trascinato per anni finché David Rosenthal non è salito a bordo, prendendosi carico della regia e di alcune scelte rischiose, fino all’intervento di Netflix che ne ha acquistato i diritti di distribuzione.

Dunque, non si tratta esattamente di un prodotto originale bensì di un’operazione in stile Annientamento, realizzato da diverse case editrici (tra cui Paramount) e solo ospitato sulla piattaforma.

Aspetto, questo, che non pare secondario in quanto La fine dà l’impressione di essere pensato e strutturato in maniera diversa rispetto agli altri film Netflix, perfino quelli con cui condivide, di fatto, idee e riferimenti, come il recente Cargo.

Infatti, sebbene ben lontano dall’essere un capolavoro, la fatica di David Rosenthal si presenta con tutt’altra statura, capace di guardare dall’alto in basso diverse uscite recenti, complice uno script denso e perfettamente circolare che non lascia spazio a fraintendimenti o sbavature di sorta. Anzi, il lavoro di McLaren è un sapiente gioco letterario e filmico che si ispira a tanti generi diversi, dal road movie al post-apocalittico (anzi, inter-apocalittico), che non perde mai la bussola e mette in scena un’evidente ma non scontata metafora sul concetto di paternità.

Si tratta, dunque, di una nuova (buona) prova di quel filone di narrativa moderna che, attraverso pretesti catastrofici, punta l’occhio sull’umanità dei personaggi, sulla falsariga di un modello ormai diventato istituzionale mutuato soprattutto da The Walking Dead di Robert Kirkman e da La strada di Cormac McCarthy. Non a caso, non si viene mai a conoscere l’origine del disastro ma solo le sue conseguenze: la civiltà che crolla su stessa, la sopravvivenza che si trasforma in una lotta senza esclusione di colpi, l’avvento della legge dell’homo homini lupus.

Ma questo è anche, paradossalmente, il difetto principale del film, che si accartoccia troppo facilmente sul suo messaggio senza lasciare qualche spunto ulteriore, limitandosi ad andare da un punto A a un punto B , seppur con una certa chiarezza. Qualcosa in più si poteva quindi fare, per un progetto che conta un cast stellare, tra cui svetta un arcigno e inossidabile Forest Whitaker, accompagnato da un Theo James apprezzabile, specialmente verso la fine. Meraviglioso è, invece, l’aspetto tecnico del film. La regia di Rosenthal non commette errori ed è esattamente in linea con le atmosfere del film, mentre la fotografia di Peter Flinckenberg è uno degli elementi di forza di tutta la visione e dà il suo meglio nelle scene apocalittiche. Alle musiche troviamo, poi, un pezzo da novanta: Atli Örvarsson, uno dei pupilli di Hans Zimmer.

la fine

Verdetto

La fine (How it ends), ultima uscita di Netflix con protagonisti Theo James e Forest Whitaker, più che un film somiglia ad un colto racconto di genere che si innesta perfettamente in una tradizione lunga e consolidata. Ma, purtroppo, si ferma lì e rimane un po’ al palo quando avrebbe potuto cercare di andare oltre. Resta, comunque, una spanna sopra rispetto alle pellicole disponibili sulla piattaforma e merita di sicuro una possibilità.

 

Se il film vi ha intrigato e volete approfondire…

Su Netflix potete trovare Cargo, che noi abbiamo recensito. Ma se proprio volete andare alla fonte del genere, allora vi consigliamo il libro La strada di Cormac McCarthy, pubblicato in Italia da Einaudi, o The road, il film del 2010 con Viggo Mortensen.

Elia Munaò
Elia Munaò, nato (ahilui) in un paesino sconosciuto della periferia fiorentina, scrive per indole e maledizione dall'età di dodici anni, ossia dal giorno in cui ha scoperto che le penne non servono solo per grattarsi il naso. Lettore consumato di Topolino dalla prima giovinezza, cresciuto a pane e Pikappa, si autoproclama letterato di professione in mancanza di qualcosa di redditizio. Coltiva il sogno di sfondare nel mondo della parola stampata, ma per ora si limita a quella della carta igienica. Assiduo frequentatore di beceri luoghi come librerie e fumetterie, prega ogni giorno le divinità olimpiche di arrivare a fine giornata senza combinare disastri. Dottore in Lettere Moderne senza poter effettuare delle vere visite a domicilio, ondeggia tra uno stato esistenziale e l'altro manco fosse il gatto di Schrödinger. NIENTE PANICO!