Abbiamo avuto modo di scambiare quattro chiacchiere con Adam Williams, giovane e talentuoso membro di Quantic Dream, che ha affiancato David Cage nella scrittura di Detroit: Become Human, nuovo titolo di punta esclusivo per PS4, in arrivo a fine maggio e giocato da noi in anteprima proprio in occasione di questo piacevole incontro.

Quali sono le differenze più importanti tra il nuovo progetto di Detroit: Become Human e il tuo precedente lavoro su Quantic Dream?

Ci sono due differenze sostanziali tra Detroit: Become Human e i giochi che l’hanno preceduto: la prima riguarda la narrativa e la quantità di scelte che il giocatore può fare all’interno del gioco e che vanno a influenzare la storia. Se pensi a un film standard – prendiamo come esempio Blade Runner – la sceneggiatura di Blade Runner è lunga 124 pagine; quella di Detroit è 3000 pagine, abbiamo filmato 3000 pagine per essere sicuri che il giocatore avesse un enorme ventaglio di scelte per scrivere la propria storia.

La seconda differenza la si trova nel gameplay: la nostra filosofia di sviluppo è sempre stata quella di permettere al giocatore di avere più controllo possibile e in questo caso abbiamo meno cutscene rispetto ai giochi precedenti. Il gameplay e l’nterattività sono il nocciolo dell’esperienza e più il giocatore può controllare il personaggio, più si sentirà immerso nella storia, perché si crea una connessione tra i due: se il personaggio è in una situazione di stress e le interazioni si fanno più difficili, anche il giocatore proverà lo stesso stato d’animo. Perciò il gameplay diventa uno strumento per raccontare la storia al pari delle scelte da compiere, che ci permette di creare il senso di immersione.

Parlando delle scelte da compiere, quali sono le sfide più grandi nel creare una storia che contiene così tanti bivi? Come si crea una narrazione simile?

Beh, si crea rinunciando ad avere una vita propria [ride n.d.R.].
Io ho lavorato per la TV, che è un medium lineare; quando scrivi per un medium lineare il tuo ruolo è scegliere una storia e raccontarne la versione migliore, mentre scrivere per un medium interattivo significa che non sei tu a scrivere la storia, ma è il giocatore a farlo. Il giocatore scrive la sua storia, il tuo lavoro consiste nel fornirgli gli strumenti di cui ha bisogno per farlo. Nel caso di Detroit sono stato mosso dalla consapevolezza che il nostro ruolo, come scrittori, fosse di porre domande interessanti, ma che sarebbe stato il giocatore, con le sue scelte, a scrivere la storia. Il giocatore risponde alle domande creando un racconto unico, diventando co-sceneggiatore del nostro team.

Questa è un’enorme sfida, che si traduce – come ho detto prima – in una mole di lavoro gigantesca, perché stai creando qualcosa di molto più grande di una storia lineare, ma ne vale la pena, perché ogni versione di essa è aderente alla persona che sta giocando. La personalizzazione della storia la rende speciale e più emozionante, poiché se il personaggio si trova in una situazione e tu devi fare una scelta, ti senti responsabile di quello che succederà, in qualche modo. Perciò ti senti coinvolto e rifletti molto di più di quanto faresti davanti alla tv; guardando una serie può venirti voglia di esplorare i temi trattati, ma per costringere il pubblico a pensare e a formulare una propria opinione, non c’è niente di meglio dell’interattività, del giocare e prendere decisioni. Quando giochi come Connor, cacciando i devianti, non puoi fare delle scelte senza decidere se i devianti si meritano o meno la libertà. Devi pensarci, perché è una tua scelta.
Perciò l’interattività rende molto più complessa la scrittura, ma ne vale la pena.

Da cosa ti sei fatto ispirare per l’idea di futuro che vediamo in Detroit: Become Human?

C’è una dimensione fantascientifica della storia, quindi è ovvio che mi sia ispirato alla vasta tradizione della sci-fi – Asimov, H.G.Wells, Kubrick, lo stesso Blade Runner – che indaga la relazione tra tecnologia e umanità.
Ma Detroit: Become Human non è solo una storia di fantascienza: l’ambientazione è quella di un futuro non troppo lontano e ci siamo imposti di non usare tecnologie che non siano già state sviluppate o che siano in via di sviluppo al momento, per far sì che il mondo del gioco fosse realistico; non volevamo che sembrasse un ambientazione di fantasia o una realtà alternativa, volevamo che fosse il nostro prossimo futuro, quello in cui è indirizzata la nostra società.
Perciò siamo stati influenzati da ogni storia riguardante temi universali come i pregiudizi e la giustizia, società divise, scelte e conseguenze; le persone spesso si stupiscono dell’ingerenza che la filosofia può avere sul nostro lavoro, ma la realtà è che impieghiamo molto tempo a riflettere su questioni filosofiche, come la domanda esistenzialista sull’esatta essenza dell’essere umano, su cosa renda un essere umano tale e su quale sia il ruolo delle scelte, del libero arbitrio. Prendendo alcune decisioni anziché altre, in qualche modo scrivi la storia della tua vita, ciò che diventi è il risultato delle tue scelte e questo è molto interessante per noi perché il medium che usiamo lavora esattamente nello stesso modo: le scelte del giocatore scrivono la storia, ed è una sorta di meta-connessione.

Quanto è stato difficile creare una storia in cui i personaggi principali sono androidi con personalità non umane?

Ottima domanda! Si potrebbe pensare che raccontare la storia di tre androidi possa rendere difficile trovare le emozioni in grado di muovere gli eventi, perché si tratta di macchine, ma questo è il motivo per cui i devianti sono così interessanti: nel gioco la devianza è quella che dà la possibilità agli androidi di provare emozioni e desiderare la libertà. Kara e Markus sono due devianti e il nostro approccio è stato quello di pensare che fintanto che Kara li sente come tali, i suoi sentimenti sono reali tanto quanto i miei lo sono per me e i tuoi per te, e lo stesso approccio è stato usato per Markus. Per i devianti le loro emozioni sono reali, per questo abbiamo potuto creare i loro personaggi nello stesso modo in cui abbiamo creato gli altri: anche gli androidi hanno un passato e un futuro, paure, speranze, sogni, aspirazioni e questo solleva una domanda interessante: se una macchina possiede tutto questo, è ancora una macchina? Questa è la domanda più importante che abbiamo cercato di sottolineare, quella che speriamo emerga durante il gioco. Il giocatore entra nei panni di Connor, un cacciatore di devianti, ma anche in quelli di Markus, che cerca di proteggerli. Dovrete quindi scegliere da quale parte stare e altre domande verranno a galla: cos’è un deviante? È un essere umano? Perché? E se è un essere umano, deve avere gli stessi diritti di un essere umano? Il nostro lavoro è stato quello di non rispondere a queste domande, ma di offrire tutte le risposte possibili.

Davide Salvadori
Cresco e prospero tra pad di ogni tipo, forma e colore, cercando la mia strada. Ho studiato cinema all'università, e sono ormai immerso da diversi anni nel mondo della "critica dell'intrattenimento" a 360 gradi. Amo molto la compagnia di un buon film o fumetto. Stravedo per gli action e apprezzo particolarmente le produzioni nipponiche. Sogno spesso a occhi aperti, e come Godai (Maison Ikkoku), rischio cosi ogni giorno la vita in ridicoli incidenti!