In Giappone le maschere fanno parte di una tradizione millenaria, che unisce riti religiosi, rappresentazioni teatrali e cultura popolare

Le maschere, in Giappone, sono molto più di semplici dispositivi usati per coprire il viso o rappresentare qualcosa di altro da se stessi. Analizzando la loro storia è possibile riconoscere molti degli aspetti che costituiscono in generale la fascinazione che proviamo per il Sol Levante. Come diversi altri artefatti di questa cultura le maschere sono protagoniste, allo stesso tempo, della vita religiosa, delle tradizioni e persino del folklore. Una continuità tra sacro e profano, tra serio e scherzoso, tipicamente orientale e così lontana dalla nostra quotidianità. Senza ulteriori indugi, andiamo a scoprire alcune delle maschere più famose del Giappone.

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Maschere in Giappone: il teatro Noh

Il teatro Noh, nato in Giappone tra l’XI e il XV secolo, è il punto di arrivo di millenni di storia, attraverso i quali la maschera si è evoluta, cambiando palcoscenico senza però mutare fino in fondo il proprio carattere sacrale di ricettacolo del divino. Tutto inizia nel periodo Jomon (1000-4000 a.C.), quando nei primi riti di possessione gli sciamani indossano una maschera per diventare temporaneamente il kami (divinità). Con l’arrivo del Buddhismo l’iconografia si differenzia e le danze religiose popolari (kagura) cominciano a codificarsi, alternando segmenti farseschi e sacri. L’adattamento di queste pratiche al gusto maggiormente raffinato dell’aristocrazia porta al teatro Noh che conosciamo oggi. Anche le maschere subiscono un processo di standardizzazione, per poter rappresentare archetipi ricorrenti negli spettacoli.

La maschera Noh (honmen) è oggi un oggetto estremamente raro e prezioso, fabbricato da intagliatori specializzati con legno di cipresso giapponese (hinoki) ricoperto da una polvere di conchiglie bianche tritate (gofun), sulla quale vengono poi praticate pittura e laccatura. Eventuali crini di cavallo vengono aggiunti per simulare capelli o peluria. Le honmen, quando non sono usate in scena, vengono conservate come reliquie, all’interno di apposite scatole di legno, lontane da luce, umidità e occhi profani. Alcune sono antichissime, tramandate di maestro in maestro nelle cinque scuole Noh del Giappone.

Per quanto riguarda le rappresentazioni, di solito l’unico a indossare una maschera è il l’attore principale (shite), che prima dello spettacolo compie un vero e proprio rito di possessione: nella stanza degli specchi (kagami no ma) egli indossa la maschera, smette di essere se stesso e diventa l’archetipo raffigurato, facendosi anello di congiunzione tra tempo mitico e tempo storico.
I drammi Noh vengono rappresentati senza modifiche da secoli perché sono atti di astrazione assoluti, che si collocano fuori dal tempo nel loro fondere danza e teatro. Anche le espressioni delle honmen sono immutabili ma gli attori, grazie all’inclinazione del capo e ai giochi di luci, riescono a dare un’illusione di espressività. Così intriso di sacralità e tradizione, il teatro Noh rappresenta il più alto ambito d’impiego delle maschere in Giappone.

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Maschere in Giappone: oni e cultura popolare

Maschere mostruose, con denti affilati e corna sulla fronte. Pelle di diversi colori, soprattutto rosso, blu, verde, nero e rosa. Statura imponente, peluria e capelli folti. Pelle di tigre alla vita e mazza ferrata (kanabo) in mano. Queste sono le principali caratteristiche degli oni, creature mitiche che affollano da sempre l’immaginario popolare giapponese. Sebbene nelle leggende più antiche essi siano creature benevole, capaci di tenere lontani gli spiriti maligni, nel periodo Heian (794-1185) l’avvento del Buddhismo in Giappone li accomuna ad altri demoni indiani, rendendoli guardiani dell’Inferno e torturatori di dannati. Gli oni potrebbero inoltre avere un’origine storica: nel nord-est dell’Hokkaido, l’isola settentrionale dell’arcipelago giapponese, è presente da millenni la popolazione europoide degli Ainu. Più pelosi e massicci rispetto ai dirimpettai, gli Ainu sono stati vittime di diverse guerre di sterminio.

Oggi oni e Giapponesi sono le due parti di una relazione d’amore e d’odio allo stesso tempo. Molti templi sono orientati verso nord-est proprio per scacciarli. Allo stesso scopo vengono anche montate tegole a forma di maschera da oni sui tetti delle case. Esse sono inoltre indossate da moltissimi uomini durante le feste per i cambi di stagione (Setsubun), specialmente quella di inizio primavera. Durante il rito del Mamemaki il capofamiglia si mette una maschera da oni e i familiari gli lanciano addosso dei fagioli di soia, al grido di “Oni wa soto! Fuku wa uchi!” (Fuori gli oni! Dentro la buona sorte!). Al termine della cerimonia i bambini mangiano i fagioli caduti a terra, per purificare la stagione appena trascorsa e scacciare la cattiva sorte da quella futura.

Maschere in Giappone, bonus track: le mascherine chirurgiche

Prima della pandemia da Covid-19, a noi occidentali capitava spesso di chiederci come mai i Giapponesi girassero per le strade con la mascherina chirurgica sul viso. Nel Paese del Sol Levante esse sono diventate parte della tradizione (e del dress code della strada) fin dal 1918, quando la popolazione fu colpita dalla micidiale influenza spagnola. Oggi, anche in condizioni epidemiche normali, è considerato maleducato uscire in pubblico senza mascherina quando si ha raffreddore o influenza. La malattia non è però l’unica causa che spinge i Giapponesi a utilizzarla: le donne la indossano in assenza di make up, per esempio. Anche i giovani ne fanno un forte uso, dato che essa permette di nascondere le emozioni, così chi è timido o affetto da fobie legate ai luoghi affollati può evitare di mostrarsi in viso. Quest’ultima tendenza fa riflettere: nell’era dell’apparenza i giovani hanno così paura di sembrare imperfetti che preferiscono coprire il viso.

La storia delle maschere in Giappone è ricca di fascino e decisamente troppo lunga e particolareggiata per essere sintetizzata in un articolo come questo. Speriamo almeno di avervi restituito un po’ della loro aura sacra e popolare, magica e senza tempo, degna di approfondimento e conoscenza. E se vi abbiamo anche dato l’idea per il prossimo tatuaggio prego, non c’è di che!

Marco Broggini
Nasce con Toriyama, cresce con Ohba e Obata, corre con Shintaro Kago. Un percorso molto più coerente di quello scolastico: liceo scientifico, Scienze della Comunicazione, tesi su Mission: Impossible, scuola di sceneggiatura. Marco ha scoperto di essere nerd per caso, nel momento in cui gli hanno detto che lo sei se sei appassionato di cose belle. Quando non è occupato a procrastinare l'entrata nel mondo del lavoro, fa sport che nessuno conosce e scrive racconti in cui uomini e gatti non arrivano mai alla fine.