Siamo abituati a relazionarci con gli animali nei videogiochi. Ma come lo facciamo, e cosa dice questo della nostra società?

o so che il titolo è provocatorio e probabilmente avrà già spinto qualcuno, su Facebook, a scrivere un commento per comunicarci che stasera mangerà una bistecca. E so anche che è un pochino fuorviante, perché avrebbe forse avuto più senso parlare di antispecismo e non di veganismo, ma mi sembrava più efficace e volevo tenere le cose semplici. La questione importante non è infatti legata alle scelte alimentari del singolo, quanto alla rappresentazione degli animali di cui siamo abituati a fare esperienza all’interno del videogioco, che come qualsiasi rappresentazione nelle opere di finzione altro non è che una diretta gemmazione della percezione collettiva rispetto a un determinato tema, e contemporaneamente uno specchio di quella stessa percezione collettiva.

Il discorso è storicamente evidente, e chi lo nega o è in malafede o ha difficoltà a leggere in una prospettiva storica e sociale i prodotti dell’industria dell’intrattenimento: la rappresentazione della donna è qualitativamente migliorata negli ultimi anni grazie alla nascita, in una parte della coscienza collettiva, di un sentimento di rigetto per il sistema patriarcale e di quello che questo significava per il ruolo della donna nella società. Non si può non notare come, nei videogiochi di qualche anno fa, l’oggettificazione delle figure femminili era mediamente lo standard. Allo stesso modo la rappresentazione delle minoranze di colore al cinema, nella prima metà del secolo scorso, era macchiettistica se non proprio spiccatamente razzista (se c’è differenza tra le due cose).

Il nostro fruire di prodotti di intrattenimento, siano essi film, fumetti, libri o videogiochi partecipa alla costruzione della nostra percezione della realtà, e partecipa anche alla percezione che abbiamo di noi stessi all’interno della società, e questo è maggiormente vero nel caso fossimo parte di una minoranza.

videogiochi vegani antispecismo

Arriviamo al punto della questione, ma prendiamola (ancora) un po’ alla larga seppure con le necessarie semplificazioni: la teoria antispecista si pone come obiettivo la liberazione degli animali e la parificazione del loro status morale a quello degli esseri umani. Il punto da cui si può partire per giungere a questa conclusione non è necessariamente condiviso: c’è chi lo fa per una questione morale e chi per una questione politica, per dirne due. La questione politica è quella che ci interessa in questa sede, perché se assumiamo che il sistema di sfruttamento degli animali sia una parte integrante del sistema economico capitalista, è chiaro come lo stesso sistema economico, che a sua volta produce le opere di intrattenimento, tenderà con più o meno coscienza di farlo a ripetere lo stesso schema di potere per il quale l’uomo sfrutta gli animali.

Così arriviamo al nocciolo della questione, ovvero l’oggettificazione degli animali all’interno dei videogiochi. Sembra scontato dirlo, ma è un fatto che gli animali all’interno dei videogiochi siano trattati quasi sempre come risorse. Se prendiamo un qualsiasi RPG open world gli animali da cacciare sono esattamente equiparati alle piante da raccogliere, e questo lo possiamo anche inserire in un discorso di “rappresentazione” storica, se vogliamo. Cacciare animali per averne le pelli per realizzare armature, in un contesto fantasy, è perfettamente sensato. Lo è meno quando ci spostiamo in un contesto contemporaneo o sci-fi addirittura, ma hey, siamo così abituati a cacciare gli animali per costruire le borse che ormai la cosa è parte del linguaggio videogioco, così uccidiamo cervi per fare una faretra quando è certamente più facile rubare uno zaino in stoffa. Così è più realistico, dà più senso di immersione.

Non si tratta dell’uccidere animali virtuali, quanto di aver talmente interiorizzato l’uccidere animali per costruire cose che lo assumiamo come vero, realistico e inevitabile quando normalmente dovrebbe rompere la sospensione dell’incredulità – penso in questo caso a un Far Cry a caso.

Se volessimo spostare l’attenzione verso altri titoli avremmo l’imbarazzo della scelta, ma per cercare di essere ancora più efficaci nel discorso prendiamo come esempio un caso paradossale, vista l’attenzione che il gioco riserva all’ecosistema: in Red Dead Redemption 2, le cacce agli animali leggendari fanno parte delle attività secondarie e dei collezionabili. Quindi, per svolgere il concetto, in Red Dead Redemption 2 gli animali unici, l’unico esemplare rimasto “sulla terra”, lo dobbiamo uccidere con la ricompensa di collezionare qualcosa di superfluo nell’economia del gioco, utile solo a tramutarsi in un trofeo. Non si tratta quindi di cacciare per mangiare, cosa assolutamente comprensibile in quel contesto storico. La noncuranza con cui questo è introdotto e incentivato è IL problema, perché siamo così tanto scollati dall’azione che compiamo che non ci interroghiamo su cosa stiamo facendo, perché in fondo abbiamo oggettificato l’animale non solo nella vita virtuale, ma anche in quella reale.

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Eh sì, ma ammazziamo pure gli esseri umani. Vero, ma gli esseri umani nei videogiochi li ammazziamo per difesa, per un obiettivo più alto rispetto al “ho ammazzato l’orso leggendario”. Tanto è vero che i giochi in cui la violenza contro gli esseri umani era ingiustificata hanno sempre fatto sollevare più di un sopracciglio: penso a Hatred, rimosso da Steam per un periodo, contrariamente a Cabela’s Big Game Hunter: Pro Hunts che invece è presente in ogni store e che di fatto parla della stessa cosa, ovvero ammazzare altre creature per divertimento; penso anche a Postal, grande scandalo da quando è uscito, che ha sì una forte nicchia di sostenitori ma anche un gruppo di persone che lo giudicano per la porcheria che è non solo per via del claudicante aspetto tecnico, ma perché la violenza fine a sé stessa può risultare fastidiosa (se non si tratta di animali).

La violenza è poi al centro di un nuovo discorso all’interno del linguaggio videogioco, portato avanti prima da No More Heroes, poi da Hotline Miami e infine da The Last of Us 2, ognuno con le sue sfumature e i suoi focus specifici. Nei primi due casi in particolare l’attenzione è rivolta al giocatore e al suo divertimento nell’usare violenza all’interno dei videogiochi, anche quando questa non è narrativamente giustificata, ma il racconto è una cornice volutamente fragile costruita solo per “giustificare” la violenza. Ecco, estendiamo questo discorso a come sono rappresentati gli animali all’interno dei videogiochi e cerchiamo di ragionare su come siamo, spesso “senza motivo”, spronati a sterminare specie intere.

Il caso ovviamente più emblematico è quello di Monster Hunter, serie che peraltro reputo fantastica anche se ho difficoltà a giocarci perché mi prende male uccidere animali. Il loop di gameplay di Monster Hunter è: sterminare animali per costruirsi armature migliori per sterminare altri animali, per fare armature migliori per sterminare altri animali. Animali che spesso stanno lì per conto loro nel loro ecosistema, siano essi aggressivi o meno. Ma gli esseri umani hanno bisogno di terre, quindi è “narrativamente giustificato” andare a rompere le palle alle bestie nel loro habitat per farsi le armature, per poi rompere le palle ad altre bestie.

Monster Hunter è però anche una metafora in qualche modo, e forse inconsapevolmente, brillante del rapporto dell’uomo con la natura. Potrei estendere il discorso anche a Pokémon, ma vorrei evitare la lista di giochi in cui il rapporto uomo/animali è strutturato in un sistema di potere e sfruttamento, non foss’altro perché mi pare ovvio.

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Invece è interessante constatare che esistono anche esempi virtuosi, anche senza andare a cercare i giochi indipendenti che puntano proprio a parlare di questo tema.

Oddworld costruisce proprio un discorso di questo tipo, e può essere letto facilmente in una prospettiva antispecista nonostante il punto di partenza da cui parte Lorne Lanning per scrivere la storia sia un altro, che però riguarda sempre il sistema di produzione del cibo: racconta in questa bella intervista ad Ars Technica come si era accorto di quanto cibo venisse sprecato ogni giorno dalle aziende produttrici, che lo distruggevano invece di regalarlo ai poveri che vivevano letteralmente dalla parte opposta della strada. Oddworld partendo da questo assunto ci mette nei panni “del cibo”, sfruttati per lavorare fino a diventare noi stessi il prodotto, l’ultimo snack di un’azienda che piano piano porta all’estinzione le altre creature del pianeta per consumarle, creando quindi un rovesciamento in cui non ci troviamo più nella posizione di potere e di sfruttamento, ma interpretando invece le vittime.

Quello che vorrei suggerire è che siamo così abituati a utilizzare gli animali come risorsa sia nel videogioco che nella vita reale che perdiamo totalmente di vista la realtà delle cose, e accettiamo una narrazione che alimenta un sistema di potere e sfruttamento perché è essa stessa figlia di un sistema di potere e sfruttamento.

Ovviamente le righe che avete letto non vogliono esplorare a fondo il problema, ma vogliono come accennato suggerire una chiave di lettura diversa al nostro agire all’interno dei videogiochi, muovendo il discorso in una direzione più consapevole rispetto al “ma sono solo pixel” o dal “eh ma si uccidono pure le persone” e cercando di aprire una conversazione sul perché siamo abituati a comportarci in un certo modo e cosa questo ci dice della società che produce questi prodotti.

Luca Marinelli Brambilla
Nato a Roma nel 1989, dal 2018 riveste la carica di Direttore Editoriale di Stay Nerd. Laureato in Editoria e Scrittura dopo la triennale in Relazioni Internazionali, decide di preferire i videogiochi e gli anime alla politica. Da questa strana unione nasce il suo interesse per l'analisi di questo tipo di opere in una prospettiva storico-politica. Tra i suoi interessi principali, oltre a quelli già citati, si possono trovare i Gunpla, il tech, la musica progressive, gli orsi e le lontre. Forse gli orsi sono effettivamente il suo interesse principale.