PewDiePie combatte una guerra… o la promuove?

La scorsa settimana PewDiePie pubblica uno dei suoi tipici video “comici”. Le virgolette sono d’obbligo. In questo tentava di dimostrare quanto il sistema di regolamentazione dei contenuti online sia fallace, tale che è possibile pubblicare contenuti razzisti ed antisemiti senza particolari problemi. Cosa è dunque successo? Utilizzando una piattaforma online, ha arruolato 3 diversi sconosciuti, coinvolgendoli indirettamente nel montato dei suoi video. I primi erano due ragazzi indiani, a cui ha chiesto (per denaro ovviamente) di ballare davanti ad una telecamera srotolando un cartello con scritto “morte a tutti gli ebrei”. Il terzo era invece un ragazzo anglofono che, vestito da Gesù Cristo, cercava di convincere brevemente sulla bontà di Hitler e sul fatto che adesso egli siede alle destra del Padre. Scoppia un casino. PewDiePie viene accusato di antisemitismo (e giusto perché lo sappiate, non è stata neanche la prima volta. Diciamo solo che questa è la più grossa che abbia mai combinato), dimostrando anche di avere in parte torto, perché sì il video lo hai fatto e caricato, ma anche se non è stato direttamente cannato da YouTube ti sei scontrato con quello che, comunemente, si chiama “buonsenso”. Quindi “senza problemi” un cazzo.

Non c’è bisogno di dirlo: si trattava di scherzi. Di cattivo gusto certo, ma pur sempre scherzi. La star del web si è giustificata dicendo che non immaginava che qualcuno, nonostante il denaro, avrebbe accettato le sue richieste, e si è detto in tal senso stupito. L’errore forse – se c’era buona fede – è stato quello di inserire quegli spezzoni nel suo video. La questione è francamente complessa ma diciamo che decontestualizzati o meno, PewDiePie non ha semplicemente le capacità per fare questo tipo di satira. E questo, sinceramente, prescinde dai gusti personali. A questo punto è scoppiato il caso mediatico, sulla scia di un’indagine del Wall Street Journal che, tra le altre cose, si è anche impegnato nel dimostrare come questa sorta di “humor nero” sia stato in passato già utilizzato da PewDiePie. Non con gli stessi devastanti effetti ma, in soldoni, pur non esprimendosi DIRETTAMENTE sul presunto razzismo dello youtuber, il WSJ si è comunque interrogato sul perché di tanti atteggiamenti e battute antisemite, pur restando saldamente ancorato a ciò che interessa alla sua linea editoriale, ossia il fenomeno socio-economico del webstar system.

In un video pubblicato su YouTube, il famosissimo quotidiano ha messo insieme spezzoni dei video di PDP, ovviamente decontestualizzati del tutto dai loro contesti originali, ma comunque evidentemente vertenti sul tema del razzismo, dell’omofobia e via dicendo. Su questa scia, altre popolari testate online, stavolta del settore videogame, come Polygon e Kotaku, hanno detto la loro, evidenziando in particolare la fallacia della critica che PewDiePie, già da prima di questo evento, fa nei confronti dei media e nei mezzi di informazione tradizionali in generale. La notizia ha avuto un’eco sempre maggiore e contemporaneamente a ciò, due dei principali partner di PDP, ossia Disney e YouTube/Google hanno rescisso i loro contratti con la star, portando quest’ultimo ad accentuare l’asprezza della sua critica nei confronti della stampa.

Il video è stato cancellato, lui si è pubblicamente scusato, ma a seguito della sua ammenda al pubblico ha additato la stampa di aver attuato una campagna contro di lui, al fine di screditarlo perché, e citiamo: “i vecchi media odiano le personalità del web perché hanno paura di noi”, laddove la paura sarebbe espressa dal fatto che YouTube (e relativi attori) siano in grado di rubare il pubblico dei media classici. E qui veniamo a noi. Non penso serva spiegarvi il perché l’uscita di PewDiePie sia infelice al pari dei suoi scherzi. Scagliarsi contro il Wall Street Journal asserendo che si è in guerra per guadagnare pubblico, significa semplicemente non aver capito la differenza che sussiste tra il proprio pubblico di riferimento e quello di un altro interprete della comunicazione e, più in generale, nella differenza tra i fruitori di contenuti video e quelli della carta stampata. Nel caso specifico la questione è ancora più semplice. Il pubblico di riferimento di PewDiePie è estremamente giovane, e va dai ragazzini in età minima (presumibilmente 13 anni) ad un pubblico che supera di poco la soglia dei 20, interessati comunque al mondo del videogame e poco più. Per sua stessa ammissione e analisi, il WSJ ha dalla sua un pubblico che supera i 40 anni, con un reddito medio molto altro, ed interessati al mondo del business e dell’analisi finanziaria. Quanto di più lontano esista da PewDiePie e, proprio per questo, difficilmente partecipe di una lotta per i contenuti editoriali.

Il problema è nell’immagine che PewDiePie ha di sé stesso, dal punto di vista sociale e di quello del marketing. Banalmente: se sei un partner di Disney, aka la più grande compagnia per bambini e famiglie del pianeta, devi in qualche modo esimerti dal fare contenuti anche solo lontanamente razzisti. Non è che lo diciamo noi, dovrebbe dirtelo il buon senso. Facile altrimenti che Disney, come poi è successo, rescinda il tuo contratto e ti mandi a cagare. A quel punto non potrai dire che la colpa è di chi quel video lo ha visto o criticato: hai fatto una cappellata, #stacce.

Il punto è che uscite simili non sono nuove da parte di PewDiePie, che ha spesso usato una sorta di vittimismo nei confronti dei media per giustificarsi dinanzi al suo pubblico, chiedendo a quest’ultimo di supportarlo fino in fondo, la qual cosa ha portato, e proprio di recente, ad un’ondata di malcontento popolare nei confronti di alcuni giornalisti del Wall Street Journal e degli altri media in gioco. I fan hanno cominciato ad additare la stampa come un’entità malvagia e censoria, come se qualcuno pensasse REALMENTE che i media sono invidiosi del successo del buon Felix senza capire che questa è semplicemente una notizia e che ha peso, perché parliamo del più grande e ricco influencer del mondo. E mai parola fu più giusta, perché quella di PewDiePie, sui suoi oltre 50 milioni di fan, è una vera e propria “influenza” che spesso fa del succitato vittimismo uno strumento di mobilitazione di persone e pensieri.

Tornando alla questione audience, è abbastanza evidente che il pubblico di YouTube e quello dei “media tradizionali”, per quanto probabilmente aderente per certi aspetti NON è sovrapponibile. Non solo, la vera domanda che ci mi pongo è: perché dovrei essere invidioso di PewDiePie se i nostri piani della comunicazione sono completamente diversi? Prendiamo me, prendiamo Stay Nerd. Noi non siamo Youtuber. Facciamo video, ma non abbiamo la pretesa di stare sulla piattaforma YouTube con cognizione di causa. Il nostro metodo di comunicazione è diverso, puntiamo ad un pubblico diverso, ed anche gli strumenti con cui diffondiamo il nostro lavoro sono diversi. E badate, siamo di quanto più vicino ci sia al pubblico di PDP rispetto al succitato Wall Street Journal, eppure già qui la critica relativa alla stampa ha già smesso di avere senso e dimostra, come già detto, un atteggiamento tronfio, vittimista e per certi versi “ignorante” da parte della web star (brrrr).

YouTube e Stay Nerd, inoltre, hanno evidentemente problemi diversi. Il primo deve fare i conti direttamente con il pubblico a cui parla per mezzo di una forma molto diretta, il video, tale da creare un rapporto 1:1 con lo spettatore. Noi navighiamo invece in un settore che è in crisi da almeno 15 anni, e le cui modalità di guadagno sono soggette alle innumerevoli mareggiate di internet. YouTube paga con le visite, il sistema di pagamento con le visite che ha fatto la fortuna di molti portali nel corso degli anni ’90 (leggasi l’advertising tramite banner e simili… che magari AD Block ti canna anche) semplicemente non paga più un cazzo ed anche quando paga, lo fa solo per mezzo di numeri enormi che i più non si possono permettere (pensaci bene tu, coglione random, la prossima volta che ci chiedi “chi ci paga”). YouTube ha una community che è stata pensata per rispondere alle esigenze di YouTube. La stessa formula per un portale, forse accostabile a quelli che una volta erano i forum, non ha più senso d’essere da quando sono stai introdotti i social network (ossia da 10 anni buoni). Ciò ha comportato ancora problemi, portando un portale di informazione a scontrarsi con tutta una serie di nuove ed inedite dinamiche, tra cui la visibilità sui social, l’algoritmo che li regola, i problemi di censura ESTERNI al proprio portale e, soprattutto, l’interesse del pubblico, distratto dagli stessi social su cui razzola.

Non solo, generalmente lo Youtuber ha sul suo pubblico più potere e più presa di qualunque giornalista nella media. E voglio dire, questa cosa, come detto, è dimostrata dalla presa che Felix Kjellberg ha avuto nei confronti dei suoi fan dopo la rescissione del contratto Disney. Persone, fan, si sono mobilitate su internet, e persino una fetta del suo settore, cioè altri youtuber che ne vorrebbero seguire/copiare/emulare il successo, hanno utilizzato la faccenda per difendere il proprio diritto di parola, senza capire che non si è creato un problema di censura, ma altro: un errore di tracotanza, semmai. La stessa guerra che PewDiePie critica, quella dei media nei suoi confronti, si è velocemente trasformata in una forma di strumentalizzazione verso il pubblico, nella misura in cui egli non ha semplicemente taciuto dopo le sue scuse, ma ha cominciato a parlare di forme di invidia e discriminazione verso il suo prodotto e la sua immagine a vantaggio dei media tradizionali. Se sino ad ora avete letto con attenzione capirete che questa cosa semplicemente non sussiste.

Come a dire che si stanno leggendo più articoli in rete o si stanno vendendo più giornali semplicemente perché si parla male di lui. A voler essere onesti succede semmai il contrario, visti i numerosi video in cui cerca di difendersi maldestramente convincendo, come detto, il suo pubblico a mobilitarsi contro una presupposta giustizia sociale. Un pubblico che si conta, di media, attorno ai 4 milioni di utenti per video. Che sono un numero eccezionale per qualunque quotidiano nel rapporto persone/copie vendute o persone/articolo letto e che, non dimentichiamolo, contribuiscono attivamente al suo successo economico secondo il binomio (qui ovviamente semplificato) di YouTube: denaro guadagnato/views.

La guerra allora esiste? Sì, ma l’ha costruita ed alimentata la stessa persona che se ne sente vittima. Ed è impossibile che egli stesso non ne sia consapevole, proprio perché è padrone ed artefice di quella meccanica che lo ha arricchito… o banalmente non sarebbe così popolare e così ricco. Si tratta di una tattica dedita al flame che non fa altro che aumentare le view, in quello che è un circolo furbo e vizioso che vede protagonista PewDiePie in modo ciclico, attraverso video che ne auto celebrano la libertà e la difesa. Il bello è che nessuno di noi sta cercando di mettergli un bavaglio, ed a nessuno di noi frega un cazzo del suo successo, se non a chi voglia – e ne ha il diritto – analizzarne le eccezionali ed irripetibile dinamiche di business. PewDiePie va contro gli altri perché fa comodo alle sue tasche e fa “audience”. Non è questione di invidia, ma di marketing e personal branding.

Ed il bello è che nessuno dei suoi fan sembra capirlo ed il dialogo culturale viene strumentalizzato in virtù dell’apologia alla guerra. Una guerra della comunicazione, ma pur sempre una guerra, che miete vittime solo in un senso, quello dei professionisti, la cui volontà è informare e non INTRATTENERE, e le cui bollette si pagano senza il privilegio di fare i cazzoni davanti ad una web cam. Ho sentito una barzelletta: “Un uomo apre un blog. Dice al suo pubblico che è depresso, che l’informazione è dura e crudele. Dice che vorrebbe fare la differenza, in un mondo minaccioso. Il suo pubblico dice: “La cura è semplice. Devi fare informazione alla maniera di YouTube. Guarda quei video, prendi spunto da loro che sono professionisti. Dovresti farlo anche tu”. L’uomo scoppia in lacrime. “Ma ragazzi”, dice, “questi sono dei pagliacci”.