Non è rose e fiori oggigiorno e non lo era nemmeno in passato: storia della figura femminile e della madre in Giappone

Nella storia mondiale, la figura femminile è sempre stata oggetto di discriminazioni e sottoposta ad uno standard differente per quasi ogni aspetto della vita. Quasi esclusivamente relegate al ruolo di mogli e madri, le donne hanno sempre avuto difficoltà a ritagliarsi un ruolo sociale che differisse da questi due, riuscendoci solo in anni recenti, dopo a estenuanti lotte. La figura della madre in Giappone è legata a doppio filo a un certo termine: Ryōsaikenbo (“buona moglie, madre saggia”) è stato e continua ad essere usato per descrivere il modello a cui una donna deve aspirare. Una figura che non appartiene mai a sé stessa, ma sempre ed esclusivamente alla figura maschile di turno: prima il padre, poi il marito e, infine, il figlio.

Per quanto riguarda i rapporti con il marito, però, nel corso della storia giapponese si è attuata una vera e propria involuzione dei diritti della donna. È un evento peculiare, che porta con sé una rivalutazione di alcuni aspetti relativi alla figura femminile e impone ad esse ancora più paletti e limiti sociali.madre giappone

Lo smantellamento dei diritti della donna: il controsenso della Restaurazione Meiji 

La restaurazione Meiji ebbe luogo tra il 1866 e il 1869 e vide la fine dello shogunato in Giappone e la restituzione dei poteri all’Imperatore. In un tale periodo di sconvolgimenti, furono numerose le riforme. Una delle più controverse e di forte impatto fu senza dubbio lo stravolgimento del divorzio. Prima della restaurazione Meiji, infatti, ne esistevano tre tipi. Il primo era il cosiddetto trial marriage, ovvero matrimonio di prova, con il quale il matrimonio poteva essere concluso con una semplice dichiarazione cartacea se, dopo un anno dalle nozze durante il quale la donna si trasferiva a casa dello sposo, l’unione non risultava positiva. Nel secondo, chiamato demodori, la donna tornava dalla propria famiglia in seguito alla separazione con il marito. Il terzo, quello che fu mantenuto anche dopo la restaurazione Meiji, era il divorzio consensuale. In nessuno dei tre metodi veniva fatta menzione della verginità – un valore tipicamente più occidentale – e il valore della donna non dipendeva da esso.

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Prima del Meiji, un divorzio non significava la fine del mondo per la donna: poteva comunque ricominciare e avere un futuro, diventare madre con un altro sposo e costruirsi una vita. Una volta che i due primi metodi furono aboliti, però, alla donna venne automaticamente addossata la colpa della fine dell’unione. Improvvisamente, il suo ruolo sociale di moglie e madre viene visto come non assolto e ciò è un’onta. Lo stigma diventa talmente pesante e grave che le donne non vengono più riaccettate nella loro famiglia di origine dopo un divorzio, andando a creare una categoria a rischio che scivola sempre più facilmente e inesorabilmente nella povertà.

La madre single in Giappone: cronaca di un silenzioso supplizio

In Giappone, la madre single appartiene a una delle categorie più a rischio in tutto il paese. Escludendo il caso della morte del coniuge, la maggior parte delle madri single in Giappone lo è in seguito ad un divorzio. Il divorzio in Giappone è una faccenda molto più drastica se comparata al suo corrispettivo occidentale: in Giappone, infatti, non esiste l’affidamento congiunto dei figli, che può ricadere solamente su un genitore; e solitamente, viene scelta la madre. Solo nel 20% dei casi viene pagata una somma per il mantenimento dei figli, ma è comunque una cifra irrisoria. Talvolta, questa pratica – per niente normalizzata – viene chiamata isharyo, ovvero “soldi di pietà”.

Dopo la finalizzazione del divorzio, nella stragrande maggioranza dei casi si attua il cosiddetto rien, ovvero l’interruzione di ogni contatto con l’ex coniuge, che spesso rinuncia a visitare i figli. Una madre single in Giappone, quindi, avrà sulle spalle tutto il peso economico e psicologico-emotivo della crescita della prole, oltre che lo stigma di essere divorziata. Al contrario di quanto un occidentale potrebbe aspettarsi, tra l’altro, in Giappone è più “vergognoso” che una madre single sia divorziata, piuttosto che non si sia mai sposata.

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Dal momento che gli aiuti da parte del governo sono ridotti, per una madre single l’unica opzione è quella di lavorare. Ma anche quello è un problema. In Giappone, una madre single deve mettere in conto gli orari a cui è inevitabilmente legata, dal momento che si deve prendere cura dei figli e l’ambiente scolastico è particolarmente inflessibile. Viste le opzioni limitate, i lavori a cui una madre single può aspirare sono quasi esclusivamente part-time, la cui paga, però, se basta, non riesce a dare una qualità di vita tranquilla e dignitosa. Ciò porta questi piccoli nuclei famigliari a scivolare sempre di più ai margini della società, sotto il peso della povertà. Nonostante in Giappone sia registrata la più grande percentuale di madri single nella forza lavoro (85%), le proposte avanzate per tamponare questa crisi ad oggi non hanno avuto esiti significativi.

Egoista? Senza amore per i figli? Lo stigma di una madre che lavora in Giappone

Anche per le madri sposate, però, il perseguimento di una carriera lavorativa non viene visto di buon occhio. Specialmente nell’ambito aziendale, ci si aspetta che una donna sposata che diventa madre rinunci al lavoro per restare a casa e dedicarsi interamente ad essa e ai figli. Essere una casalinga è visto come il corrispettivo femminile del salaryman, la scelta più tradizionale e sicura. Nell’ambiente lavorativo, inoltre, le donne percepiscono un salario del 30% inferiore ai loro colleghi maschi.

Come se non bastasse, il sistema giapponese punisce le famiglie che beneficiano di più di un salario, tassandole e disincentivando quindi la donna a lavorare; mentre, per i padri di famiglia, le aziende mettono a disposizione bonus e incentivi. La consapevolezza che la gravidanza molto probabilmente concluderà le loro aspirazioni lavorative porta molte donne a scegliere di non diventare madre, oppure di farlo più tardi. Questo è uno dei fattori principali del declino delle natalità in Giappone.

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Nonostante da parte delle donne ci sia una forte volontà di tornare a lavorare dopo aver avuto figli, solo una minoranza riesce effettivamente a tornare alle loro occupazioni. Questo perché ci sono veramente poche aziende che offrono sostegno familiare per i loro dipendenti e attività come asili nido solo molto rari in Giappone. Inoltre, se come disincentivo non bastasse già il loro costo, affidare i propri figli a qualcun altro – questo comprende anche babysitter – per una madre in Giappone significa essere sottoposta allo scrutinio e al giudizio della società, che la vede come egoista e degenere. Nella cultura giapponese, infatti, la maternità è vista come direttamente correlata alla vicinanza fisica di madre e figlio. Come ci si potrebbe aspettare, ciò non vale anche per i padri, per i quali è naturale e ovvio non partecipare più di tanto alla crescita dei figli, senza incorrere in alcuno stigma sociale.

Il fondamento della società: il Giappone e il fenomeno della kyoiku mama, la madre severa nel senso più estremo del termine

In Giappone, il “valore” di un genitore dipende dai traguardi del proprio figlio; e il futuro e la qualità di vita di un individuo è direttamente influenzato dalla sua educazione, ma non solo: in questo pensiero vengono anche prese in considerazione il prestigio della scuola frequentata, partendo addirittura dall’asilo. Dal momento che i genitori non possono modificare o ribellarsi al sistema, spingono sé stessi e la prole ad atti estremi pur di assicurare ai loro cari un futuro radioso. È così che spingono i figli a sessioni di studio interminabili, a frequentare dei doposcuolajuku – che proseguono fino a notte inoltrata e soprattutto a competere con altri studenti in prove ed esami sempre più severi e proibitivi, fino ad arrivare ai famigerati shiken jikoku, gli “esami infernali”, ovvero quelli di ammissione alle università. Le madri che adottano questo tipo di comportamento vengono chiamate kyoiku mama.

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Il fenomeno delle kyoiku mama in realtà non è riservato solo al Giappone: il concetto è diffuso in tutta l’Asia e cambia nome di paese in paese – in Cina, per esempio, vengono chiamate tiger moms. La traduzione letterale sarebbe “education mother”, ovvero una madre che si specializza nell’educazione dei figli. Specialmente nella classe media, la figura genitoriale femminile è fondamentale e il suo compito è assicurare alla famiglia un posto nella classe perbene, spesso e volentieri arrampicandosi con le unghie e con i denti sulla scala sociale. Questo termine è generalmente inteso come peggiorativo, visto che le sue azioni e atteggiamenti la portano ad essere odiata dai propri figli. Nonostante questo atteggiamento esista anche dalla parte dei padri, questo termine viene usato esclusivamente per le figure materne. In alcuni casi, questa estrema dedizione e abnegazione nei confronti della prole sfocia anche nella dipendenza emotiva tra madre e figlio, portando alla coniatura del termine kosodate mama.

La competizione e l’aspettativa sociale verso il suo ruolo porta la kyoiku mama a essere vista quasi come una professione. La pressione è talmente tanta che, oltre a forzare i loro figli allo studio senza sosta, inventano piani per far abbassare la guardia ai compagni del figlio – gli altri studenti sono visti come veri e propri avversari. La costruzione della maschera sociale dei pargoli inizia in tenerissima età, portando alla creazione di termini appositi: con koen debyu, per esempio, si fa riferimento alla prima visita dei neonati al parco del quartiere, dove verranno presentati alle altre madri e bambini presenti, puntando ovviamente a fare bella figura.

Molto prevedibilmente, la crescita tramite questo tipo di indottrinamento e privazioni porta i figli a soffrire e a costituire terreno fertile per patologie mentali come fobie, ansia e depressione. Legato a doppio filo a questo fenomeno è l’indice di suicidi giovanili tra i più alti del mondo. I figli delle kyoiku mama non hanno competenze pratiche e quando si sposano o vanno a vivere da soli spesso non sanno cucinare o badare a sé stessi, perché l’unica cosa che sanno fare è studiare. Nel caso delle figlie femmine, sulle quali ricade la cura della famiglia, è stato coniato un nuovo termine: tenuki okusan, la versione femminile del padre assente. Non sanno come badare ai propri figli e questo fa perdere loro la fiducia in sé stesse, portandole a consultare sempre più spesso delle figure professionali e affidando la crescita psicologico-emotiva dei figli a esterni.

La madre negli anime: categorie e archetipi

La visione che la società giapponese ha della figura materna influenza, ovviamente, anche i loro prodotti d’intrattenimento. Spesso e volentieri le figure paterne sono assenti o irrilevanti ma, d’altro canto, se si fa un po’ di attenzione si vedrà che la figura della madre negli anime ricade in categorie ben specifiche. Quasi la totalità sono figure positive, che rispecchiano al meglio la visione idealistica della madre in Giappone: queste figure materne sono affettuose, pacate, calme, amorevoli e con spirito di sacrificio. Degli esempi perfetti sono Hana (Wolf Children) e Inko (My Hero Academia).

Più raramente, ci sono alcune madri che sono rappresentate come una figura autoritaria e severa, ma senza mai esagerare in negativo – come per esempio Chichi (Dragon Ball) che mostra alcuni tratti che richiamano quelli della kyoiku mama. Solitamente, una madre degenere e abusiva non risulta essere quella del protagonista, ma piuttosto di un personaggio secondario, qualcuno da salvare, ad esempio, la madre di Akemi in Erased.

Infine, si giunge alla categoria di madri anime forse più famosa: le madri morte. Spesso usate come fonte di ispirazione oppure ancora come casus belli, per dare al personaggio di turno la spinta necessaria a intraprendere il suo viaggio di crescita, per dargli una motivazione – solitamente, la vendetta. Questo tipo di figura è l’apoteosi della madre ideale, che arriva anche al sacrificio della propria vita. Fanno parte di questa categoria Kushina Uzumaki (Naruto), Karla Yeager (L’Attacco dei Giganti) e Trisha Elric (Fullmetal Alchemist). Addirittura, le ultime due hanno dato vita ad un meme riguardante la loro pettinatura, una coda laterale bassa rinominata “dead mom hairstyle”.

Ovviamente non tutte le madri che compaiono negli anime vengono rispecchiate da una di queste categorie. Sperabilmente, con il passare degli anni e con il lento mutare della condizione della madre in Giappone, anche il loro corrispettivo negli anime vedrà un cambiamento, diversificando i personaggi a nostra disposizione.

Laura Moronato
Originaria dei colli euganei, ora divide la sua vita tra la propria terra natia e Venezia, dove studia lingua e cultura giapponese all’università di Ca’ Foscari. Venuta al mondo nell’inverno del ’97, il freddo sembra non lasciarla mai e la si può vedere spesso spuntare sotto vari strati di vestiti e coperte. Quando non è impegnata a lottare per la propria sopravvivenza tra lavoretti e una lingua che non ricambia il suo amore, il suo passatempo preferito è scoprire nuove serie tv, anime o libri da iniettarsi in endovena. È una circense ansiosa che cerca di mantenere l’equilibrio tra il divulgare le proprie passioni ad amici e conoscenti e non rompere l’anima al prossimo; ma in caso sia troppo molesta la si può facilmente zittire con articoli di cancelleria e quaderni nuovi. Recentemente sta ampliando la sua cultura nerd anche alla Corea e alla Cina.