Oltre a essere un bel videogioco, Horizon Forbiden West permette una riflessione sull’immaginario western che domina alcune delle più importanti esclusive PlayStation

incredibilmente difficile parlare di Horizon Forbidden West quando il dibattito pubblico videoludico è totalmente incentrato su Elden Ring. Il ché è sorprendente, dato può essere considerato la prima vera esclusiva PlayStation 5, di diverso impatto rispetto a quelle uscite sinora, considerato il peso di Aloy tra le icone Sony. Eppure, tolta la settimana precedente all’uscita di Elden Ring, l’ultimo titolo di Guerrilla Games è passato totalmente in sordina, anche tra gli addetti ai lavori. Ed è un vero peccato, perché Horizon Forbidden West rappresenta una serie di giganteschi passi in avanti rispetto a Zero Dawn e permette alcune riflessioni sull’attuale immaginario videoludico.

Sia chiaro: parliamo comunque di un open world caratterizzato da una mappa gigantesca stracolma di segnalini con numerose, numerosissime, attività da svolgere. Anche qui è necessario un looting selvaggio di risorse per l’equipaggiamento. Inoltre, occorre sempre andare dal “punto A” al “punto B” per completare le quest. E allora in cosa si distingue Horizon Forbiden West rispetto al suo predecessore, se non rispetto agli open world occidentali moderni? Il profondo comparto narrativo, capace di donare vita al “Forbidden West” che dà il nome al gioco. L’Ovest Proibito diventa dunque un calderone di storie, che insieme creano un caleidoscopio tipicamente western, seppur reinterpretato in chiave post-apocalittica.

Horizon Forbidden West Show

Sei mesi dopo gli eventi di Zero Dawn, Aloy è costretta ad avventurarsi verso le terre remote dell’Ovest per porre fine alla Piaga Rossa che sta dilaniando la Terra. Questo il pretesto per iniziare un viaggio, una scoperta, verso un mondo noto solo grazie ai racconti dei primi coloni dell’Est. Questi narrano della tribù dei Tenakth, divisa a sua volta in sotto-clan di fieri guerrieri; un ufficiale Carja di nome Fashav racconta anche degli Utaru, pacifica comunità rurale, che fa del canto la sua peculiarità. Ma non è tutto: circolano voci anche su tribù dove un tempo sorgeva San Francisco, ma in pochi ne sono entrati in contatto. Unico baluardo di “civilità” tra queste lande è Aspracatena, avamposto che accoglie gli avventurieri delle Terre Sacre, carichi di ambizioni per trovare un proprio posto nell’incontaminato Ovest.

Anche le comunità già note contribuiscono a creare rimandi tipicamente western. Gli Oseram, nuovi trapper degli anni 2000, danno origine a spedizioni lungo i confini, a invenzioni tecnologiche e a migliorie varie, armi incluse, da vendere ai viaggiatori solitari come Aloy. A tal proposito, mi hanno colpito i personaggi di Selah e BumBum, due sorelle armaiole di Aspracatena che credono nel valore delle armi per la sopravvivenza. Non è un dettaglio secondario: le armi sono oggetti chiave della cultura western statunitense, perché solo grazie ad esse il colonizzatore bianco può sopravvivere alle barbarie, umane o animalesche, della frontiera. Nel caso di Horizon Forbidden West tali pericoli prendono il volto di Macchine feroci e agguerriti ribelli tribali, contro cui Aloy difficilmente usa la diplomazia.

Per fare un esempio ancora più lampante, posso menzionare la quest che ha per protagonista un eccentrico trio di Oseram, composto da un inventore/specialista di effetti speciali, un cantastorie e un addetto alla contabilità. Questo perché, quando non sono a caccia di tesori, si dedicano a spettacoli itineranti sui pericoli dell’Ovest, in perfetto stile Buffalo Bill Show. Centrale, in entrambi, è la spettacolarità delle avventure narrate, condite di azione ed epicità, volte ad esaltare lo spirito pionieristico.

È dunque facile individuare i rimandi alla frontiera americana all’interno del mondo post-apocalittico di Horizon Forbidden West. L’epicità del racconto western trova riscontro anche nel gameplay. Da questo punto di vista, Horizon Forbidden West non cambia la formula apprezzata di Zero Dawn, se non per alcune funzionalità aggiuntive come il rampino, l’alascudo e il nuoto subacqueo, che avvalorano l’esplorazione lungo le terre dell’Ovest Proibito.

È tuttavia negli scontri contro gli umani, e ancor più contro le Macchine, che il titolo sfoggia i muscoli. In questo, Forbidden West rimane fedele al suo predecessore, anche se la soglia di difficoltà è decisamente più bassa. Per capire: giocare a normale in Zero Dawn equivale a giocare a difficile in Forbidden West. In quest’ultimo però si aggiungono magnifici scenari aperti semi-distruttibili dai nemici, che donano spettacolarità agli scontri. Ciò rende necessaria anche una strategia basata, oltre che sulle armi a disposizione, anche sugli spazi e sugli elementi ambientali.

L’attenta sovrapposizione di immaginario western/immaginario post-apocalittico è merito di una scrittura sopraffina. Come detto prima, Guerrilla Games non scardina l’open world moderno, ma lo cura attraverso storie e personaggi reali, credibili, verosimili, pur essendo di fantasia. E qui arriviamo al terzo filtro narrativo: il mondo nostro, quello reale. Esplorando e scoprendo le tradizioni delle singole tribù, emergono temi in cui tutti possono ritrovarsi: dal sessismo nelle comunità di Oseram, alle malattie mentali e questioni di identità di genere tra i guerrieri Tenakth, fino ad arrivare ai cambiamenti climatici e conseguenti migrazioni. In breve, quest design e sceneggiatura si presentano ben articolati, unendo in maniera sinergica tre filtri perfettamente sovrapponibili tra loro: post-apocalittico-western-realtà.

Tutto ciò spiega perché raggiungere il “punto B” in Horizon Forbidden West non è più un’azione meccanica per sfoltire il menù delle missioni, ma diventa desiderio per scoprire che tipo di risvolti cela la ricerca di un padre anziano disperso o l’indagine per un omicidio ai piedi di un promontorio sacro. Tali microstorie/missioni rendono vivo il mondo aperto di Horizon Forbidden West. Un risultato non sempre riscontrabile negli open world. In questo gioca un contributo importante anche il comparto tecnico.

Graficamente, il Decima Engine è sbalorditivo, sia nei dettagli (la luce degli sguardi, l’espressività, le capigliature articolate, i pori, le rughe e le cicatrici della pelle) sia negli scorci paesaggistici, davvero suggestivi. Una resa visiva meravigliosa, che va perfettamente a braccetto con la Modalità Foto, oramai elemento distintivo delle esclusive Sony. Ad ogni modo, per un gioco che fa della componente narrativa il suo fulcro principale, è fondamentale avere alle spalle il supporto di un comparto tecnico capace di dare vitalità al mondo creato. In tal senso, gioca un ruolo importante anche l’audio: al di là delle musiche solenni, in linea con le diverse fasi di gioco, a catturare sono i dettagli, come il cinguettio sereno degli uccelli che si contrappone ai rumori metallici di un Rovistatore intento a creare il proprio cumulo.

Grazie a questa serie di contrasti – narrativi, visivi e uditivi – la sessantina d’ore necessaria per assaporare le diverse sfumature dell’Ovest di Horizon Forbidden West (senza essere completisti) non pesano come i tradizionali open world. E lo dico avendoci giocato dal 18 febbraio scorso, a suon di 5-6 ore al giorno per scrivere questa analisi.

Sospesi tra videogiochi e realtà

Resa tecnica mozzafiato, gameplay appagante, quest profonde e strutturate: fin qui sembra tutto magnifico. L’unico limite effettivo che ho individuato – che non inficia sulla resa del gioco come prodotto di intrattenimento – è proprio il fulcro del concept: il Far West. Guerrilla Games dimostra grande capacità di riproporre in salsa post-apocalittica i classici topoi western per evidenziare questioni dell’oggi, e stop. Non si addentra nella critica, si ferma alla rappresentazione. Forse il suo problema è essere uscito, al di là di Elden Ring, dopo Death Stranding e The Last of Us Parte II.

Due titoli che utilizzano la metafora western – viaggio solitario verso Ovest, uso delle armi, sopravvivenza contro nemici estranei – per criticarla, attraverso il ripudio o l’esasperazione di un suo elemento cardine, come la violenza. Horizon Forbidden West si ferma uno step prima, ai meri rimandi, perdendo la possibilità di essere a tutti gli effetti un’opera, e non solo un bel videogioco.


Un po’ come Aloy, che sì, è una donna forte, ma non per questo vuol dire che sia oggettivamente un bel personaggio. Potrebbe essere un limite soggettivo dettato dall’età, in quanto sarebbe disonesto non ammettere l’impatto che può avere una protagonista come Aloy sul giovane pubblico, tuttavia gli eroi/eroine del “non temete, ci penso io” sono ormai poco credibili, specie quando è lo stesso immaginario PlayStation a puntare su personalità profonde e sfaccettate come Nathan Drake, Ellie, Kratos.

Resta tuttavia interessante notare come Horizon Forbidden West, una produzione olandese, sia l’ennesima esclusiva PlayStation dal setting post-apocalittico ad avere l’immaginario della frontiera come fulcro del suo concept, assieme a una produzione giapponese (Death Stranding) e americana (The Last of Us Parte II). Nella percezione comune, il Far West è il mito statunitense attraverso il quale ha avuto origine la civiltà a Stelle e Strisce, baluardo dell’Occidente.

Oltre a dimostrare l’assorbimento della cultura americana a livello globale, questa premessa rende significative le numerose reinterpretazioni del mito, non solo videoludiche ma anche cinematografiche e televisive. Il tutto nel corso dell’ultimo decennio, se non di più, con una maggiore incidenza negli ultimi anni, in cui l’espressione “il crollo dell’Occidente” è ormai all’ordine del giorno. Anche adesso, basta sintonizzarsi su qualsiasi notiziario per sentirla. La cultura pop si fa dunque espressione delle paure collettive per esorcizzarle. Un po’ come il cinema Sci-Fi negli Stati Uniti degli anni ’50, che aveva una funzione catartica dalle isterie della Guerra fredda.

Nel caso delle reinterpretazioni western dell’oggi, in cui il mondo tra guerra e pandemia sembra sull’orlo dell’apocalisse, diventa necessario un ritorno alle origini, non più esclusivo dell’Occidente, ma più equo, più inclusivo e rispettoso dell’altro, altrimenti la fine dell’umanità è dietro l’angolo.

Come detto prima, quest’ultima riflessione non ha nulla a che vedere con la valutazione di Horizon Forbidden West in quanto prodotto di intrattenimento, tuttavia il bello di ritenere il videogioco un’espressione culturale della nostra società attuale permette nuovi spunti di discussione, per noi appassionati e per il videogioco stesso.

Lorena Rao
Deputy Editor, o direttigre se preferite, assieme a Luca Marinelli Brambilla. Scrivo su Stay Nerd dal 2017, per cui prendere parte delle redini è un’enorme responsabilità, perché Stay Nerd è un portale che punta a stimolare riflessioni e analisi trasversali sulla cultura pop a 360° tramite un’offerta editoriale più lenta e ragionata, svincolata dalle dure regole dell’internet che penalizzano la qualità. Il mio pane quotidiano sono i videogiochi, soprattutto di stampo storico. Probabilmente lo sapete già se ascoltate il nostro podcast Gaming Wildlife!