Dopo il grande successo della miniserie originale Netflix, torna in libreria La regina degli scacchi, romanzo del 1983 di Walter Tevis – ma qual è la giusta chiave di lettura per questa storia a tratti irreale?

Quattro settimane dopo l’uscita di The Queen’s Gambit su Netflix, la miniserie in sette episodi era già in testa alle classifiche dei prodotti più visti; in poco tempo la storia dell’orfana e campionessa di scacchi Beth Harmon è diventata l’Argomento Di Conversazione e La regina degli scacchi si è rivelata inaspettatamente una serie con la potenzialità di rendere dei reietti dei social chiunque non avesse partecipato al rito apotropaico – volto a scacciare la Fear Of Missing Out – del binge-watching.

regina scacchi

Cosa resta, quasi quattro mesi dopo l’arrivo della miniserie su Netflix, dell’effetto The Queen’s Gambit? Per iniziare, la serie si è conquistata due nomination ai Golden Globe (miglior miniserie e miglior attrice in una miniserie per Anya Taylor-Joy), negli States si è registrato un incremento delle vendite di scacchiere e di accessi a siti come chess.com, e abbiamo avuto il tempo per sviscerare ogni singolo aspetto della serie prima di leggere il romanzo da cui tutto è iniziato e a cui è importante tornare per comprendere meglio alcuni aspetti della miniserie.

La donna che cadde sulla terra

La letteratura è il regno del possibile: chi scrive può immaginarsi elfo, androide, roccia, vegetale, alieno. Lo stesso Walter Tevis, in quello che fino all’anno scorso non avrei avuto dubbi a indicare come il suo romanzo più famoso, ci presenta un personaggio – l’alieno Thomas Jerome Newton – che è precursore e speculare a quello di Beth. Il protagonista di L’uomo che cadde sulla terra è un essere alieno, che si trova a vivere tra gli umani, avendone assorbito usi e costumi, ma senza sentirsi veramente integrato nella società. Sia Thomas Jerome Newton che Beth Harmon arrivano sulla terra con una missione – poco importa che si tratti di costruire un’astronave per tornare in missione di salvataggio sul pianeta natale o di giocare a scacchi – tutto il resto passa in secondo piano.

Se un paragone tra queste due opere di Tevis può aiutarci ad inquadrare il tipo di personaggio che possiamo aspettarci di trovare in Beth, è riscontrabile anche che l’autore abbia avuto più successo nel tratteggiare la psiche di un alieno che quella di una donna: se nella serie infatti la resa visiva ci impedisce (per fortuna) di addentrarci troppo nella mente di Beth, il romanzo, con la sua terza persona onnisciente è un viaggio nella mente di un uomo che cerca di pensare come una donna e non ci riesce particolarmente bene.

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Del resto, anche se ormai è diventato quasi obbligatorio usare la parola femminismo (così, al singolare) per discutere di ogni film, serie, romanzo o videogioco in cui sia presente almeno una protagonista, femminile e femminismo non sono sinonimi e l’arco di crescita di Beth Harmon è un ottimo esempio di personaggio femminile non femminista. Come ha sottolineato Marina Pierri, autrice del saggio dedicato alla serialità Eroine, il viaggio di Beth è ascrivibile al viaggio dell’eroe, laddove gli ostacoli non sono mai insormontabili e non arrivano mai a spezzare il protagonista, cosa che succede molto più spesso all’eroina, che ascende dal baratro solo dopo aver toccato il fondo, arrivando molto spesso nello stesso punto in cui era all’inizio del percorso, ma con una nuova consapevolezza. Partendo da questo assunto, Beth è un eroe, non un eroina, e il suo essere donna non la caratterizza, ma la rende solo più appetibile allo sguardo dello spettatore e del lettore.

Sorellanza, questa sconosciuta

Non è un caso che Beth – personaggio nato negli anni 80 – sia in maniera un po’ cliché quell’eroina badass di cui stiamo cercando di liberare il mondo dell’intrattenimento negli ultimi anni; Beth fa parte, sempre nelle parole di Marina Pierri, di quei personaggi femminili forti che sono uomini in corpi di donne con cui sarebbe bello andare a letto. Beth nasce dalla testa di un uomo e torna a vivere sullo schermo grazie agli sguardi e i pensieri di altri uomini: regia, sceneggiatura, produzione, fotografia – la crew di The Queen’s Gambit ha una forte prevalenza maschile, che va a riflettersi nella messa in scena della storia di Beth che – comunque – nasce come stereotipo della donna che non è come le altre donne, della donna Eccezionale, accettata dagli uomini proprio per questo suo essere un’eccezione alla regola.

I pensieri di Beth in La regina degli scacchi oscillano tra la misoginia interiorizzata – quella per cui le altre ragazze sono stupide e un po’ oche, non come Beth che pensa solo agli scacchi – e una visione femminista filtrata dalla percezione di un uomo di mezza età che si avventura in un campo che non conosce bene – “E cosa c’entrava essere una donna? Lei era la migliore di tutti i giocatori d’America” si chiede stizzita Beth, come se bastasse dimenticare di essere donne per far sì che anche gli altri se ne dimentichino.

queen's gambit

Beth Harmon è perciò, almeno nel romanzo, un personaggio tutt’altro che femminista e a malapena femminile, che sfonda in un campo prettamente maschile in virtù del suo essere la più brava, la più intelligente, la più affascinante delle donne che giocano a scacchi. Perché di donne che giocano a scacchi, sia nel mondo immaginario di Tevis che nel mondo reale ne esistono; nel primo caso, però, Beth non considera nessuna di queste avversarie degne della sua considerazione, figuriamoci di un senso di sorellanza, mentre le campionesse storiche, come Vera Menchik – campionessa mondiale femminile di inizio secolo scorso – e Ljudmyla Volodymyrivna Rudenko – Gran Maestra¹ coeva a Beth Harmon – sembrano non esistere nella finzione narrativa di Tevis, sebbene altri scacchisti professionisti, come Capablanca e Alechin, siano nominati in svariate occasioni.

Tevis, che non ha mai nascosto di aver elaborato la storia di Beth come una biografia alternativa di Bobby Fischer (con una punta di autobiografismo per quanto riguarda l’abbandono e le dipendenze), ha semplicemente eliminato il femminile dalla narrazione, ricordandoci dell’essere donna di Beth solo in momenti clou dell’arco di crescita della donna (secondo l’uomo) come il primo mestruo e il primo sesso penetrativo. Anche dal punto di vista delle figure femminili secondarie, La regina degli scacchi può sorreggersi solo su Jolene – unica amica d’infanzia di Beth che assume con l’avanzare degli eventi un ruolo sgradevolmente simile a quello del Magical Negro – e Alma Wheatley, madre adottiva che avrebbe meritato di meglio – dalla vita, dalla caratterizzazione.

La regina dell’ucronia

La regina degli scacchi, in fin dei conti, è una storia romanzata; è l’opera immaginaria di un autore che non voleva certo parlare di donne, ma soltanto di scacchi e di ossessione. Certo, a quel punto sarebbe forse stato meno controverso usare un personaggio maschile, ma visti i precedenti fantascientifici di Tevis possiamo considerare La regina degli scacchi un romanzo ucronico, ambientato in una metà del ventesimo secolo alternativa in cui il sessismo non esiste e una donna può competere in un torneo maschile e – addirittura – farsi portare un caffè da un uomo meno talentuoso di lei mentre sta disputando una partita.

Forse è questo quello che succede quando un uomo descrive la vita di una donna: immagina che possa essere trattata come viene trattato lui, ma Judith Polgár – la più giovane Gran Maestra di sempre – potrebbe non essere d’accordo dopo essersi sentita dire da Garry Kasparov, nel 1989, che “ha molto talento negli scacchi, ma dopo tutto è una donna. Tutto si riduce alle imperfezioni della psiche femminile. Nessuna donna può sostenere una battaglia prolungata.”

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Se lo consideriamo un romanzo di fantascienza, in sostanza, La regina degli Scacchi è una storia che consola, che permette di immaginare un mondo più semplice, un mondo – forse – in cui il femminismo non serve più perché la parità è stata raggiunta e nessuno sembra mettere sul piatto le imperfezioni della psiche femminile. E ditemi voi se non è fantascienza questa.


¹ il femminile è usato intenzionalmente nonostante sia prassi mantenere il titolo al maschile anche per le donne.

Angela Bernardoni
Toscana emigrata a Torino, impara l'uso della locuzione "solo più" e si diploma in storytelling, realizzando il suo antico sogno di diventare una freelancer come il pifferaio di Hamelin. Si trova a suo agio ovunque ci sia qualcosa da leggere o da scrivere, o un cane da accarezzare. Amante dei dinosauri, divoratrice di mondi immaginari, resta in attesa dello sbarco su Marte, anche se ha paura di volare. Al momento vive a Parma, dove si lamenta del prosciutto troppo dolce e del pane troppo salato.