Perché la comicità giapponese non ci fa ridere

Italia ha sempre avuto un proprio umorismo, che si trattasse di quello da cinema o palcoscenico oppure di semplici battute fra amici. In quest’ultimo caso, poi, possono svilupparsi intere conversazioni o situazioni ripetute perché vissute assieme, quindi comprensibili nella loro comicità solo da chi era presente. Ora che possiamo approcciare diversi tipi di umorismo grazie alle piattaforme streaming, la percezione è che l’umorismo giapponese disti praticamente anni luce dal nostro e da quello occidentale in generale.

Se negli anime possiamo farci aiutare dal lato visivo, con il quale si è instaurata tutta una comunicazione ora quasi universale grazie anche alle emoji che usiamo anche negli sms (sì, basta fare un po’ più attenzione e si capisce subito la loro derivazione giapponese), dal lato pratico è più difficile capire il senso di una battuta se non si conoscono le circostanze che la provocano, eventuali background culturali, ma soprattutto la lingua e ciò che fa ridere il pubblico giapponese.

Comici e programmi in tv

Sono certa che chiunque stia leggendo questo articolo conosca Takeshi’s Castle, almeno di nome. Un programma televisivo degli anni 80 ideato da nientemeno che Takeshi Kitano, che vede in ogni puntata 100 concorrenti affrontare circa 10 prove di resistenza per poi arrivare a una prova finale per “sconfiggere” lo stesso Kitano – signore del castello – e vincere infine 1 milione di yen (al cambio attuale €7323,67).

Insomma un programma che possiamo associare, al di là dei suoi diretti rifacimenti nei vari Paesi (tra cui l’Italia, con Mai dire Banzai), a un nostro Ciao Darwin, con le sue sfide un po’ sopra le righe. In realtà, questo genere di intrattenimento viene proposto anche in altri programmi, in cui sono ospiti personaggi famosi della scena giapponese, messi di fronte a qualche prova per metterli in ridicolo e quindi “smontare” in parte la loro aura di idol.

Tra di loro vi sono anche comici veri e propri, coinvolti nei programmi in quanto tali per portare una versione tutta giapponese di stand up comedy, a cui si fa riferimento molto spesso in anime e manga citando i comici stessi o le loro battute: un esempio su tutti, banale ma efficace, sono Risa Koizumi e Atsushi Otani di Lovely Complex, che essendo di altezze molto diverse e molto litigiosi tra loro, vengono paragonati a un duo comico realmente esistente con le stesse caratteristiche, chiamato All-Hanshin Kyojin.

Kotoba asobi: giocare con le parole

Proprio nei manga, possiamo ritrovare altri elementi della comicità e dell’umorismo giapponese, spesso legati alla lingua e alla sua naturale predisposizione ai giochi di parole. La lingua giapponese, infatti, presenta numerose omofonie, distinguibili grazie ad accenti posti sulle sillabe corrette durante la pronuncia, dal contesto e dalla loro scrittura.

I cosiddetti kotoba asobi (giochi di parole) hanno struttura simile tra loro: tendono ad avere le stesse sillabe pronunciate più volte, che grazie alle omofonie assumono significati diversi perlopiù assurdi. La frase risulterà avere un significato di senso compiuto, ma sarà divertente in base all’immagine creata, che spesso è completamente nonsense. E per rendere al meglio l’effetto, la regola è dire la battuta con espressione serissima. A questa poi si reagisce come se non facesse ridere per niente, ma ciò significherà che invece la battuta è stata colta, e così il gioco è fatto.

Un esempio semplicissimo, che rende queste frasi paragonabili alle nostre brevi barzellette oppure alla classica “knock knock? Who’s there?” inglese, è questo:

Iruka ga iru ka? イルカがいるか。

Volutamente scritta solo in hiragana, primo alfabeto sillabico giapponese, e senza kanji che permetterebbero di distinguere meglio le componenti, proviamo a smembrare la battuta: Iruka sta per “delfino”, mentre iru è il verbo di esistenza (per semplificare molto, simile al nostro verbo essere) e ka è la particella di domanda. La frase si traduce allora semplicemente: “C’è un delfino?”. Questo è uno degli esempi più banali e sciocchi e non ha assolutamente senso! Nel contesto giusto, però, farebbe il suo effetto e dimostrerebbe una certa spigliatezza e scioltezza con le peculiarità della lingua giapponese, tant’è che esiste addirittura un sito come questo https://dajare.jp/ nel quale trovare tanti giochi di parole simili.

Altri modi con cui i giapponesi si divertono con le parole sono gli scioglilingua hayaguchi kotoba 早口言葉. In questo caso è ancora più evidente la ripetizione di sillabe uguali che in realtà significano cose diverse. Un pratico esempio coinvolge prugne e pesche, frutti amati in Giappone: Sumomo mo momo mo momo no uchi 李も桃も桃のうち。Sumomo sono le prugne, momo le pesche, ma tra loro c’è una particella mo che significa “sia… sia”; infine no uchi che indica il gruppo di frutti cui appartengono quelli citati. Perciò, questa frase si traduce: sia le prugne che le pesche fanno parte della stessa famiglia (di frutti). Non tanto diverso dai nostri scioglilingua pieni di allitterazioni, no?

Un ultimo esempio sono anche gli indovinelli, nazo nazo なぞなぞ, con cui pure noi occidentali ci dilettiamo e troviamo piacevoli e acuti se hanno un doppio significato. Dunque, secondo voi,

pan wa pan demo, taberarenai pan wa nani? パンはパンでも 食べられないパンは、なに?Traduciamo: “il pane è pane, ma quale pane non puoi mangiare?”. Non significa nulla, no? Ma tutto assume senso quando si sa che in giapponese, “pane” si dice “pan” e la risposta a questo indovinello è furai panフライパン, che è la traslitterazione della parola inglese fry pan, cioè una padella!

Esercitare la risata

In Giappone, insomma, si divertono con poco e, a guardar bene, in alcune cose non ci distinguiamo poi così tanto. Oltre a omofonie o scioglilingua, l’umorismo giapponese assomiglia al nostro anche quando si coinvolgono i dialetti.

In particolare, è il cosiddetto Kansai-ben a riscuotere risate in coloro che non lo parlano. Come in Italia sono napoletano o sardo sono considerate vere e proprie lingue, anche il dialetto del Kansai si distingue dal giapponese standard per parole usate solo nelle zone appunto del Kansai, ovvero in città come Kyoto e, soprattutto, Osaka.

Quest’ultima è una città conosciuta non solo per il suo goloso street food ma anche per essere praticamente una culla per l’umorismo giapponese, poiché molti comici vengono proprio da qui. L’associazione tra comicità e dialetto del Kansai, dunque, è avvenuta in modo naturale! Proprio come dovrebbe essere la risata.

Ammettiamo, insomma, che ridere e capire l’umorismo di un’altra cultura non sia semplice e quello giapponese certamente ha le sue peculiarità; molte battute, purtroppo, sono strettamente legate alla lingua ed è inevitabile che si verifichi un fenomeno di lost in translation. I nostri traduttori e adattatori fanno del loro meglio e, in pratica, sono i primi a dover fare esercizio non solo linguistico ma anche umoristico, per capire cosa effettivamente dovrebbe far ridere e come trasporlo in italiano.

Per chi studia giapponese o guarda molti anime o serie tv in lingua originale, perciò, sarà doppiamente interessante, tuttavia rimarrà sempre qualcosa di “inspiegabile”, dovuto al contesto o a un background che starà solo a noi decidere se voler approfondire per farci, alla fine, una sana risata.

Alessia Trombini
Torinese, classe '94, vive dal 2014 a Treviso e si è laureata all'università Ca' Foscari di Venezia in lingua e cultura giapponese, con la fatica e il sudore degni di un samurai. Entra in Stay Nerd nel luglio 2018 e dal 2019 è anche host del podcast di Stay Nerd "Japan Wildlife". Spende e spande nella sua fumetteria di fiducia ed è appassionata di giochi da tavolo, tra i quali non manca di provare anche quelli a tema Giappone.