Dal 9 ottobre arriva anche in italia (su Sky) We are who we are, miniserie firmata da Luca Guadagnino. Ecco qualche impressione sulle prime due puntate. 

Fraser e Caitlin sono due adolescenti alle prese con i problemi tipici della loro età. La curiosità verso il sesso, verso l’altro sesso, ma anche verso il proprio. L’annosa questione del chi si è e chi si vuole diventare. Il conflitto con il modello familiare, con le regole di un mondo poco interessante. Vivono questa fase in un microcosmo atipico, una base militare americana a Chioggia dove lavorano i rispettivi genitori. Due madri per Fraser (Chloë Sevigny e Alice Braga), una famiglia numerosa per Caitlin.

Luca Guadagnino gioca la sua carta dell’opera seriale con We are who we are, prodotto HBO che attinge a piene mani dalla poetica dell’autore. Diversi elementi, infatti, richiamano le atmosfere che hanno fatto sì che Guadagnino venisse acclamato in tutto il mondo come narratore speciale dei turbamenti adolescenziali. C’è molto di Chiamami col tuo nome in We are who we are: dall’età dei protagonisti, alla lente di ingrandimento sulla loro crescita anche sessuale, fino all’ambientazione italiana.

L’Italia di We are who we are (e di Guadagnino)

Come in Chiamami col tuo nome (scritto, ricordiamo, da James Ivory) quella di Guadagnino è un’Italia sotto vetro. Per rispettare il pubblico di riferimento (i ragazzi americani) e per affascinare i suoi connazionali, l’autore sceglie di non inserire i personaggi in un contatto reale col luogo, ma in un posto ibrido, a metà tra terra d’origine e terra d’arrivo.

Nel caso di We are who we are, il fatto che ci si trovi in una base americana in Italia (vicino Venezia, una delle città più idealizzate al mondo) permette di girare in lingua inglese senza forzature di trama, ma anche di raccontare un ambiente cristallizzato, in cui lo spettatore può riconoscersi. Questi ragazzi trapiantati portano con loro una allure internazionale, un atteggiamento cosmopolita che appartiene più alle grandi metropoli che alle città italiane.

We are Guadagnino

L’Italia appare così come un piacevole sfondo, il solito presepe già visto e adorato dal pubblico di tutto il mondo in Chiamami col tuo nome. Allo stesso modo, la lingua italiana, almeno se si guarda la versione originale, è più un sottofondo musicale che accompagna le interazioni reali dei personaggi. Anche gli italiani che compaiono tra i personaggi almeno in un primo momento non sembrano avere ruoli importanti, ma puramente accessori al percorso dei protagonisti.

In questo non ci sarebbe neanche nulla di male, se non mostrasse la difficoltà tutta americana di riconoscersi in storie in cui non si parla e non ci si comporta esattamente come loro. Guadagnino stempera questa tendenza preoccupandosi di curare una minima interazione tra i personaggi e il loro ambiente, restando per quanto possibile coerente alla sua sensibilità europea.

La ricerca di sé come tappa dell’adolescenza

We are who we are si inserisce nel filone di serie per adolescenti che negli ultimi anni hanno raggiunto rare vette di qualità, e non solo per quel che riguarda le produzioni americane. Il tono realistico con cui si affrontano tematiche spinose (come la sessualità, etero o omo che sia, o l’identità di genere) fa parte dei grandi punti di forza di questo tipo di serie. 

Anche in questo caso, i due protagonisti provano sulla loro pelle quella ricerca di sé che molti adolescenti vivono in solitaria, non condividendo le loro emozioni più profonde né con i genitori, né con i conoscenti. Guadagnino parla al suo pubblico con un interesse autentico, studiandolo e rispettandolo. Non c’è volontà di normalizzare i personaggi né di calcare la mano sulle loro stranezze e la loro confusione. Insomma, pur in un luogo che è un non-luogo, in cui l’identità culturale è fortemente diluita da un contesto alieno, pur con due protagonisti che rifiutano il tracciato eteronormativo, lo sguardo del regista è delicato, oggettivo, per nulla incline alla spettacolarizzazione. 

Who are who we are: Guadagnino nella sua comfort zone

Sex Education, SKAM, Euphoria. Sono solo alcuni dei casi degli ultimi anni che hanno portato i teen drama a fare un salto di qualità. Quando, dunque, HBO ha messo in cantiere la produzione di una nuova serie adolescenziale, non c’era scelta migliore che quella di Luca Guadagnino, artista che unisce l’eleganza europea al respiro internazionale. Insomma, l’operazione era chiara e voleva raccogliere tutti coloro che hanno amato il regista nella sua opera più famosa, spremendo fino in fondo il suo potenziale. 

We are Guadagnino

Questo ha portato alla costruzione a tavolino di una storia in cui Guadagnino ha potuto rimettere in campo gli elementi più efficaci del suo capolavoro (sì, sempre Chiamami col tuo nome), rimescolandoli in una nuova ricetta. Che poi, neanche così nuova. Il risultato è esattamente adeguato alle aspettative: elegante, rarefatto, romantico, ben girato, con una fotografia meravigliosa e malinconica e con un’ottima direzione degli attori. 

Tuttavia, non c’è nulla di più noioso di un artista nella sua comfort zone, che non rischia, che non osa. Guadagnino era riuscito ad uscire dal recinto del suo successo con il remake di Suspiria, che aveva sconvolto una platea impreparata alla novità. Eppure, in quel momento ha dimostrato di essere un autore con un gran carattere e delle intuizioni estetiche eccezionali. 

Hollywood dà Hollywood toglie

Quello di Guadagnino sembra essere un destino comune a molti autori europei trapiantati in America. La macchina produttiva hollywoodiana (che si tratti di film o di serie TV) poco investe sull’estro o sulla ricerca dell’artista. Piuttosto, punta a creare versioni digeribili di prodotti di successo, che sono riusciti a superare il gap culturale e far breccia nel pubblico statunitense. 

We are Guadagnino

Nel caso di Guadagnino questo passaggio è stato graduale, arrivando già da produzioni internazionali. Tuttavia il risultato non cambia e We are what we are ne è la dimostrazione; un prodotto confezionato ad hoc, dove l’artista è totalmente a disposizione della aspettative del pubblico. Non un un difetto madornale, sia chiaro, tant’è che la serie resta qualitativamente ineccepibile. Eppure, conferma quella contraddizione così frequente nell’arte, per cui “perfetto” non corrisponde sempre a “interessante”. 

Francesca Torre
Storica dell'arte, giornalista e appassionata di film e fumetti. Si forma come critica tra Bari, Bologna, Parigi e Roma e - soprattutto - al cinema, dove cerca di passare quanto più tempo possibile. Grande sostenitrice della cultura pop, segue con interesse ogni forma d'arte, nella speranza di individuare nuovi capolavori.