The Last of Us Parte II è la prova che il videogioco può osare e sperimentare con le sue peculiarità, andando oltre i dettami del panorama mainstream

Che The Last of Us Parte II sarebbe stato un punto di svolta per il videogioco era evidente sin da prima della sua uscita. Non solo per la pesante eredità ricevuta dal primo capitolo, ma per ciò che ha generato sia per quel che riguarda il pubblico sia il medium stesso. Dopo il reveal del 2016, i trailer rilasciati durante le scorse edizioni di E3 sono stati al centro del dibattito videoludico per la violenza disturbante delle scene e per il carattere politico del titolo, dettato non soltanto dall’avere una protagonista omosessuale.

A tutto questo si aggiungono due posticipi della data d’uscita, una fuoriuscita copiosa di leak sulla trama, la glorificazione della stampa specializzata e il review bombing in parte omofobo al day-one su Metacritic.

Tutti questi risvolti hanno catalizzato l’attenzione sull’ultima fatica di Naughty Dog. Questo perché sin da subito The Last of Us Parte II è stato presentato come un titolo dal carattere maturo e inclusivo, ribadito dal game director in persona, Neil Druckmann, che per questo è stato oggetto di minacce di morte e insulti antisemiti per le sue origini israeliane.

Per quanto ci sarebbe molto da dire sulla tossicità delle frange di giocatori spesso legate all’alt-right, non è questa la sede giusta per parlarne. Quello che mi preme adesso è omaggiare The Last of Us Parte II per il coraggio dimostrato, su più livelli, arrivando a rappresentare quella svolta per il videogioco citata all’inizio dell’articolo.

Il coraggio di esistere

È in primis nell’esistenza stessa di The Last of Us Parte II che risiede il suo coraggio. Dopo il finale del primo capitolo, era impensabile ipotizzarne un secondo diversi anni fa. Quell’Ok di Ellie rivolto a Joel sigillava perfettamente il loro viaggio brutale negli Stati Uniti post-apocalittici.

Eppure, sette anni dopo, lo spietato mondo di The Last of Us si dimostra pronto ad accogliere una nuova storia, capace di generare un suo impatto emotivo, diverso dal primo ma comunque incredibilmente potente. Lo fa attraverso il punto di vista di Ellie, che è diventata donna, e come tale sperimenta l’amore. Del resto, gli infetti oramai fanno parte della quotidianità, ma almeno dentro le comunità è possibile godere delle piccole cose che rendono umani. Uno sguardo, una sfiorata di mano, una canzone: le persone riacquisiscono valore in quanto tali. Una filosofia che vale solo tra le mura della propria comunità, perché una volta solcati i confini non esiste alcuna remora, né per gli infetti né per gli estranei.

I toni del racconto di The Last of Us Parte II si basano proprio su questo contrasto, perché ciò che dà inizio alla storia è la distruzione, improvvisa e devastante, delle certezze di Ellie da parte di un gruppo di estranei. Certezze costruite lungo il tempo, tramite la riappropriazione dolce e spontanea della felicità. È inevitabile quindi patire le stesse sofferenze della protagonista, assorbire la sua rabbia, che diventa la forza motrice di un viaggio all’insegna della vendetta. La meta è Seattle, nell’estremo ovest degli Stati Uniti.

The Last of Us Parte II: L’ovest come metafora della violenza

Non si tratta di un caso: la feroce epopea di Ellie, espressa tramite violenza e sangue, diventa metafora attualizzata della frontiera americana. Come è risaputo, l’identità a stelle e strisce si fonda sulla mitizzazione del West, sul trionfo del progresso e della civilizzazione. Un mito che però cela – non tanto bene in realtà – l’esaltazione della violenza contro i nativi, la natura, gli ispanici, gli altri coloni, i dissidenti religiosi. C’è un testo molto importante sul tema, Gunfighter Nation: The Myth of the Frontier in Twentieth-Century America, di Richard Slotkin, che sottolinea proprio questo concetto.

In The Last of Us Parte II, lungo il cammino verso ovest, le uccisioni dell’altro sono numerose e brutali. Un aspetto già evidente nei trailer, ma che assume chiaramente un sapore ancora più denso pad alla mano, soprattutto vivendo appieno lo stato d’animo di rabbia ferina di Ellie. Gli occhi e i suoni, grazie a un livello grafico sbalorditivo e a una cura per i suoni ambientali, sono sollecitati costantemente dal rosso del sangue e dal suono delle armi che impattano sulla carne; dalle espressioni di sofferenza e dai versi della carnefice/vittima.

Non è detto che ciò disturbi, anzi: per ricollegarmi al discorso della violenza nel Far West, le diverse sequenze di uccisioni sembrano restare nella sfera dell’esaltazione. Per continuare a vivere, esistere, è necessario uccidere l’altro, possibilmente farlo soffrire in quanto nemico.

Un discorso che non vale solo per Ellie, ma per i sopravvissuti che popolano ciò che resta degli Stati Uniti, incapaci di controllare i più infimi istinti nel mondo esterno. Il rimando al mito della frontiera è ribadito dal simbolismo delle diverse fazioni presenti nel gioco, con i Lupi che fondano la loro forza sulle armi, e le Iene che invece basano la loro filosofia di vita sulla fede. Due valori fondanti della cultura statunitense.

 The Last of Us Parte II non si limita però a reinterpretare il mito del Far West, ma lo carica di un profondo messaggio. Nel gioco non viviamo una glorificazione della brutalità fine a se stessa: quando ci sembra di essere assuefatti al sangue, il titolo stravolge le carte in gioco, fino a far provare ribrezzo e disgusto per quanto fatto. È come se all’inizio del viaggio venisse siglato un patto tra noi giocatori e il gioco, che ci spinge a mettere alla prova le nostre convinzioni. È solo arrivando fino in fondo, accettando i dettami crudeli dell’esperienza, che si può arrivare alla catarsi. Ed è qui che risiede la potenza dell’opera di Naughty Dog.

Il coraggio di crescere

Per quanto The Last of Us Parte II attui una vera rivoluzione nel racconto videoludico, lato gameplay rimane piuttosto fedele alle origini, almeno all’inizio. Il modus operandi prevede quindi raccolta di risorse e scontri contro uomini e infetti, spesso risolti in chiave stealth. Tutto questo però viene esteso, andando a mitigare la linearità del primo capitolo. Le sequenze di gioco effettive sono più lunghe rispetto agli standard delle produzioni Naughty Dog. Le aree di gioco adesso sono molto più vaste, così come è maggiore il numero di nemici e di edifici esplorabili. A volte si ha l’idea di un’eccessiva dilatazione di questi elementi, specie a viaggio inoltrato, ma il risultato finale resta comunque soddisfacente, grazie anche al variegato ritmo di pathos che contraddistingue l’intera avventura. 

Soffermandoci sull’esplorazione, essa non si riduce alla mera ricerca di risorse per creare armi, esplosivi e medi-kit (più altre aggiunte che ampliano il ventaglio di approcci), ma diventa elemento importante per la caratterizzazione dell’ambiente di gioco. Le case e gli edifici abbandonati, nei loro minuziosi dettagli, sono in grado di fare percepire la storia che si è consumata al loro interno. I quadri, i libri, le PlayStation 3 (del citazionismo ne parlerò meglio dopo), così come le risorse stesse, accentuano il sapore dei tempi andati, enfatizzando il senso di solitudine e di scoperta di chi gioca.

Non tutto però si basa sulla nostra intuizione, perché spesso è possibile trovare pezzi di carta e fogli strappati che descrivono gli ultimi istanti di vita di coloro che hanno abitato quei luoghi, oltre a lasciare codici di casseforti contenti armi e risorse preziose. Anche in questi casi la scrittura fa un buon lavoro, ma a voler essere oggettivi, la frequenza con cui si trovano i messaggi scritti a mano si lega male al contesto in cui è ambientato il gioco.

Altro elemento che arricchisce l’esplorazione è il world building, che anche in questo caso estende la varietà ambientale del primo capitolo. Ogni location ha una sua essenza, a volte malinconica, a volte orrorifica, a volte pacifica. Verticalità e orizzontalità degli spazi si mischiano in maniera encomiabile, rendendo l’avanscoperta arzigogolata e interattiva.

Non bisogna lasciarsi demoralizzare dal trovare la strada bloccata, perché il mondo di The Last of Us Parte II offre sempre un’alternativa per la salvezza. Specchi d’acqua profondi, vetri opachi, spazi stretti tra i muri, corde, carrelli, macchine in rovina al centro della strada: i diversi – e bellissimi – elementi che popolano la natura morta di The Last of Us sono la chiave per potere proseguire. A questo si aggiungono le nuove capacità della protagonista – ovvero saltare, immergersi in acqua, strisciare, arrampicarsi – che ben si legano all’interazione col mondo di gioco. 

L’interazione così netta con ciò che ci circonda implica delle ripercussioni – positive – anche sul gameplay. A differenza del primo, in cui bastava usare intelligentemente l’udito per potere fare fuori i nemici in stealth, The Last of Us Parte II  preme l’acceleratore sull’adrenalina e sulla varietà di attacchi. In tal senso, un contributo importante è dato dall’IA migliorata dei nemici. Infatti, a seconda delle fazioni incontrate, le ronde e le comunicazioni tra i nemici cambiano, rendendo facile la scoperta della nostra posizione se statica. Ecco quindi che molte volte per uscire vittoriosi da situazioni di sopraffazione nemica è necessario lasciare perdere l’udito e la progressione lenta per cedere all’istinto più puro.

Strisciare tra l’erba alta, attaccare alle spalle, correre, nascondersi sotto una macchina, spaccare un vetro per catturare l’attenzione: gli approcci a disposizione sono numerosi, così come numerosi sono gli esiti. Questo perché l’ambiente si piega alla necessità di chi gioca, tramite appunto una buona interazione. Ovvio che tutto questo risulta particolarmente gradevole non solo per il già apprezzato comparto grafico, ma per l’iconico taglio registico della produzione Naughty Dog che focalizza l’attenzione su ogni azione.  

Il coraggio di osare

La qualità più grande del team di sviluppo californiano è la capacità di caratterizzare in maniera indimenticabile i suoi personaggi: lo abbiamo visto con la serie di Uncharted e con il primo The Last of Us. Ebbene, con The Last of Us Parte II, Naughty Dog raggiunge stadi di caratterizzazione fenomenale, grazie a una sinergia potente tra sceneggiatura, gameplay e ambiente di gioco che fa spiccare i personaggi.

Nonostante il punto di vista personale di Ellie, il gioco permette infatti di avere degli spaccati di altre realtà, volte a ribadire il contrasto disturbante tra la vita dentro la comunità e quella nel mondo esterno contro gli estranei. Ancora una volta, questa non è la sede giusta per potere approfondire il discorso a causa di spoiler, ma il tutto può essere riassunto con un plauso alla poderosa capacità di immedesimazione sperimentata da Naughty Dog che sconquassa l’animo di chi gioca. Questo accade solo se si accetta il patto menzionato prima.

Ecco perché bisogna di nuovo parlare di coraggio. The Last of Us Parte II sfrutta appieno le peculiarità del videogioco, ossia interazione e immedesimazione, per dare forza alla sua storia, e non il contrario. Ciò è evidente  soprattutto nelle diverse sequenze rivolte ai rapporti tra i personaggi, in cui non si uccide né si combatte, ma semplicemente si cammina e si chiacchiera all’interno di location suggestive, con lo scopo di lasciare esprimere  le forti personalità presenti all’interno del gioco. Tale visione permette anche un certo citazionismo nerd che farà sorridere i più.

Ma è nelle sue rappresentazioni che il titolo osa. Viste le reazioni scaturite dal trailer del bacio tra Ellie e Dina, The Last of Us Parte II si rivela coraggioso nell’adottare una protagonista omosessuale, nel mostrare il sesso senza alcuna malizia che implica l’appagamento del giocatore, nell’allontanarsi dagli standard estetici dei personaggi femminili (anche questo criticato dai videogiocatori reazionari), nel diffondere messaggi di inclusività e di rispetto per gli altri, che nel mondo post-apocalittico assumono le forme di estranei, ma che nel mondo reale riguardano le minoranze.

Provo un certo disagio a ribadire un’ovvietà, ma se si crede che il videogioco non sia solo intrattenimento ma espressione della nostra cultura, allora è normale aspettarsi rappresentate, anzi simulate, le diverse sfaccettature della società. Lo stesso Neil Druckmann ha affermato che The Last of Us Parte II non vuole divertire, ma mandare un messaggio progressista. Un’ambizione che il videogioco può permettersi, al pari degli altri media. Spetta al pubblico abbandonare i preconcetti e accettare l’evoluzione del medium, che matura in maniera netta e profonda, non solo nel panorama indie, ma anche in quello dei Tripla A. 

Su The Last of Us Parte II ci sarebbe ancora tanto da dire, perché gli spunti lanciati dal titolo sono davvero numerosi e profondi. L’ultima fatica di Naughty Dog è un’esperienza talmente forte da essere compresa davvero solo giocando. Il patto da siglare per poterne godere appieno non è facile da accettare, ma una volta comprese le sue regole non è possibile restare impassibili. In poche parole, ci vuole coraggio per aprire gli occhi davvero e non avere paura del nuovo, dell’altro

Lorena Rao
Deputy Editor, o direttigre se preferite, assieme a Luca Marinelli Brambilla. Scrivo su Stay Nerd dal 2017, per cui prendere parte delle redini è un’enorme responsabilità, perché Stay Nerd è un portale che punta a stimolare riflessioni e analisi trasversali sulla cultura pop a 360° tramite un’offerta editoriale più lenta e ragionata, svincolata dalle dure regole dell’internet che penalizzano la qualità. Il mio pane quotidiano sono i videogiochi, soprattutto di stampo storico. Probabilmente lo sapete già se ascoltate il nostro podcast Gaming Wildlife!