Tra le ultime proposte di Netflix, La Révolution di Aurélien Molas è un drammone storico intriso di elementi horror. Ma un’idea interessante non sempre si traduce in un risultato felice…

Parigi 1789. Una data che parla da sola: l’inizio dell’età contemporanea e pietra miliare nella costruzione dell’identità del popolo francese. Un simbolo così importante da essere diventato quasi sacro per chi rievoca i valori di liberté, egualité, fraternité. Per questo motivo, La Révolution di Aurélien Molas, presentato con orgoglio dalla piattaforma streaming Netflix, è un’operazione interessante, nel suo essere dissacrante. Lo showrunner francese, appena 35enne, gioca con una buona dose di follia a riscrivere la storia, mettendo in piedi un impianto ambizioso, per alcuni versi molto valido, che inserisce elementi gore in un contesto ben noto, stravolgendolo del tutto.

L’ispirazione, chiaramente, sono le serie più popolari degli ultimi anni, che hanno alzato il tiro nel mostrare immagini esplicite di sesso e violenza. Tra tutti, pensiamo all’ormai cult HBO Game of Thrones.  Tuttavia, quel che manca a La Révolution è l’altra parte della medaglia del successo di questi show, ovvero una scrittura capace di indagare la psicologia umana e di ritratte personaggi in grado di suscitare forte attaccamento ed emozione.

Attenzione, potrebbero esserci spoiler.

La Révolution: la nobiltà come malattia

La riscrittura di Molas stravolge, sì, gli eventi storici ma ne conserva in qualche modo lo spirito. O, comunque, quello che è lo spirito romanticizzato di una realtà molto più complessa. Fatte le dovute premesse, La Révolution racconta i principi della rivoluzione borghese trasformandoli in una necessaria lotta per la sopravvivenza del genere umano. La morte si sta diffondendo come un morbo, innescato dall’ingordigia dei nobili che aspirano nella loro arroganza a sfidare le leggi della natura. Tuttavia, la loro tracotanza è punita, le loro carni si corrompono e la loro fame diventa ingestibile e, come sempre, a farne le spese è il popolo. Una popolana, anzi, Rebecca è la prima delle vittime, colei da cui partirà tutta la storia, ritrovata nei boschi di Versailles mezza divorata da fauci umane.

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Per affrontare questa minaccia, Molas chiama a raccolta una serie di personaggi. Il protagonista è Joseph Guillotin (Amir El Kacem), medico onesto e incorruttibile, dalla volontà ferma e dalla forte vocazione di far del bene al prossimo. Nonché futuro inventore della ghigliottina, uno strumento “umano” di esecuzione. Joseph condivide con la contessa Elise De Montargis (Marilou Aussilloux) il lutto del fratello Albert (Lionel Erdogan), ex amante della donna (quindi una sorta di ponte tra le due classi sociali). A sua volta, Elise deve affrontare la corruzione della classe nobiliare, dedita a festini e a complotti in quel di Versailles.

Da una parte all’altra delle barricate

Attorno a questi due personaggi si muovono i gruppi dei nobili e dei rivoluzionari, capeggiati da una donna di nome Marianne (Gaia Weiss). Dall’altra parte, invece, emerge come il più malvagio tra i villain il conte Donatien De Montargis (Julien Frison), pallido, emaciato e folle come un Joker dell’Ancien Régime. Voce narrante della vicenda è la piccola Madeleine (Amélia Lacquemant), ragazzina muta della famiglia De Montargis.

La Parigi pre-rivoluzionaria è descritta in tutta la sua miseria e la sua povertà, il concetto di fame è ricorrente sia nella sua accezione più realistica – quella del popolo – sia in quella soprannaturale, quella degli zombie. Di fatto, pur senza entrare nel merito di una politica ormai storicizzata, La Révolution amplifica con la sua narrazione metaforica il passaggio dalla monarchia alla repubblica, come reazione all’avidità incontrollabile di chi ha sempre avuto tutto, e pretende di avere ancora di più. I poveri non sono solo poveri, ma sono schiavi. Le loro vite sono trattate come puri accessori di uno status nobiliare, che dispone di loro e dei loro corpi come meglio crede. Addirittura come cibo.

La Révolution su Netflix: pregi e difetti

Nonostante gli spunti siano più che interessanti, almeno tanto quanto è accattivante l’idea di riscrivere la Storia in chiave horror, alcuni elementi fondamentali de La Révolution su Netflix possono lasciare un po’ perplessi. Come già sottolineato, la scrittura non va di pari passo a un impianto tecnico che lascia in più di un’occasione davvero impressionati. La fotografia, la scenografia (molte scene sono state girate addirittura a Versailles), la regia delle scene d’azione sono encomiabili e ricordano i migliori esempi HBO.

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Da questo punto di vista Molas e i registi compensano bene una struttura narrativa debole, che sviluppa con una certa superficialità e un gusto kitsch per l’intrigo diversi colpi di scena non richiesti e malriusciti. Insomma, quando partono le sequenze d’azione, o quando la regia ci concede qualche scena gore delle più spinte, lo spettatore prende fiato da una trama spesso claudicante. Anche le interazioni fra i personaggi, per quanto gli attori si sforzino di lavorare su un livello medio-alto, hanno un sapore forzato e poco interessante. Insomma, un po’ come se Elisa di Rivombrosa incontrasse Il Trono di Spade. E non vedo perché dovrebbero.

La Révolution, in conclusione

Un’infezione zombie che nasce dalla nobiltà francese e che si cura col taglio delle teste. Arti strappati, orecchie morsicate, la Francia brutta, sporca e cattiva che lotta per sopravvivere. Ma anche intrecci romantici dal sentore di polpettone, dialoghi inconsistenti e un protagonista con cui non è semplice entrare in empatia. Aurélien Molas con La Révolution compie un’azione coraggiosa, Netflix ne approfitta e entrambi ci offrono un prodotto tutt’altro che perfetto, ma che – preso con le dovute pinze – riesce ad essere piuttosto divertente. Non si sta facendo la storia delle serie Tv, ed è un peccato visto l’evidente dispendio di risorse, con quella che è, forse, una delle produzioni non americane o britanniche più ambiziose degli ultimi anni. 

Francesca Torre
Storica dell'arte, giornalista e appassionata di film e fumetti. Si forma come critica tra Bari, Bologna, Parigi e Roma e - soprattutto - al cinema, dove cerca di passare quanto più tempo possibile. Grande sostenitrice della cultura pop, segue con interesse ogni forma d'arte, nella speranza di individuare nuovi capolavori.