Satirici, dissacranti e politicamente scorretti, ma hanno anche dei difetti: sono gli Animaniacs

Correva l’anno 1993 quando, sui piccoli schermi americani, facevano la loro comparsa Yakko Warner, Wakko Warner e Dot Warner, meglio noti come gli Animaniacs: creata da Tom Ruegger e prodotta dalla Amblin di Steven Spielberg, quella con protagonisti i tre bizzarri fratelli Warner può sembrare una serie per bambini come tante altre, se non ne si conoscono le dinamiche.

Ben ventisette anni dopo, precisamente nell’ottobre del 2020, assistiamo al loro ritorno: Hulu ha ordinato infatti una stagione reboot della serie. Ma cosa c’è dietro all’hype nei confronti degli Animaniacs? Com’è possibile che questa serie animata, creata per i millennials bambini, vanti ancora una folta schiera di fan adulti che ne aspettano trepidanti il rifacimento?

Animaniacs

Per rispondere a questa e ad altre domande, aventi a che fare precisamente con il perché Animaniacs possa essere definita un vero e proprio cult generazionale, occorre andare per gradi e ripercorrere la storia e le peculiarità di questo piccolo gioiello animato.

Identikit di Animaniacs

Dicevamo, quindi, era il 1993 quando il primo episodio di Animaniacs andava in onda negli Stati Uniti per la prima volta: l’ultimo episodio sarà invece trasmesso cinque anni e cinque stagioni dopo, nel 1998. L’arrivo della serie in Italia, dove i fratelli Warner non hanno mai preso piede tanto quanto negli USA, risale invece al 1996, ben tre anni dopo la prima visione statunitense.

Il format della serie è tanto semplice quanto innovativo: anziché presentarsi come un unico episodio come di norma accade, i venti minuti di durata di una puntata di Animaniacs si suddividono in due o tre corti animati, come se si trattasse di un varietà di sketch in miniatura. I fratelli Warner sono i protagonisti della serie e i personaggi cui viene dedicato più tempo all’interno di ogni episodio, ma ci sono tanti altri personaggi che agiscono in corti e trame a loro dedicati: Mignolo e Prof, per citare i più famosi anche in Italia, ma anche i Picciotti, Vera Peste e Cocco, Rita e Runt, e tanti altri.

Animaniacs

Filo conduttore che unisce non solo gli episodi, ma anche i corti animati in essi contenuti, è una comicità in stile slapstick, fatta di gag molto fisiche ed esagerate, di tormentoni verbali e di situazioni ricorrenti. Dal punto di vista tematico, invece, ciò che accomuna tutto ciò che è contenuto in un episodio di Animaniacs è uno sguardo satirico sul mondo, in particolare sul panorama di Hollywood, ma anche e soprattutto sull’attualità: dai politici ai reali ai personaggi storici, nessuno si salva dallo humor dissacrante di questa serie.

Il cinema, lo star system e oltre

Particolare attenzione nella serie c’è per il mondo del cinema, che è sostanzialmente quello in cui agiscono tutti i personaggi, sebbene ciascuno nella propria trama: gli stessi fratelli Warner vengono dipinti come dei cartoni animati rinchiusi in una torre negli studi Warner Bros di Burbank, in California, perché troppo irriverenti e fastidiosi.

I Picciotti, un gruppo di tre piccioni dallo spiccato accento siciliano, sono una chiara parodia di Quei bravi ragazzi (tanto che in inglese si chiamano “The Goodfeathers”, gioco di parole che richiama proprio The Goodfellas): gli episodi a loro dedicati li vedono spesso tentare di prendere parte a produzioni cinematografiche, tra cui un rifacimento goliardico de Gli uccelli di Hitchcock. Una vera chicca, da questo punto di vista, è poi Vera Peste, scoiattolo ed ex attrice di cartoni animati in bianco e nero con un temperamento decisamente infuocato, sempre pronta a prendersela con vecchi e nuovi colleghi sotto lo sguardo attonito del nipotino Cocco.

Animaniacs

Più che una semplice ambientazione, quindi, quella cinematografica è più una presenza costante e costantemente parodiata all’interno del microcosmo di Animaniacs, che compie più volte viaggi in avanti e (soprattutto) indietro nel tempo per non escludere niente e nessuno dal proprio radar. Tra gli episodi emblematici in questo senso, che hanno forse contribuito a formare piccoli cinefili in erba e che non possono non strappare un sorriso ai più navigati, annoveriamo “Scherzare con la morte”, che contiene prese in giro dei più grandi successi di Ingmar Bergman, da Il settimo sigillo  a Persona, e “Salve, simpatici Warner”, dove i Warner fanno la conoscenza di un regista dalle fattezze e movenze di Jerry Lewis.

La satira, immancabile in Animaniacs

Questo sguardo irriverente di Animaniacs sulla cultura moderna non si limita al cinema, ma va a colpire tutti coloro che, negli anni ’90, potevano essere considerate personalità di spicco. Attori, quindi, ma anche personaggi storici, membri della famiglia reale, persino politici: già la sigla, tradotta letteralmente nella versione italiana, recita “Wakko mangia a volontà, mentre Clinton suona il sax”. Sì, c’è davvero una versione animata di Bill Clinton che suona un sassofono.

Animaniacs

Il politically incorrect degli Animaniacs non conosce limiti, come in “Lo sfacelo di Windsor”, dove Yakko, Wakko e Dot aiutano la Regina Elisabetta a rammodernare il palazzo dopo un incendio che lo ha distrutto nel 1992. I reali vengono dipinti come scansafatiche, nemmeno in grado di tenere in mano un pennello per dipingere, e viziati come poche altre persone al mondo. Il bello è che la sceneggiatura non lesina su nomi e cognomi: non ci sono personaggi “ispirati a”, ma c’è la Regina Madre, Elisabetta II, il Principe Carlo e tutti gli altri.

Questa lettura dissacrante del mondo si applica talvolta a personaggi storici, per i quali alla fine i Warner risultano sempre responsabili del successo. Nell’episodio “Chi vuol pensare, deve creare”, i tre, come sempre trascendendo spazio e tempo, fanno conoscenza di un Pablo Picasso in preda a una crisi esistenziale: l’ispirazione l’ha abbandonato ma, grazie a quelli che sembrano degli orribili scarabocchi astratti disegnati da Yakko, Wakko e Dot nello studio del pittore, Picasso arriva finalmente a concepire il cubismo. O ancora: in “Papers for Papa”, i nostri aiutando Ernest Hemingway a trovare l’idea per un nuovo romanzo, ovviamente in pieno stile Animaniacs.

Lo guardano i bambini, ridono gli adulti

Chiaramente Animaniacs è una serie che ha tantissime chiavi di lettura, a seconda dell’età e della cultura di chi c’è di fronte allo schermo. I bambini la guardano e si divertono, principalmente per le gag, per i momenti simpatici, per i tormentoni che i personaggi ripetono nel corso degli episodi. Le vere risate, tuttavia, se le fanno gli adulti. Sono loro il vero target della serie, quelli che si ricorderanno di tre bizzarri animaletti bianchi e neri che prendono in giro politici e VIP a ogni occasione. Sono loro, tra l’altro, gli unici a poter capire tutte quelle frasi seguite da un “Buonanotte a tutti!” di Yakko: il maggiore dei fratelli Warner pronuncia infatti queste parole ogni volta che qualcuno pronuncia una battuta per adulti nella serie, cosa che accade molto più frequentemente di quanto ci si aspetti da un prodotto per soli bambini.

Il rovescio della medaglia, quantomeno per noi italiani, è che la serie non ha mai avuto il giusto riconoscimento nello Stivale, dove è stata bollata per lungo tempo come una semplice serie per bambini – e così, mentre in patria i bambini crescevano tra il merchandise dei fratelli Warner, in Italia nessuno ne parlava. Il problema è da imputare a quella che, per la cultura di un tempo, era l’impossibilità di comprendere del tutto i riferimenti alla cultura americana: senza social network, con Internet ancora agli albori, era facile perdersi riferimenti a politici e attori meno noti, portando così via parte del divertimento dalla visione.

C’è una battuta in particolare, in uno degli episodi della serie, che è emblematica di tutto quanto detto finora: del fatto che Animaniacs non guarda in faccia a nessuno per la sua satira dissacrante, del fatto che non è un cartone per bambini, e del fatto che in Italia, complice l’obbligato passaggio linguistico, molte gag sono andate perdute. Yakko sta conducendo un’indagine, e chiede ai fratelli di cercare delle “prints”, ovvero delle impronte. Dot, sua sorella, gli annuncia trionfante di aver trovato “Prince”: nell’inquadratura successiva compare infatti mentre tiene in braccio il famoso musicista, vista l’assonanza tra la pronuncia delle parole inglesi “prints” e “Prince”. Yakko risponde quindi “No, no, fingerprints”, intendendo ovviamente impronte digitali. Peccato che in inglese “finger” sia anche un verbo, e che significhi, beh, indichi anche pratiche sessuali che richiedono l’ausilio di dita. Ed ecco che, mentre Prince ammicca a Dot, lei fa una faccia disgustata, e risponde “I don’t think so”, defenestrando il malcapitato musicista.

In italiano, nel caso ve lo stiate chiedendo, non c’è alcun riferimento del genere: la scena semplicemente vede Dot affermare che Prince, secondo lei, c’entra con le impronte richieste da Yakko perché “ha lasciato un’impronta come musicista”.

Animaniacs è una vera e propria perla dell’animazione degli anni ’90, che può essere guardata e amata da tutti, restituendo qualcosa di diverso a qualsiasi età si decida che è tempo di guardarla, o di riguardarla, o di riguardarla ancora una volta. Tocca sperare che il revival di Hulu, pur nel 2020, non abbia perso la vena che caratterizzava questa serie animata quasi trent’anni fa: il mondo è andato avanti, e non aspetta altro che i fratelli Warner tornino a metterlo alla gogna come solo loro sono in grado di fare.

Martina Ghiringhelli
Nasco in un soleggiato mercoledì a Milano, in contemporanea col trentesimo compleanno di Cristina D’Avena. Coincidenza? Io non credo: le sue canzoni sono un must nella mia macchina, e non è raro vedermi agli incroci mentre canto a squarciagola. Altri fatti random su di me: sono laureata in cinema, sono giornalista pubblicista, ho dei gusti musicali che si prendono tragicamente a pugni tra loro, adoro la cultura giapponese, Mean Girls è il mio credo e soffro ancora di sindrome da stress post-traumatico dopo il finale di Game of Thrones.