Quando il gioco diventa malattia

Sta imperversando, in questi giorni, un’accesa polemica conseguente alla decisione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità di inserire nell’ultima revisione dell’ICD (International Classification of Diseases) una nuova entità nosologica: l’Internet Gaming Disorder (IGD). Ovviamente, come spesso accade, la news che è rimbalzata di portale in portale si è un po’ diluita in mezzo a retorica e allarmismo, scatenando dei dibattiti in cui si è detto davvero di tutto e raramente quel che è passato sotto i nostri occhi è vagamente plausibile.

Cerchiamo di fare un po’ di ordine, perché in quanto videogiocatori (anche accaniti, inutile negarlo), è giusto sapere di cosa si stia parlando e soprattutto è ancor più giusto mettere tutte le informazioni nella giusta prospettiva, senza che si arrivi a malinterpretare una notizia puramente scientifica e come tale asettica e priva di aggettivi. Quelli (gli aggettivi) sono stati messi dopo, magari per aggiungere quel tocco di sensazionalismo che serve per fare un po’ di visite e click in più.

Vi diciamo subito che questo articolo è corredato da una nota bibliografica, dato che è il frutto di studi, letture e approfondimenti su testi e articoli scientifici certificati, ricercati e scaricati da database medici come il PubMed. Ogni qual volta è possibile, verrà linkato il full text dell’articolo, altrimenti, vi dovrete accontentare della nota bibliografica e dell’abstract (a meno che compriate il testo per intero o avete modo di accedervi tramite abbonamenti universitari). Tutto quello che vi linkiamo, noi l’abbiamo letto e assimilato e quello che ne segue è un punto di partenza puramente divulgativo per iniziare ad approfondire un argomento quanto mai interessante e vasto. Inoltre, come si evince dagli anni di pubblicazione, l’attenzione verso l’Internet Gaming Disorder è tanta ed è agli inizi, la strada da fare è ancora lunga e nel corso dei prossimi mesi e anni si aggiungeranno tanti tasselli, quindi, sicuramente torneremo a parlare di questo argomento. Anche se pleonastico, questo articolo non ha una valenza scientifica tale da permettere di farvi autodiagnosi, o iniziare qualsiasi forma di terapia. Per quello c’è sempre il contatto diretto con il vostro psichiatra di fiducia!

Ora è venuto il momento per voi di mollare il pad e di dedicarvi a questa lettura sull’Internet Gaming Disorder: se sarà interessante lo deciderete alla fine, se invece la mollerete per andare a finire God of War, allora ne sarete affetti!

O no?

Internet Gaming Disorder: il DSM-V e i criteri comportamentali

Iniziamo con il dire una cosa: il  mondo medico scientifico si sta occupando dei problemi relativi alla sfera videoludica da anni, non dall’altro ieri. Innanzitutto, l’Internet Gaming Disorder è stato inserito nel DSM-V (Diagnostical and Statistical Manual of Mental Disorder) già nel 2015, dopo l’ultima revisione. E questo è il risultato di una specifica richiesta fatta alla comunità scientifica e ai gruppi di studi psichiatrici, partita da una necessità: chiarire una volta per tutte se la dipendenza da videogiochi era una cosa tangibile, da considerare come patologica.

Tutta una serie di situazioni potenzialmente patologiche sono state analizzate, tra cui la shopping addiction, la dipendenza da Internet surfing, la dipendenza dal sesso:  con sorpresa, la dipendenza da gioco d’azzardo è stata ascritta nel sottogruppo della dipendenza da sostanza d’abuso, data la somiglianza eziologica e biologica tra le due, le comorbidità (patologie concomitanti) associate e il trattamento.

Una volta di fronte alla IGD, il gruppo di studio ha affermato che la situazione psichiatrica è di assoluto rilievo ma nonostante tutto ha preferito inserirla nell’appendice delle patologie bisognose di ulteriori studi, perché ne è stata ravveduta una potenziale dannosità.

Attenzione: c’è un piccolo distinguo da fare. Nella stesura del DSM si è preferito usare il termine INTERNET gaming Disorder non perché ci si è riferito solo al gaming online, ma per creare una linea di demarcazione che raccogliesse il fenomeno dei videogiochi e lo tenesse comunque separato da qualunque altro tipo di gioco (come quello d’azzardo). Il riferimento è a qualsiasi tipo di videogame e qualsiasi metodo di fruizione, sia esso online, offline, su console, su PC, su handheld. Si potrebbe obbiettare che bastava chiamarlo Elettronico per tagliare la testa al toro, ma ancora, la scelta in questo senso è stata influenzata dal fatto che numerosi studi hanno mostrato che si ha una maggiore incidenza di comportamenti patologici in caso di gioco in rete.

Come ben sapete, non basta una definizione per fare una diagnosi. Il DSM-V infatti propone ben nove criteri comportamentali, utili per inquadrare il paziente che si ha di fronte.

Il primo (Preoccupazione) implica che il soggetto è inquieto quando non può giocare ed è impegnato a fare altro. A seguire da questo, quasi strettamente correlato, c’è l’astinenza, che non solo compare quando non è possibile per il paziente accedere a una qualsiasi forma di videogioco, ma soprattutto recede quando finalmente ha l’opportunità di giocare. L’assuefazione è il terzo criterio e si riferisce all’aumentare progressivo del tempo passato a giocare. Al quarto posto c’è la provata difficoltà a staccarsi dal gioco e a diminuire la durata delle sessioni di divertimento. E questo ci porta al quinto criterio: la rinuncia ad altre attività di qualsiasi tipo sostituite dal videogame. Le difficoltà comportamentali non vengono mai viste come tali dal paziente che continua a giocare nonostante siano palesi i problemi che causano alla sua sfera socioaffettiva (sesto criterio), ma anzi lo inducono a nascondere o mentire sull’esposizione ai videogame (settimo criterio).

In chiusura, gli ultimi due criteri sono invece di ben altra natura e coinvolgono la sfera personale del paziente: all’ottavo posto emerge l’eventualità disarmante che la dipendenza da videogame sia correlata alla necessità di fuggire da situazioni emotive negative. E l’ultimo più drammatico criterio espone le conseguenze sociali quasi devastanti che una dipendenza di questo genere può portare: perdita del lavoro e delle relazioni interpersonali, completamente soverchiate da un gaming convulso e preponderante.

A rendere la situazione ancora più ingarbugliata, c’è uno studio Australiano che pone l’accento come il primo criterio proposto dal DSM-V sia in realtà molto più complesso e nasconda delle insidie comportamentali di cui si deve tenere conto. Chi è affetto da IGD infatti spesso mostra quattro fattori cognitivi alterati: una persistente sopravvalutazione dei premi acquisiti con il gioco (lootbox?), una cattiva interpretazione e una sovra-aderenza alle regole di completamento del gioco che impongono quasi un atteggiamento ossessivo verso il gioco stesso (platinatura dei titoli a tutti i costi, per esempio), l’utilizzo dei videogame per guadagnare autostima e autoaccettazione.

La descrizione dei nove criteri necessari a porre un sospetto diagnostico non è sufficiente: il DSM-V indica come usare questi criteri. Infatti, in base a una serie di studi su popolazioni di potenziali gioco-dipendenti, si è notato come la presenza di almeno 5 criteri nei precedenti dodici mesi sia una soglia abbastanza sicura per porre il sospetto diagnostico. Se può sembrare un lasso di tempo estremamente largo, questo è necessario per evitare l’OVERDIAGNOSIS e rendere poi epidemiologicamente inutile ogni possibile studio retrospettico. Considerando quanto sia recente e acerba ancora la conoscenza di questo tipo di potenziale malattia, è bene che ci siano delle regole restrittive soprattutto in ambito diagnostico, altrimenti da qui a un anno saremo tutti ludopatici, rinchiusi nelle cliniche di riabilitazione.

Disturbo anche organico

Accanto ai criteri comportamentali, che sono per ora gli unici approvati dal DSM e quindi preponderanti in corso di diagnosi, la comunità scientifica si è interrogata anche sugli eventuali stravolgimenti organici e di funzionamento che potrebbero colpire il cervello dei pazienti affetti da IGD.

Sono stati condotti studi di diversa natura, con approcci diversi, come gli studi morfometrici basati sui voxel o l’utilizzo della risonanza magnetica funzionale e del sempreverde e fondamentale Elettroencefalogramma, per analizzare il tessuto cerebrale e la relativa attività neuronale, paragonando i soggetti sani con quelli con diagnosi di IGD.

Prima di passare ai risultati, sorprendenti per certi versi, bisogna sottolineare il fatto questi tipi di studi, per quanto affascinanti, non sono affatto definitivi, perché coinvolgono (purtroppo o per fortuna, dipende da che parte state) popolazioni di pazienti ancora statisticamente inadeguate. La loro importanza risiede nel fatto che gettano le basi su futuri approfondimenti (o smentite, non sappiamo mai dove si va a finire quando si indaga!), e soprattutto donano una legittimità completamente diversa alla stessa definizione di Internet Gaming Disorder.

Lo studio dei pazienti con queste tecniche di imaging ha rilevato una serie di alterazioni tangibili del tessuto cerebrale, con modificazioni in svariate zone della corteccia che sottostanno a una larga serie di compiti relazionali e sentimentali.

Al di là della noiosa anatomia e dei tecnicismi, quello che è emerso è che i soggetti affetti da dipendenza da videogames mostrano una deteriorata inibizione delle risposte agli stimoli esterni, alterati controlli cognitivi, peggiori capacità mnemoniche e di prendere decisioni, diminuita funzionalità visiva e auditiva e un’alterazione del sistema neuronale di ricompensa. Sono tutti rilevamenti sorprendenti, non solo per la portata delle modificazioni cerebrali analizzate e riscontrate, ma soprattutto perché molte di queste alterazioni tissutali si riscontrano anche nella dipendenza da sostanze.

Ma non è finita qui: ulteriori studi hanno mostrato che i soggetti affetti da IGD condividono altre caratteristiche patologiche con chi fa abuso di sostanze. Ad esempio, il cervello dei pazienti IGD ha difficoltà nel processare informazioni, manifesta un più basso controllo delle pulsioni e soprattutto fa un uso eccessivo di risorse cognitive per svolgere dei compiti specifici.

Questo apre un nuovo capitolo nel dibattito dell’Internet Gaming Disorder che sicuramente coinvolgerà anche il resto delle dipendenze comportamentali. E d’altronde in questo senso si sta muovendo anche il Gruppo di Lavoro degli Psichiatri, che giustamente ha ideato il gruppo di criteri diagnostici mutuandolo da quelli già formulati per le dipendenze da sostanze.

A complicare ancora di più il quadro già abbastanza fosco, si è notato come alcune risposte elettroencefalografiche in soggetti IGD sono riscontrabili anche in pazienti con suscettibilità genetica all’abuso di alcool. Come conseguenza, si può ipotizzare come soggetti con IGD siano geneticamente  predisposti a sviluppare altre dipendenze. E questo pone nuove interrogativi, di difficile formulazione e di ancora più difficile risposta.

Prima di demonizzare completamente i pazienti IGD, bisogna prendere atto che i risultati di Risonanza magnetica funzionale e EEG hanno anche mostrato degli aspetti positivi: ad esempio  nei soggetti IGD non è stata riscontrata alcuna differenza con i controlli sani in merito alla controllo dell’attenzione e del processamento degli errori. Addirittura (e questo è un aspetto incredibile) è stata rilevata in alcuni casi un’attività cerebrale addirittura superiore e più intensa nei soggetti IGD rispetto alla controparte sana, per quel che riguarda la coordinazione sensitivo motoria. La conclusione provvisoria a cui sono giunti i ricercatori in questo frangente è (tenetevi forte!) che un gaming moderato, controllato, può addirittura essere positivo e avere effetti terapeutici. Videogiocare può essere importante per acquisire e migliorare drammaticamente una gran varietà di abilità cognitive e motorie. D’altronde questo è una prova dell’importanza dell’approccio videoludico simulativo nell’addestramento, come già noto agli ambienti militari e in ambito chirurgico (vedi chirurgia robotica o laparoscopica).

 

 

E allora l’International Classification of Diseases (ICD)?

Se siete arrivati fin qui indenni, vi starete chiedendo perché questo lungo excursus fisiopatologico: queste tre pagine che avete appena letto non sono altro che il motivo (in sintesi) che ha spinto l’Organizzazione Mondiale della Sanità a inserire l’Internet Gaming Disorder nella sua lista statistica delle malattie.

L’attenzione della comunità scientifica, dapprima tiepida, si è via via catalizzata verso questo nuovo fenomeno, fino a raccogliere tanti dati da poter finalmente dire che forse ci troviamo di fronte a una vera e propria malattia. Inevitabilmente, questo processo porta alla necessità di catalogare una patologia, soprattutto per tenere ordine nella miriade di fenomeni fisiopatologici che vengono indagati ogni giorni.

L’azione da da parte di OMS serve solo a ufficializzare e dare spessore a un fenomeno che si sta espandendo. L’associazione degli Psichiatri ha gettato le basi per continuare a studiare questa patologia, in ogni direzione, perché è il solo modo per riuscire a capire fino a che punto possa essere deleteria e questo approccio sta facendo emergere caratteristiche inaspettate della dipendenza da giochi e da internet, come la somiglianza, dal punto di vista neurobiologico, con le dipendenze da sostanze, o la eventuale predisposizione genetica di alcuni individui a sviluppare altre dipendenze oltre quella dei videogame.

Con una tale mole di evidenze e altrettante congetture da verificare, la comunità scientifica e medica tutta ha reagito nel modo più ovvio: ha preso atto e inserito questa patologia nel novero delle malattie ufficiali, in modo da poter avviare studi epidemiologici e statistici su larga scala e volti alla protezione e cura della popolazione.

Inoltre è giusto attestare che questo processo è stato lungo e indaginoso, durato oltre un decennio (sì, i primi articoli riguardo la dipendenza da videogame risalgono ai primi anni del 2000), e non è neanche agli inizi: se qualcuno pensa che sia un modo lento di agire, in realtà è una importante forma di protezione che il sistema di medicina basato sull’evidenza ha creato nei confronti della popolazione. Se bastasse una sola rilevazione sbagliata per creare una malattia, ci troveremmo dei manuali di patologia lunghi miliardi di pagine, la maggior parte delle quali inutili.

Come potete ben vedere, in nessun articolo (NESSUNO) di quelli che abbiamo letto e studiato per la stesura di questo piccolo contributo divulgativo è emersa la demonizzazione dei videogiochi. Il dibattito pubblico, al di fuori della sfera scientifica, è stato pilotato in questo senso dalla scarsa voglia di approfondimento che si manifesta puntualmente in rete. Il titolo clickbait, il trafiletto insignificante che dice poco o niente in sostanza e tutta la serie di commenti ignoranti (perché di questo si tratta, di ignoranza) che ne conseguono non fanno altro che travisare il reale messaggio e la reale portata della notizia stessa.

La società scientifica non si è occupata di videogiochi, anzi! L’attenzione degli psichiatri è rivolta altrove, verso le persone che usufruiscono dei videogame, verso la loro eventuale predisposizione a sviluppare dipendenza, verso l’ancor più pericoloso aspetto sindromico delle dipendenze da videogame, dove l’IGD è solo una manifestazione pure tardiva di altre malattie psichiatriche sottostanti e altrettanto gravi.

Sicuramente il campo oggetto di studio è ancora vergine, tutto da esplorare e probabilmente quello che ci stiamo dicendo oggi verrà smentito tra due anni, ma è giusto che sia così: il perseguimento delle risposte deve essere continuo e inarrestabile fin quando non si hanno per le mani quelle più giuste e vicine alla realtà. Se la comunità scientifica cambia idea dopo un po’ di anni su un argomento, non va visto come una sconfitta ma come una vittoria ancora superiore, perché dimostra come l’ostinazione dei ricercatori e la loro continua sfida verso l’ovvio è l’unico modo per portare avanti il progresso scientifico.

Poi non ci scordiamo che il fine ultimo di questi studi non è solo la mera catalogazione delle patologie, o la loro diagnosi. Questo è solo il primo step: sapere cosa andare a cercare è il punto di inizio per scoprire come curare l’eventuale malattia.

Nel caso della IGD, si conoscono già diverse cliniche di disintossicazione e molte di queste hanno già pubblicato alcuni studi sull’outcome delle terapie applicate ai loro ospiti.

Però bisogna fare dei distinguo e un po’ di precisazioni. Innanzitutto, non esiste allo stato attuale una terapia mirata all’IGD, dato che non si conoscono a pieno le basi fisiopatologiche e psichiatriche di questa manifestazione psichiatrica. Le cliniche stesse che attuano questi programmi di disintossicazione, sono realtà nate per combattere la più generica dipendenza da internet surfing e i programmi contro la dipendenza da videogiochi sono solo delle emanazioni di terapie mutuate da altri ambiti. Si basano su un mix di psicoterapia in singolo, di gruppo e familiare associate allo stimolo a fare altro, come attività fisiche e manuali collaterali, e alla promozione della socializzazione spicciola e senza filtri elettronici.

Molti dati statistici vengono dalla Cina, Hong Kong e Shanghai in testa, ma altrettanti ci arrivano dagli Stati Uniti, con i loro Rehab Camp. Purtroppo, data la giovinezza di questo tipo di diagnosi, ancora non si sa come queste terapie influiscano sui pazienti, soprattutto sul lungo termine, e finora la percentuale di guarigioni è altalenante.   

Conclusioni

Tirando le somme, purtroppo l’Internet Gaming Disorder è un’entità patologica non tanto astratta, ma sempre più concreta, già sotto la lente di ingrandimento psichiatrica da un bel po’ di anni. Le nozioni e le informazioni raccolte sono in numero sempre maggiore e questo serve ad aumentare la conoscenza di questa entità nosologica, per arrivare a una diagnosi precoce, addirittura preventiva, così da scongiurare eventuali conseguenze anche catastrofiche.

Attualmente, la comunità scientifica psichiatrica preferisce essere molto cauta, condividendo e divulgando criteri diagnostici molto restrittivi associati a periodi di osservazione molto lunghi, per evitare una sovradiagnosi. La mossa dell’OMS di inserire nell ICD l’entità Internet Gaming Disorder serve solo a ufficializzare la patologia, e dare peso alla pletora di studi che sono stati fatti a riguardo.

Per ultimo ma non meno importante: nessuno ha mai demonizzato il videogioco. Il videogame, come noi tutti sappiamo, esattamente come Internet in generale, è solo un mezzo di comunicazione e di fruizione di contenuti. Chiunque ne abusa è responsabile delle sue azioni, e non può essere chiamato in causa lo sviluppatore, il publisher o il produttore di console.

Sappiamo benissimo che il proibizionismo non ha mai funzionato del tutto e lo stesso vale per i videogiochi. Quindi non preoccupatevi, non si sta levando nessuna crociata per far spegnere le console a tutti gli adolescenti, ma in realtà il messaggio che la comunità scientifica vuole lanciare è il più universale e di buon senso: giocate, ma con quella moderazione che vi lascia dentro solo il divertimento e non l’angoscia di aver esagerato. Ne è un esempio un lavoro del 2018, meraviglioso, da parte di un duo di psichiatri australiani che appunto da una parte riconoscono che il videogioco possa essere fonte di male, ma dall’altra ammettono che non tutti sono suscettibili a queste conseguenze nefaste. Il loro punto di vista è quello moderato: cercare di riconoscere i soggetti a rischio e proteggerli. E in questo senso la loro ricetta non è di abolire il videogioco: sono ben consapevoli che un approccio restrittivo è controproducente. Quel che auspicano è invece un modello educazionale, che inviti a migliorare il rapporto utente-videogame, soprattutto sensibilizzando l’industria e il pubblico riguardo il potenziale danno che un videogame può fare.  

Così come prendersi un’ubriacatura una volta ogni tanto non farà di voi degli alcolizzati, allo stesso modo farvi una chiusa di dodici ore al giorno per finire Fallout 4 non fa di voi degli alienati da rinchiudere in una clinica.

Pensate che qua in redazione, con le scadenze strette che abbiamo, facciamo delle sessioni al limite dell’umano. Cosa dovremmo fare? INTERNARCI TUTTI?!

Bibliografia:

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Eugene Fitzherbert
Vittima del mio stesso cervello diversamente funzionante, gioco con le parole da quando ne avevo facoltà (con risultati inquietanti), coltivando la mia passione per tutto quello che poteva fare incazzare i miei genitori, fumetti e videogiochi. Con così tante console a disposizione ho deciso di affidarmi alla forza dell'amore. Invece della console war, sono diventato una console WHORE. A casa mia, complice la mia metà, si festeggia annualmente il Back To The Future Day, si collezionano tazze e t-shirt (di Star Wars e Zelda), si ascolta metal e si ride di tutto e tutti. 42.