He-Man e gli anni ottanta rivivono su Netflix in Masters of the Universe: Revelation, un omaggio nostalgico griffato Kevin Smith

Il potere nostalgico scorre forte nel mondo dell’intrattenimento degli ultimi anni, trasformandosi in una macchina del tempo capace di proiettare l’uomo nella sua dimensione più pura e cristallizzata, quella infantile. Tornare bambini è il viaggio impossibile reso attuabile e tangibile dal nuovo filone dello show business che ammicca costantemente ai turisti dei luoghi del proprio passato. Si viaggia nei meandri più nascosti della propria memoria, a caccia di istantanee legate ad un passato che si vorrebbe vivere in loop. Netflix con Masters of The Universe: Revelation offre un vero e proprio biglietto in direzione anni ottanta. Ma anche l’effetto nostalgia è cambiato.

Ci sono due modi di proiettare lo spettatore nella propria infanzia: lasciare tutto come un tempo, spesso rovinandolo a causa di una percezione e gusto ovviamente modificati con gli anni, oppure far rivivere quelle vecchie sensazioni, ma con uno sguardo diverso. Omaggiare e rinnovare, pur rimanendo fedeli alle atmosfere e al retrogusto che l’opera è in grado di offrire, è possibile. Blade Runner di Villeneuve insegna in questo. Kevin Smith ha commesso passi falsi in carriera, ma ha sempre avuto la capacità di creare cult e, allo stesso tempo, di alimentare personalmente l’aura che avvolge le sue opere. Per interfacciarsi ad un’opera come Masters of The Universe: Revelation (online su Netflix dal 23 luglio) serviva un autore come lui, in grado di capire pregi e difetti di un prodotto che risente il peso della sua età e che sarebbe stato accolto in malo modo da buona parte della platea online nelle sue vesti originali.

Interagire con l’old school dell’intrattenimento è un’operazione che viaggia sul delicato confine tra rispetto della tradizione e ricerca di innovazione, come insegna il buon Cannavacciuolo. Masters of the Universe: Revelation approda su Netflix con questo intento e lo palesa subito, senza indugiare troppo nel pedissequo emulazione dell’originale. Coerenza e originalità possono coesistere, senza generare idiosincrasie. Tuttavia, per approcciare, capire e apprezzare un’opera del genere, che prende vita in media res e non si dilunga in verbosi riassunti e presentazioni, bisogna per forza rituffarsi dove tutto è iniziato. Perché Masters of the Universe è un omaggio alla nostalgia atipico. Torna al passato, ma forzando immediatamente una connessione con il presente, senza troppi preamboli e con la celata richiesta di conoscere l’opera originale. Anche solo con sfocati ricordi di un’infanzia piacevolmente idealizzata.

Occorre dunque tornare indietro e (ri)scoprire che Master of the Universe è nato in seguito ad un enorme errore. È il 1976 e l’amministratore delegato della Mattel, Ray Wagner, reputa poco redditizia l’idea di produrre action figure provenienti da un film di fantascienza ancora poco conosciuto tra gli adolescenti dell’epoca. Quel film, considerato poco allettante, si intitola Star Wars. Qualche mese dopo quella valutazione grossolana, si intuisce che il danno ormai è fatto; nel frattempo, infatti, il merchandise legato alla pellicola di Lucas era esploso e la Mattel doveva per forza correre ai ripari, creando ex abrupto un universo fantasy capace di attirare i più giovani, ormai in viaggio verso una galassia lontana lontana.

Il responsabile dei progetti degli anni ’80 griffati Mattel, Roger Sweet, si ingegna e in poco tempo crea quello che poteva e doveva diventare il prodotto ideale per richiamare alla base i bambini del tempo. La chiave per il successo ideata da Sweet si rivelò essere un geniale mix di tutto quello che piaceva alla clientela del momento: personaggi dai muscoli possenti, ricchi di colori, carichi di epicità e in grado di affrontare mostri e il Male. Tutto questo all’interno di uno scenario fantasy che mescolava qualsiasi cosa: da dragoni a elementi fantascientifici. Con forti richiami a Conan e Star Wars stesso, ecco quindi uscire dal cilindro della Mattel He-Man, “the most powerful man in the universe” e il suo diabolico nemico Skeletor, “Lord of destruction”, uno spietato stregone delle sembianze scheletriche, che richiamava el dia de los muertos messicano. Accanto al biondo e pompato protagonista c’era Battle-Cat, una tigre verde che indossava un’armatura dotata di sella.

Il successo arrivò. I giocattoli spopolarono e il playset de il Castello di Grayskull era il sogno recondito di ogni bambino nato negli anni settanta e ottanta.

Dopo il successo delle action figure, la Mattel decise di ampliare la storia narrata nei fumetti all’interno dei blister dei giocattoli. Però si sentiva la necessità di  un contesto che rendesse ancor più plausibile e coeso quel mondo così variegato e popolato da bizzarre creature, da mezzi di trasporto ed edifici ancor più improbabili. Ecco quindi giungere nel 1983 sugli ingombranti schermi televisivi a tubo catodico dell’epoca He-Man e i dominatori dell’universo, una serie d’animazione firmata Filmation, arrivata in sordina e presto diventata oggetto di culto di quei bambini intenti a giocare per ore con quelle colorate e affascinanti action figures, che per anni, decenni, hanno popolato, nella polvere, soffitte, cantine e armadi di una generazione mai pronta ad abbandonare quel coloratissimo passato.

Quella polvere, che nel recente passato hanno provato a rispolverare senza successo più persone, è finita nelle mani del principe della cultura pop, Kevin Smith.

Il regista di Clerks dimostra di conoscere lo sconfinato, seppur stereotipato universo di He Man e proietta l’intera costellazione di eroi, mostri dal forte impatto estetico e narrativo anni ottanta in un mondo lontanissimo: Masters of the Universe Revelation sbarca su Netflix, in una realtà distante anni luce e presentandosi ad un pubblico in buona parte neofita.

L’idea di fondo di Smith è quella di andare oltre al semplice reboot e fornire un prodotto che non fosse un’emulazione o un ricordo forzato, ma un sapiente utilizzo dell’opera preesistente per creare un prodotto nuovo che mescolasse classicità e un piglio contemporaneo. Si ritorna su Eternia, si avvertono le vibrazioni di un’epoca passata, ma subito Smith prende le distanze dall’originale, ricreando un mondo che crea ricordi piacevoli, ma va oltre.

Se il primo episodio può ovviamente creare malcontento tra i puristi della nostalgia, nelle altre quattro puntate di Masters of the Universe: Revelation, che per ora Netflix ha rilasciato, si capisce il percorso che Smith e il suo team creativo hanno voluto imporre a questo viaggio nostalgico. Si ha un piacevole incontro con vecchie conoscenze, mescolato a nuove trovate, che cercano di togliere quella patina da prodotto copia carbone, in cui spesso incappano le produzioni che simulano in toto un mondo televisivo che non esiste più e che ora paradossalmente annoierebbe l’intero pubblico. He-Man, rispetto ai rumors che si sono avvicendati dal momento dell’annuncio di Smith, è comunque presente nella serie, con trovate ingegnose che lo mantengono sullo sfondo, ma allo stesso tempo al centro della narrazione.

Dinanzi a produzioni del genere ci si sforza, in maniera artificiosa e poco sentita, di dover indicare a ogni costo una direzione nell’ormai obsoleta e dicotomica scelta tra capolavoro e disastro. Masters of the Universe: Revelation va visto su Netflix, scordandosi di dover scegliere una di queste via. Non grida al capolavoro, ma è una serie godibile, che guarda al passato e al presente con un unico colpo d’occhio. Le animazioni potrebbero non essere appaganti per tutti, ma la serie Filmation lo era? Spesso si guarda al passato, eliminando tutti quei punti oscuri, che sono in realtà ciò che la nostra memoria ha volutamente eliminato. Ma certe cose vanno conservate con tutti i loro difetti, che le rendevano imperfette, ma per noi speciali. Da ricordare in eterno. Anzi in Eternia.

Leone Auciello
Secondo la sua pagina Wikipedia mai accettata è nato a Roma, classe 1983. Come Zerocalcare e Coez, ma non sa disegnare né cantare. Dopo aver imparato a scrivere il proprio nome, non si è mai fermato, preferendo i giri di parole a quelli in tondo. Ha studiato Lettere, dopo averne scritte tante, soprattutto a mano, senza mai spedirle. Iscritto all'Ordine dei giornalisti dal 2006, ha collaborato con più di dieci testate giornalistiche. Parlando di cinema, arte, calcio, musica, politica e cinema. Praticamente uno Scanzi che non ci ha mai creduto abbastanza. Pigro come Antonio Cassano, cinico come Mr Pink, autoreferenziale come Magritte, frizzante come una bottiglia d'acqua Guizza. Se cercate un animale fantastico, ora sapete dove trovarlo.