Non aprite quella porta è solo l’ultimo esempio di sequel “puro e non filtrato”

apitalizzare sulla nostalgia e sul successo non è niente di nuovo, lo si fa sin dalla nascita della serialità cinematografica. Tutto nasce con una pellicola originale che per un motivo o per l’altro diventa cult, solitamente nel cinema di genere horror e non solo, questa epoca d’oro la si colloca tra gli anni ’70 e ’80. Gli anni ’90 divennero invece gli anni dei seguiti infiniti, mentre gli anni 2000 sono notoriamente quelli dei remake, ove si provava a ricontestualizzare pellicole cult con un approccio più moderno.

Oggi, c’è un altro trend, ed è quello del recupero della timeline originale, si cerca di rivitalizzare un brand escludendo dall’equazione ogni contaminazione avvenuta negli anni con le mille iterazioni degli stessi, e ricollegandosi alla materia prima. Sono innumerevoli i casi in cui si è fatto questo: Terminator, Ghostbuster, La bambola assassina, che con la nuova serie tv ha tentato di glissare il disastroso remake degli ultimi anni, ma se vogliamo spingerci più in là possiamo notare la stessa tendenza in franchise come Star Wars, che andando a rinnegare, implicitamente, lo scarso successo della nuova trilogia, riporta con gli ultimi show di Disney Plus le atmosfere e le figure del filone principale della famosa saga. Ultimo e non ultimo nome a rientrare in questa filosofia è Halloween, che recentemente ha riportato al cinema il confronto tra Laurie Strode e Michael Myers. Se cito Halloween alla fine, è perché il nuovo Non aprite quella Porta, film che potete trovare da qualche giorno su Netflix, è una operazione similissima a questa. L’ultima opera del regista David Blue Garcia infatti, è un film che va a collegarsi direttamente al primo indimenticabile capitolo di Tobe Hooper.

Ora, io non mi occupo di produzione cinematografica e non posso sapere esattamente quale sia il fil rouge che lega questo nuovo tipo di approccio alla riesumazione di titoli storici della cinematografica di genere, ma mi sono fatto la mia opinione. Penso sia visto di buon occhio un progetto come quello di Halloween, Non aprite quella porta e compagnia bella, con la volontà di collegarsi direttamente al capostipite. La prima cosa che viene da pensare è che così si può lavorare ad un livello ancora più profondo sulla nostalgia degli spettatori, riportando in auge non solo brand, ma proprio luoghi e personaggi lasciati in disparte per anni, laddove le nuove generazioni sono state inadeguate nel sostituire certe icone. E parlo di personaggi come Sarah Connor, Laurie Strode, Boba Fett, e la stessa superstite del primo The Texas Chainsaw Massacre, Sally Hardesty, che torna in questo ultimo capitolo per la sua rivincita.

Io penso però che ci sia dell’altro, e che si cavalchi la percezione generale di una operazione più consapevole e coerente con i valori originali del cult di riferimento, in quanto ad essa direttamente collegata. Più si accorciano le distanze tra il film originale e il seguito, più quest’ultimo sembra virtuoso, e potenzialmente capace di riprodurre ciò che di buono è stato fatto agli albori. Senza contare la nomea negativa che gira intorno a concetti come reboot, remake e spin-off. Rielaborare idee vecchie è quasi sempre sinonimo di sfilacciamento, snaturamento, in sostanza, fallimento; e proporre l’ennesimo pseudo sequel apocrifo e pattinato, nove volte su dieci viene visto come uno sforzo superfluo e controproducente.

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Se vogliamo essere un po’ cinici, si tratta sempre dello stesso obiettivo, ovvero mungere le vacche grasse, che però le produzioni cercano di raggiungere aggirando le aspettative del pubblico e trovando sempre nuovi approcci. Chi vi scrive pensa che sostanzialmente, quello che conta alla fine è sempre il prodotto singolo, ma non si può negare che inevitabilmente i paragoni con la fonte d’ispirazione verranno sempre fatti quando si tratta di riesumare cult movie che sono divenuti per un motivo o per l’altro punti di riferimento nella cultura POP. E tanto più vuoi filologicamente e narrativamente tenerti vicino a tale fonte, tanto più rischi di non essere all’altezza.

Nel caso di Non aprite quella porta, la prima cosa che comporta questo spirito di imitazione è che tutto il sottotesto sociale su certe realtà americane armate e reazionarie, diventa oggi quasi parodistico se trattato in questa maniera così didascalica, andandosi totalmente a perdere. Anche la figura di Leatherface, incazzato con il mondo e mascherato con pelle umana perché così lo vuole la sua iconografia, perde di efficacia una volta estrapolato dal suo contesto primordiale, ove era il simbolo di deviazione mentale in quella realtà così rurale, sporca, dimenticata da dio, che faceva da palcoscenico alla pellicola del 1974. Questi elementi, che erano così importanti, non riescono a essere una componente determinante all’interno di questo film che come in molti altri casi analoghi che abbiamo citato in questa sede, pare parlare più di sé stesso in spirito totalmente autoreferenziale, che delle vicende effettivamente trattate, facendo perdere in qualche modo credibilità a queste ultime. Non aprite quella porta di Garcia non è un film così stupido e pare conscio dei limiti della sua stessa genesi. Consapevolezza che lo eleva in ultima istanza dalla completa mediocrità.

Laddove infatti non può esistere più la carica stordente del primo film per il pubblico “vergine” del ’74, cerca di compensare con una nota slasher super pronunciata ed ettolitri di sangue, cercando in qualche modo di rimanere un film asciutto e ruvido per tener fede alla sua aspirazione di seguito diretto. Nonostante forse sia fin troppo ridotto ai minimi termini in tal senso (l’unico villain è Leatherface, non c’è più la sua famiglia) il film infatti è bello veloce, snello, non cerca di appesantire la visione come faceva il remake del 2003, che tergiversava in maniera bolsa su una storia che viaggiava sulla falsa riga dell’originale cercando però una nuova dimensione drammaturgica che semplicemente non funzionava.

In questo il capitolo del 2022 è più onesto e coerente: vuole sostanzialmente colpire nello stomaco lo spettatore e intrattenerlo con splatter a fiumi, senza soffermarsi troppo sul contorno. Anzi c’è un unico background più o meno abbozzato per quel che riguarda uno dei protagonisti, e a parte rafforzare la retorica sulla diffusione delle armi negli USA, non serve a nulla nell’economia del film e pare quasi di troppo. Ma non è che se decidi di ridurre l’horror ai minimi termini a livello narrativo, hai vita più facile: l’horror rimane un tipo di film difficilissimo da gestire a dispetto delle apparenze, perché la violenza, la tensione e tutti gli stilemi del genere devi renderli coinvolgenti, affascinanti, e per quel che riguarda il contorno, ovvero personaggi, scenografia, contesto, non è che devono mancare, ma si deve seguire il precetto del “show don’t tell”. Da questo punto di vista, la buona recitazione e presenza di protagonisti comunque abbozzati, e il palcoscenico della cittadina semi abbandonata di Harlow capace di trasmettere un vivido disagio, fanno il loro lavoro.

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Per il resto, il lato slasher del film, quello su cui sostanzialmente affida completamente il suo senso d’essere, è veramente… esagerato. E per me è positivo. Lo splatter super esibito ma che non indugia sulla sofferenza è sempre divertente. So che è un pelo macabro come concetto ma è letteralmente quello che cercano gli amanti del genere. Forse a volte però le scene sono un po’ troppo veloci e se questo serve a non imprimere troppa pesantezza sulla violenza, allo stesso tempo toglie un po’ di coinvolgimento.

Questo mi porta a parlare di regia, che definirei semplicemente funzionale: fa il suo lavoro, è discreta, non dà fastidio ma nemmeno si fa notare. A volte però non valorizza molto dei momenti potenzialmente notevoli, in cui si poteva fare di più. C’è una scena che considero la summa dei pregi e dei difetti di questo film. Ad un certo punto Leatherface entra dentro un autobus pieno di persone che lo riprendono con i telefonini come se fosse una attrazione locale, il nostro freak mascherato accende la motosega e… il resto ve lo lascio immaginare. Qui troviamo ottimi effetti speciali e qualche idea carina nella messa in scena, nonché una fotografia che si fa notare. Però manca il mordente: troppo rimbambiti i tizi nel veicolo per renderti partecipe della loro sventura, sono una metafora dell’ipnosi da social che non ti fa distinguere più il reale dalla finzione quasi surreale, e troppo insipida la regia per rendere memorabile il momento anche a livello di intrattenimento.

C è da dire che il mood del film deve rispettare in qualche modo quello verosimile e terra terra del grandissimo capostipite della saga e quindi non la poteva buttare troppo fuori dal vaso con improbabilissime coreografie a base di frattaglie umane. Si vede che cerca un equilibrio tra il serio e il faceto a livello totalmente estetico. Ecco perché quindi posso pure perdonare una certa anonima “sobrietà”, che è un ossimoro in un film con bifolchi che squartano gente con la motosega, ma di fatto definisce la cifra stilistica del film. Che in ultima analisi trovo assolutamente dignitoso, capiamoci bene, io mi aspettavo ben di peggio. Però ecco, non si può negare che l’ennesimo “sequel senza filtri” appartenente al nuovo filone di cui vi ho parlato, è l’ennesima prova che guardando più da vicino possibile l’opera originale, si scorge solo quanto questa sia figlia del suo tempo e irraggiungibile.

Davide Salvadori
Cresco e prospero tra pad di ogni tipo, forma e colore, cercando la mia strada. Ho studiato cinema all'università, e sono ormai immerso da diversi anni nel mondo della "critica dell'intrattenimento" a 360 gradi. Amo molto la compagnia di un buon film o fumetto. Stravedo per gli action e apprezzo particolarmente le produzioni nipponiche. Sogno spesso a occhi aperti, e come Godai (Maison Ikkoku), rischio cosi ogni giorno la vita in ridicoli incidenti!