Follia e Supereroi quando la malattia mentale diventa parte del fumetto

Il modo più efficace di comprendere cosa unisca i mondi della malattia mentale e quello dei supereroi, probabilmente, è una delle citazioni più note dei fumetti.

«Basta una giornata storta per trasformare il migliore degli uomini in un folle. Ecco quanto dista il mondo da me. Una giornata storta. Anche tu hai avuto una giornata storta, dico bene? Ne sono certo. Lo capisco. Hai avuto una giornata storta e tutto è cambiato. Altrimenti perché ti vestiresti come un topo volante? Una giornata storta che ti ha reso pazzo quanto tutti gli altri… Solo che tu non lo ammetti!»

Difficile che un lettore non riconosca queste parole. È quanto afferma il Joker in uno dei suoi più famosi confronti con Batman, sulle pagine di The Killing Joke di Alan Moore. E forse è proprio il Bardo di Northampton ad aver colto la vera natura dei supereroi, fatta di follia, psicosi, ossessione.

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Cercare di parlare del rapporto che lega malattia mentale e supereroi potrebbe non essere così semplice. In primo luogo perché si rischia di porre un argomento delicato sotto una luce banale. Quanto si può essere sani di mente quando ci si mette addosso una calzamaglia e si inizia girare per la città in cerca di criminali? Certo, c’è la scusa del bene superiore, della necessità di fare qualcosa per proteggere le persone, ma si potrebbe anche obiettare che non tutto il mondo è Gotham City e che in fondo esistono esercito e polizia per fare questo lavoro.

Ma la verità, forse, è un’altra. Che la malattia mentale nei supereroi è sempre presente. Un convitato di pietra terribile, che osserva con il suo sguardo gelido quel carnevale di maschere e anime in fiamme. Un nemico che nessuno può realmente sconfiggere. Non importa quali gadget a forma di pipistrello tu abbia nella cintura e quanto forte pizzichi il tuo senso di ragno. Quella maledetta follia è lì, davanti a te. La vedi negli occhi del tuo avversario così a lungo da ritrovarla in te stesso allo specchio. È quel momento in cui realizzi che, a forza di scrutare nell’abisso, l’abisso è entrato in te.

Un’America diversa, una pazzia diversa

Nel leggere le pagine dei fumetti ci accorgiamo di una cosa: nella Golden e nella Silver Age, i primi a mostrare evidenti segni di squilibrio mentale, non furono gli eroi. Questo ruolo spettava ai cattivi, ai villain. La pazzia, almeno in un primo momento, è qualcosa di fortemente macchiettistico.

Quando il Joker compare sul primo numero della testata dedicata a Batman lo stesso Bob Kane, creatore del personaggio, non era consapevole di aver scoperchiato il vaso di Pandora, tanto che si pensava di fare del Giullare del Genocidio un nemico usa e getta, uccidendolo alla fine della prima avventura. E, forse anche per questo, quel Joker appariva del tutto pazzo, cartoonesco nel suo modo di affrontare la vita da criminale.

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La pazzia nel comic americano, almeno in questa prima fase, sembra essere gettata tutta in una categoria calderone che si rifà alla psicopatia. Inutile cercare una motivazione profonda in ciò che sta cercando di fare Joker. In fondo è pazzo, giusto? Lo stesso discorso potrebbe applicarsi a un numero indefinito di pittoreschi criminali affrontanti dagli eroi Marvel e DC nella Golden Age.

Di certo la soluzione appare semplicistica ma, a modo suo, confortante. La malvagità non va spiegata: essa risiede solo in una pittoresca forma di malattia mentale. E poco importa se allo stesso tempo una simile rappresentazione finisce per demonizzare ogni forma di malattia mentale.

Le cose sembrano cambiare un po’ nella Silver Age. Gli Stati Uniti degli anni Sessanta sono un mondo diverso da quelli dell’età del conformismo. Lo stesso fumetto è uscito trasformato e ridimensionato dagli anni Cinquanta, complice anche le accuse lanciate da Fredric Wertham nel suo best-seller Seduction of the Innocent. Tuttavia gli anni Sessanta, con la diffusione delle controculture, sembrano divenire il crogiolo perfetto per la sperimentazione di nuove tematiche nel fumetto supereroistico.

Spider-Man Mysterio

Una delle testate pioniere nel parlare della psicologia dei supereroi fu Spider-Man. Non sorprende, se pensiamo a quanto sia stato all’avanguardia il nostro amichevole Uomo Ragno di quartiere. Tuttavia già nel 1964, sotto la gestione di Steve Ditko e Stan Lee, Spidey fu sul punto di entrare in analisi.

Nel momento in cui Mysterio iniziò la sua carriera di criminale prese le sembianze di Spider-Man, incastrandolo per una serie di rapine. Non avendo idea di chi fosse il suo avversario Peter considerò l’idea di aver subito un disturbo dissociativo. Forse, a forza di vivere una doppia vita, Spider-Man era diventato una personalità diversa e stava cercando di emergere. In effetti Ditko e Lee riuscirono in un’impresa non da poco per l’epoca: non demonizzarono una forma di disturbo mentale. La possibilità che Peter fosse impazzito e si potesse curare con delle sedute presso uno psicologo venne trattata con una certa sensibilità, cosa difficile da concepire per gli anni Sessanta.

Ma l’evoluzione dell’atteggiamento verso la malattia mentale e la psicanalisi non riguardò solo i supereroi. Emblematico fu il caso di Green Goblin, acerrimo nemico dell’Uomo Ragno. Proprio sull’identità di Goblin si giocò un nuovo importante tassello nel rapporto tra la psicosi e il fumetto: la scelta di porre Norman Osborn sotto il costume del sanguinario nemico di Spidey cambiò non poco le carte in tavola. Osborn aveva subito un disturbo dissociativo dell’identità a causa di un incidente di laboratorio.

Eppure di Norman, fino a quel momento, avevamo avuto un quadro distante dalla follia del Goblin. Quello di un padre che, pur essendo distaccato, amava suo figlio Harry ed era profondamente preoccupato per lui. E di un uomo di affari che pur di mantenere alto il nome della sua azienda aveva fatto di sé una cavia umana. La follia aveva ora un nome. Persino dei sentimenti, una famiglia che lo amava, pur tra mille difficoltà. Il mostro aveva una storia. E la sua follia una spiegazione.

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Cadere nell’abisso

Lo abbiamo detto, anche negli eroi può nascondersi una vena di pazzia. Con la fine della Silver Age e l’inizio dell’età del Bronzo del fumetto, vediamo configurarsi una nuova sfida per il comic americano dei supereroi. La CCA, l’organo di censura del fumetto a stelle e strisce, aveva allargato le proprie maglie e per gli eroi statunitensi non era più un tabù parlare di droga, sessualità e anche la malattia mentale assunse un aspetto diverso.

Non più relegata a deus ex machina delle azioni dei villain, essa era diventata una condizione da affrontare anche per i supereroi. E, nel farlo, scompare anche quel calderone che aveva da sempre mescolato al suo interno le storie e le patologie di tanti personaggi differenti.

Gli anni Settanta e gli Ottanta videro i supereroi far fronte a una serie di sfide del tutto nuove. Captain America perse la fede nel sogno americano. Spider-Man vide morire Gwen Stacy. In entrambi i casi non vediamo gli eroi scrollarsi la polvere di dosso con un semplice gesto, come era spesso successo nei primi anni delle loro storie. Si affacciò su di loro lo spettro della disillusione e della depressione, qualcosa che per la prima volta li costrinse a riconsiderare il loro ruolo. Il supereroe può davvero fare la differenza?

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Mettere in discussione se stessi sembra essere la parola d’ordine delle nuove pubblicazioni. Qualcosa che viene portato all’estremo con il ciclo Demon in a Bottle, dove Tony Stark arrivò a chiedersi chi fosse la “zavorra”: lui o Iron Man? La disillusione, in questo caso, si trasformò in dipendenza, una mancanza di valori che generò un vuoto da colmare con gli alcolici.

E non è un caso isolato di spirale distruttiva per un Vendicatore. Più o meno nello stesso periodo assistiamo all’ingresso nel mondo del fumetto del disturbo bipolare, presente nella persona di Henry Pym. Geniale inventore delle omonime particelle, Pym è uno dei membri fondatori degli Avengers, ma la sua carriera sembra segnata da un’insoddisfazione che lo porta a cambiare costantemente la propria identità. Ant-Man, Giant-Man, Golia, Calabrone. Il tutto accompagnato da un forte senso di colpa per la creazione di Ultron e la sensazione di non essere all’altezza dei suoi colleghi.

Il desiderio di dimostrare le sue capacità (nato, anche qui, da una brutta giornata nella lotta contro Elfqueen) lo portò a mettere in pericolo l’intera squadra. Una totale mancanza di empatia verso gli altri Avengers che lo condurrà a costruire il robot assassino Salvation pur di sembrare un eroe e a picchiare la moglie Wasp, desiderosa solo di farlo tornare a più miti consigli.

Eroismo: vocazione od ossessione?

Con Hank Pym il confine tra i mondi dei supereroi e quello della malattia mentale si fanno più sottili. Essere all’altezza della squadra diventa un’ossessione tale da consumare Hank.

Gli anni Ottanta e gli anni Novanta segnarono un profondo cambiamento nell’atteggiamento verso la malattia mentale nei supereroi. Si arrivò anche a mostrare in maniera esplicita la psicanalisi sulle pagine del fumetto, come nel caso di Hulk, sottoposto a una terapia d’urto da parte di Doc Samson per rimettere insieme i frammenti della sua personalità. Uno dei momenti che rese grande la gestione del Gigante di Giada di Peter Allen David.

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Eppure fu solo uno dei molti casi in cui i nostri eroi iniziarono a mostrare una serie di profondi disordini della personalità. Depressione, complesso del Messia, stress post-traumatico si affacciarono sempre più di frequente nella vita dei super, diventando spesso la molla che li costrinse a muoversi, a vestirsi in modo evocativo e appariscente per lottare contro il crimine.

Negli anni eroismo e follia sono diventati due facce della stessa medaglia. Ci sono esempi più o meno lampanti, come i disturbi di Wolverine e di Deadpool. Alcuni sono “esplosivi”, come nel caso di Scarlet, giunta a una tale dissociazione dalla realtà da decidere di riscriverla su istigazione del fratello Quicksilver. Ma ci sono anche esempi meno lampanti, alcuni nascosti in piena vista. Come l’intera carriera di Batman.

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Se ripercorriamo la vita del Crociato Incappucciato c’è un assunto da tenere presente: la morte dei suoi genitori. La perdita brutale sofferta dal piccolo Bruce lo spinse a cercare un modo di eliminare ciò che aveva causato quel lutto. Il suo senso di smarrimento e di vuoto si tradusse nella volontà di combattere il crimine, trascinandolo verso un gorgo di follia.

La volontà di combattere il crimine è per Bruce quasi un’ossessione, come ampiamente dimostrato da Bane nel ciclo Knightfall. Un vero Complesso del Messia, che lo costringe a salvare tutti, persino i criminali che combatte. La No Killing Rule ne potrebbe essere un esempio.

Alan Moore riuscì a cogliere questa vena di follia nel Paladino di Gotham nel suo The Killing Joke in maniera magistrale. Le parole pronunciate al momento della cattura del Joker rivelano il desiderio di Batman di aiutare chiunque. Persino l’uomo che aveva sparato a Batgirl e aveva tentato di far impazzire il Commissario Gordon.

«Forse posso aiutarti. Potremmo lavorare insieme. Potrei riabilitarti. Non è necessario che tu affronti nuovamente la follia. Non è necessario che tu sia solo».

In fondo è solo una brutta giornata

Nel parlare del potere di una brutta giornata sulla psiche delle persone Moore arrivò a suggerire qualcosa di impensabile per il lettore del 1988. Batman non era altro che un Joker mancato. E, forse, Joker era un Batman che non ci aveva creduto abbastanza. Un’inversione di ruoli che Sean Murphy ha ripreso con successo in Batman: White Knight.

Se ci riflettiamo la scelta dei supereroi di lanciarsi nella lotta al crimine nasce spesso da una brutta giornata. Una perdita, un incidente, un evento che segna per sempre la loro vita. Eppure qualcosa, dentro di loro, gli impedisce di impazzire. Qualcosa permette loro di convivere con l’ossessione, con la follia, facendone un’arma per fare del bene. In un certo senso, proprio il saper convivere con la pazzia, impedire che essa prenda il sopravvento, è il loro atto di eroismo più grande. La capacità di dominare la loro ossessione, la loro malattia mentale, di farne qualcosa di positivo, diventa un potere, capace di trasformare gli eroi in supereroi.

Federico Galdi
Genovese, classe 1988. Laureato in Scienze Storiche, Archivistiche e Librarie, Federico dedica la maggior parte del suo tempo a leggere cose che vanno dal fantastico estremo all'intellettuale frustrato. Autore di quattro romanzi scritti mentre cercava di diventare docente di storia, al momento è il primo nella lista di quelli da mettere al muro quando arriverà la rivoluzione letteraria e il fantasy verrà (giustamente) bandito.