Un titolo che sfrutta bene tutte le varie intuizioni di gameplay emerse negli ultimi anni nel mondo dei videogiochi

La serie di God of War è celebre per le sue rivisitazioni delle culture, dei miti e delle leggende di epoche ormai remote, come quella ellenica. L’ultimo capitolo, un po’ a sorpresa, decide di spostare il tutto in altri luoghi e tempi, affondando le mani nel folklore norreno. Ma, per quanto affascinante e brutale sia, non è dei rimandi ad Odino, Thor e alla fine del mondo che parleremo. Tratteremo del gioco o più precisamente dei giochi, cioè di tutte le feature prese da altre opere che hanno dato spunti ed idee al nuovo gameplay della saga di Kratos, rendendolo quello che è: un gran bel gioco. Così come Tarantino saccheggia dalla storia del cinema, dalla pop culture per creare una propria, ineguagliabile autorialità, i ragazzi di Santa Monica sono riusciti ad assimilare alcune delle feature che hanno fatto la storia del media, integrandole nella propria visione di videogame e, spesso, perfezionandole. Andiamo a vederne alcune, evitando il più possibile spoiler sulla trama.

Il Dark Souls dei God of War?

Con questo sottotitolo chiaramente provocatorio riprendiamo un po’ quello che sembra essere diventato un meme del settore videoludico: vuoi per chiara inadeguatezza, vuoi per generare quell’interesse che solo le opere di From Software sembrano generare su una grossa fetta d’utenza, ma il rapportare i titoli in uscita a Dark Souls è una moda che non cenna a sopirsi, con tutte le polemiche del caso (il buon Monster Hunter World ne  sa qualcosa). Ma è poi così fuori luogo accostare il nuovo capitolo di una serie hack and slash alle opere di From? Per stessa ammissione di Corey Barlog, director del gioco, assolutamente no. Ma ci arriviamo per gradi.

La telecamera dietro le spalle

Questo nuovo capitolo presenta innanzitutto un sistema di telecamera differente dall’inquadratura fissa dei precedenti capitoli: qui l’inquadratura segue alle spalle il nostro Kratos, con un leggero spostamento verso destra in modo da permettere al giocatore di avere un buon campo visivo sull’azione. Già solo questo può essere un punto in comune con i Souls, ma in realtà strizza l’occhio anche ai giochi che hanno fatto di questo setting di inquadratura il loro tratto distintivo. Come non citare ad esempio Resident Evil 4, titolo che anch’esso rivoluzionò i dogmi di una saga di successo, eliminando di fatto le inquadrature fisse dei precedenti capitoli, a favore di una telecamera vicinissima e poco sopra le spalle del protagonista Leon. O ancora, la totale immersività donata da questo tipo di telecamera nella trilogia di Dead Space, titolo capace di donare nuova linfa al genere survival horror. God of War fa propria la terza persona in maniera brillante, rendendo l’intera esperienza di gioco un lunghissimo piano sequenza che segue i personaggi, ruotando su di loro, zoomando su particolari o allontanandosi per inquadrare gargantueschi soggetti (e fidatevi, ce ne sono parecchi, come da tradizione della serie), il tutto però senza mai effettuare tagli e caricamenti di nessun tipo.

I caricamenti nascosti

In realtà la fluidità di messa in scena del gioco ci porta al secondo rimando “celebre” dei videogiochi: il caricamento dinamico. I caricamenti in God of War ci sono eccome, sono semplicemente ben nascosti all’interno di azioni contestuali di gioco, ad esempio ogni volta che Kratos apre una porta o muove un ostacolo per passare all’area successiva. I livelli di gioco sono insomma divisi in  compartimenti stagni, interconnessi tra loro tramite azioni di gioco che permettono il caricamento del prossimo scenario in background. Non si tratta di una novità della serie, considerato che il tutto era presente anche nei precedenti capitoli, ma è in questo God of War che si raggiunge lo stato dell’arte nel campo, con delle transizioni praticamente impercettibili e ben integrate nel movimento dei personaggi. Ma i giochi che presentano questo trucchetto sono davvero un’infinità e vi sorprendereste nello scoprire come questo trucchetto venga utilizzato molto più di quanto crediate. Tra i più iconici del passato non possiamo non citare i portelloni a cui bisognava sparare per aprirli presenti in Metroid, i corridoi di Ocarina of Time, che caricavano l’area successiva appena il giocatore ne avesse superato un certo punto, le lunghissime stanza del castello di Dracula in Castlevania Symphony of the Night o l’iconica animazione dell’apertura di una porta nei primi Resident Evil. O ancora, forse quello che avete attraversato di più senza rendervene mai conto, le case di guardia o i lunghi tunnel sotterranei che dividevano le varie città nelle prime generazioni dei giochi Pokémon. E per non restare ancorati solo al passato, le porte nei Batman Arkham si aprivano più o meno velocemente a seconda del caricamento che nascondevano. Anche gli ascensori di Mass Effect servivano esattamente per questo scopo: caricare la prossima area, mentre il giocatore attendeva senza stacchi sull’azione, magari godendosi qualche dialogo tra i personaggi.

Il backtracking e l’esplorazione accompagnati

E visto che abbiamo parlato di Metroid e Castlevania, c’è qualcosa di più all’interno di God of War, ripreso da questi giochi. Parliamo innanzitutto dell’importanza nell’esplorazione delle aree di gioco alla ricerca di bonus. Ed è proprio durante l’esplorazione che potremo imbatterci in bonus apparentemente irraggiungibili o in zone attualmente inaccessibili. Tramite l’acquisizione di power up e/o il proseguimento della trama il giocatore otterrà capacità che permetteranno di superare gli ostacoli, a patto di superare una bella fase di backtracking, ripercorrendo a ritroso la strada già battuta. Che siano la morphing ball e gli stivali per saltare più in alto per raggiungere posti altrimenti inaccessibili, o la capacità di scoccare frecce impregnate di potere elementale e lame infuocate per superare rovi che bloccano la strada, tornare sui propri passi ed accedere a zone prima interdette è un piacere incommensurabile, se il tutto viene calibrato a modo senza annoiare. Perché  God of War non è un gioco inutilmente Open World, di quelli che annacquano i contenuti pur di far muovere il giocatore in mappe sconfinate, anzi in praticamente ogni zona vi sarà la possibilità di ritornarci in seguito, ed esplorarla con nuovi mezzi ottenuti. Perché oltre al donare al giocatore la sensazione di soddisfazione nell’aver superato un ostacolo che sembrava insormontabile, mostra un implicito miglioramento dei protagonisti all’interno della storia, ora capaci di cose prima impossibili. Gameplay e narrativa che vanno di pari passo dunque, anche grazie all’aiuto del piccolo co-protagonista delle nuove avventure del Dio della guerra. Atreus, il figlio di Kratos, è un’estensione del protagonista, sia in combattimento (di cui parleremo tra poco) sia nell’esplorazione.

E sì che i primissimi trailer di gioco facevano presagire al peggio, cioè all’ennesima missione di scorta tipica dei videogame, nella quale si doveva costantemente badare all’incolumità di qualche personaggio non giocante, spesso fastidiosamente logorroico o funestato da un’intelligenza artificiale alla pari di quella di una motozappa. Per fortuna Atreus non è nulla di tutto ciò, il giovane si muove con disinvoltura nell’azione senza mai intralciarla, spesso infilandosi in pertugi altrimenti inaccessibili alla stazza di Kratos, sbloccando meccanismi o calando funi che consentiranno al giocatore di procedere, ma anche traducendo parole in lingue a noi sconosciute, che ci permetteranno di superare degli enigmi ambientali tutti leve e trappole, che ricordano quelli di un Prince of Persia o, ancor prima, Tomb Raider. Atreus è dunque molto più vicino alla Ellie di The Last of Us, alla Trip di Enslaved o alla Alyx Vance di Half Life. Ed è un bene, considerato come il Leon di Resident Evil 4 (di cui parlavamo sopra) non è stato molto fortunato, costretto a proteggere la figlia del Presidente degli Stati Uniti in quella che è probabilmente una delle peggiori missioni di scorta della storia dei videogiochi. Pericolo scampato.

Dipanare la lore intelligentemente

Croce e delizia di tutti i videogiochi con una forte impronta narrativa, il metodo utilizzato per spiegare al giocatore le nozioni e i concetti cardine dell’opera in questo God of War è ben integrato all’interno della storia. Solitamente vengono utilizzati due metodi principali dalla maggior parte dei titoli: il primo è quello scritto, opere testuali racchiudano informazioni utili su personaggi, avversari, geografia e storia dell’ambientazione in cui siamo calati, sbloccati man mano che il giocatore ne entra in contatto. E l’esempio migliore potrebbe essere quello creato da Bioware per i Mass Effect e Dragon Age, delle piccole enciclopedie che raccontano il folklore accompagnando il giocatore all’immedesimazione. Ma anche la perfetta integrazione di opere letterarie presenti nella finzione dell’opera, come i libri e i romanzi leggibili nei The Elder Scrolls. E come dimenticare l’incasinatissimo diario che Nathan Drake riempie di scarabocchi e notizie utili nei vari Uncharted? Il secondo metodo è quello solitamente audiovisivo, con il giocatore che nel progredire con l’avventura si imbatte in oggetti da raccogliere, spesso cassette e registrazioni, che mostrano o permettono l’ascolto di scene che vanno ad arricchire la storia. E anche qui, un esempio calzante potrebbe essere Metal Gear Solid, che praticamente relega sviluppi di trama importanti in ore e ore di conversazioni nell’iconico sistema codec o in registrazioni audio forse un po’ tediose come in The Phantom Pain. God of War si trova nel mezzo, nel senso che fa uso di entrambi i metodi ma mettendoci chiaramente del suo. La parte scritta riguarda sostanzialmente il diario tenuto da Atreus, nel quale il ragazzo commenta, spesso con fare scherzoso, gli avvenimenti accaduti durante il viaggio, spesso dando consigli indiretti al giocatore. Quella audiovisiva è invece affidata ai dialoghi contestualizzati che i protagonisti hanno in maniera organica durante il loro girovagare per i regni. Si va da normali discorsi padre-figlio ad improbabili fiabe raccontate dal burbero Kratos, fino alla comparsa di un personaggio di cui non farò ulteriori spoiler, ma che diverrà sostanzialmente l’enciclopedia vivente della compagnia e si prodigherà in racconti e approfondimenti sulla mitologia norrena.

Tutto materiale che Atreus trascriverà sul proprio diario, in modo da essere sempre accessibili al giocatore. Insomma, anche in questo campo God of War prende spunto, smussando e rendendo personale il tutto. Con ottimi risultati, considerando quanto i personaggi abbiano da dire e soprattutto come i dialoghi cambino a seconda delle azioni intraprese dal giocatore.

Il sistema di combattimento

Come si diceva poc’anzi, Atreus non è un semplice orpello narrativo, tantomeno un peso. Tutt’altro. Le capacità del giovane in combattimento sono controllate a grandi linee dal giocatore, nonostante il giovane sia dotato d’intelligenza propria. Come dicevamo all’inizio la telecamera di gioco si è spostata dietro le spalle di Kratos, offrendo sì una maggiore immedesimazione, ma portando anche un notevole punto cieco, con relativa impossibilità per il giocatore di vedere cosa accade alle spalle del protagonista, differentemente dai precedenti capitoli con una telecamera fissa che fungeva da panoramica sull’azione. In questo caso, oltre ad un sistema di segnalini che mostrano quando un nemico è in procinto di attaccare alle spalle, Atreus ci fornirà da supporto avvertendoci con indicazioni. L’insieme dell’input visivo del segnalino con quello audio fornito da Atreus compensano alla grande con questa nuova “debolezza” di Kratos. Che poi è esattamente ciò che accadeva in The Last of Us grazie ad Ellie o, ancora più recentemente, in Hellsblade: Senua’s Sacrifice, dove gli avvisi sonori riguardanti gli attacchi nemici sono un vero e proprio cardine di gameplay.

Anche per questo motivo dunque il combattimento nel nuovo God of War si fa più ragionato, la sagra del button mashing è un lontano ricordo anche nelle difficoltà meno impegnative. Ed è per questo che possiamo associare in qualche modo il titolo a Dark Souls. Il gioco diventa una più attenta danza fatta di schivate e ricerca di tempismo per attaccare gli avversari al momento giusto. Vi è persino la possibilità di parry come nei Souls, ossia deflettere al momento giusto un attacco di un nemico, portandolo a qualche secondo di immobilità, utile per contrattaccare. Insomma, i tempi delle combo da 300 colpi sono passati, a favore di un metodico attacco/parata/contrattacco, coadiuvato dall’aiuto dell’utilissimo Atreus.

God of Dungeon Crawler

Per concludere la virata verso il gioco di ruolo d’azione, è peculiare la comparsa di alberi delle abilità, sbloccabili ed ampliabili utilizzando i punti esperienza raccolti abbattendo nemici. Particolare anche la capacità di trovare o acquistare nuovi parti di armature, che a livelli più alti sono dotate di effetti passivi, a volte cumulabili. Inoltre le armi e le stesse armature sono dotate di slot per incastonarvi gemme, che consentono particolari attacchi per quanto riguarda le armi e un aumento delle caratteristiche. Perché sì, Kratos ora è dotato di caratteristiche di base che ne influenzano i parametri, come danni fisici, danni magici, cooldown e difesa. Unite il tutto alla comparsa di quest secondarie totalmente opzionali, ad una serie di eventi raggiungibili post endgame e a quello che è a tutti gli effetti un dungeon con una struttura generata casualmente (sì, in un God of War) e ditemi cosa vi ricorda.

Esatto, uno dei titoli più iconici e di successo, che ha permesso il boom di un genere: il Diablo della Blizzard, nel quale si combatteva all’interno di dungeon alla ricerca di loot sempre più forte, e il tutto veniva generato casualmente ad ogni partita. Ma attenzione, per chi se lo stesse chiedendo: purtroppo niente Butcher e multiplayer in lan in God of War.

 

Gianluca Boi
Recensore seriale, blogger, giocatore di ruolo decennale, hardcore gamer, groupie di Alan Moore. Amante dei Souls, di Castlevania e di Banjo-Kazooie e fanboy di Jet Set Radio. Ha visto Matrix almeno 42 volte, segue il wrestling ed è fissato con lo studio della musica tutta, con una piccola predilezione per gli Ulver, i Fair To Midland e le OST. Nasconde purtroppo un terribile segreto: non sa proprio come leggere gli orologi con le lancette (non scherzo).