Draghi, maghi e troppi cavalieri: errori e misfatti degli eserciti nella letteratura fantasy

fantasy eserciti

uello tra fantasy e guerra sembra essere un connubio eterno: sin dalle origini del genere, quando ancora si faticava a dargli un nome, gli eserciti sono stati una parte fondamentale della letteratura fantastica. Ci è ormai difficile pensare a qualche saga fantasy senza che vi sia una grande battaglia campale, che metta in scena uno scontro tra due schieramenti. Il bene e il male, la luce e le tenebre in una sorta di partita a scacchi dove sono in gioco i destini e il futuro di intere nazioni.

Peccato che tutto questo sia spesso noioso. Siamo sinceri: quanti di noi si sono realmente appassionati alle lunghe scene di battaglia presenti all’interno di un libro fantasy? Oltre a questo esiste spesso un altro problema: le battaglie, nella letteratura fantasy, sono spesso irrealistiche. Qualsiasi appassionato di storia, di fronte all’andamento delle guerre nel genere fantastico, rischia di perdere la sospensione dell’incredulità per via delle numerose libertà prese dallo scrittore. Nel primo caso le battaglie finiranno per scontentare quanti non siano appassionati di oplologia e storia militare. Il lettore medio finirà per rigettare le scene, non riuscendosi a immergere al loro interno. Poco importa che, grazie al contesto fantasy, gli eserciti siano costituiti di nani, elfi e draghi. Per gli altri lettori, gli appassionati di storia, niente sarà mai abbastanza. Gli errori, le imprecisioni e le libertà prese dall’autore finiranno per compromettere la sospensione dell’incredulità e segneranno il fallimento della scena.

Insomma, le battaglie non accontentano nessuno. Il lettore che cerca il sense-of-wonder ne risulta annoiato; lo “storico” finisce per trovarle ridicole per via delle molte lacune e imprecisioni. A fronte di questa impossibilità di conciliare due mondi opposti, sorge una domanda: ha ancora senso dilungarsi nella descrizione di eserciti e battaglie nel fantastico? Oppure è solo un feticcio degli autori, un’operazione divertente da studiare e scrivere ma molto meno interessante da leggere?

Per provare a rispondere a questa domanda cercheremo di parlare un po’ di questo aspetto della letteratura fantastica, magari confrontandola con qualche battaglia reale. Ma, per farlo, dobbiamo partire dalle origini del fantastico, da quel mito che è da sempre una delle basi per gli scrittori desiderosi di creare nuovi mondi.

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Che fantasy sarebbe senza eserciti?

Mitologia e fantasy si intrecciano sin dalle origini di questo genere. Se pensiamo a Omero o ai miti del nord, è difficile che non ci vengano in mente figure di eserciti e guerrieri. Uno dei momenti fondanti della mitologia greca è la Guerra di Troia, con il lungo assedio durato oltre dieci anni. Allo stesso tempo l’atto conclusivo delle gesta delle divinità nordiche è il Ragnarok, la battaglia finale tra il bene e il male. Non cambiano molto le cose se osserviamo la letteratura. A leggere l’Orlando Innamorato e l’Orlando Furioso, uno dei leitmotiv della trama è la guerra tra i Paladini di Carlo Magno e gli invasori venuti da oriente. Insomma, la guerra nei racconti fantastici è sempre presente, un convitato di pietra che dobbiamo accettare.

Se analizziamo le origini moderne del genere non cambia molto la situazione. Già ai tempi di Eric Rücker Eddison e del suo Il Serpente Ouroboros la guerra era uno dei principali protagonisti e, con essa, eserciti, assedi, battaglie campali. Le cose non cambiano troppo nelle produzioni successive: alcuni dei momenti più noti de Il Signore degli Anelli e del Legendarium di J.R.R. Tolkien si basano sullo scontro tra forze armate. E così è anche per un consistente numero di autori successivi, che sfruttano la battaglia come un momento topico per il racconto.

Nel corso degli anni tuttavia la presenza degli scontri tra eserciti nel fantasy si è radicalmente modificata, portando a cambiamenti consistenti nel modo di rappresentare le azioni di guerra. A una prospettiva dall’alto, quella del narratore onnisciente, si è nel tempo preferita una narrazione soggettiva, dal basso, quella del protagonista che vive la battaglia attorno a sé. Possiamo pensare a come George R.R. Martin gestisce l’assedio di Approdo del Re, vissuto attraverso il punto di vista di Tyrion Lannister e Sansa Stark. Nessuno dei due si concentra troppo su questioni legate alle tecniche di assedio, ma in entrambi i casi la visione della battaglia ci viene consegnata un tassello alla volta.

Pur con i diversi metodi attraverso cui sono rappresentate le battaglie nel fantastico, una delle costanti è l’ispirazione storica delle stesse. Lo abbiamo detto spesso, questo genere che si basa sulla storia del nostro mondo. Eppure proprio la ricerca storica sembra essere, troppe volte, uno dei talloni d’Achille delle produzioni fantasy. Cosa mostrata soprattutto nell’ambito militare e, ancor di più, in quello medievale.

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La guerra nel Medioevo: un mondo ancora da raccontare

Se è vero che il Medioevo è uno dei periodi più sfruttati dagli autori per modellare i propri mondi fantasy, non si può certo dire che sia anche uno dei più studiati. Troppo spesso le ambientazioni mostrano delle libertà o, peggio ancora, delle lacune nella conoscenza dell’Età di Mezzo della civiltà europea. In questo la guerra non fa eccezioni. Anzi, gli eserciti sono forse uno dei punti più dolenti per il fantasy, dove fin troppo spesso si mostrano le mancanze dell’autore.

Osservando opere con ambientazione medievale l’impressione è che nella guerra lo scontro campale sia una costante. Gli eserciti si fronteggiano in campo aperto, cercando l’uno di sopraffare l’altro e costringere il nemico alla ritirata. La verità è che le battaglie erano una componente minore della guerra nell’età di mezzo. Se osserviamo la storia dell’Europa vedremo che la maggior parte delle volte sono gli assedi a farla da padroni. E, ancor più degli assedi, le razzie nel territorio nemico.

Proviamo a pensare a un esempio concreto come la Guerra dei Cent’anni. Nel corso del conflitto, durato dal 1337 al 1453, le battaglie campali furono una minoranza. Lo scontro tra Francia e Inghilterra si basò molto sull’assedio di città e piazzeforti strategiche, oltre che sulle incursioni nel territorio nemico. I generali basavano il proprio operato sul concetto di “minimo sforzo, massimo risultato”. Sceglievano quindi di colpire il nemico indebolendolo con delle razzie mirate in modo da sottrargli armi e vettovaglie, e arricchire il proprio esercito. Allo stesso tempo simili azioni finivano per fiaccare lo spirito del nemico: le incursioni della schiera rivale avevano come obiettivo soprattutto i civili, causando talvolta anche disordini: potrebbe esserne un esempio la rivolta della Jacquerie.

Un elemento del tutto mancante è inoltre la forte ritualità presente nella guerra medievale. Molto spesso le azioni contro il nemico avevano uno scopo dimostrativo, al limite del simbolico. Pur non mancando mai omicidi e saccheggi, gli eserciti potevano scegliere di colpire un monumento, una proprietà, sottrarre un oggetto dal forte valore emotivo. Nell’Italia dei Comuni era molto praticata questa usanza. Genova decise di sottrarre a Pisa le catene che chiudevano il suo porto in seguito alla vittoria contro l’eterna rivale. L’imperatore Federico Barbarossa fece abbattere le mura di Milano, sia per privare la città di difese in caso di nuove insurrezioni, sia come atto dimostrativo.

Infine gli autori glissano spesso sulle parti più tecniche della guerra medievale. Non viene mai mostrato in che modo si armano gli eserciti, come vengano gestite le salmerie, lo spostamento delle truppe, la catena di comando, l’uso delle bandiere per regolare i movimenti delle truppe e radunarle. Una scelta dettata forse dalla volontà di non annoiare il lettore che, tuttavia, non basta a tenere alta l’attenzione di chi non ama questo genere di sviluppo.

Le catene del porto pisano, sottratte dai genovesi nel 1290 e oggi esposte nel Camposanto

Il fantasy ha davvero bisogno delle battaglie?

Se è vero che la base di ogni buon racconto è il conflitto, il fantastico ci sembra aver interpretato un po’ troppo alla lettera questa affermazione. Arrivati a questo punto possiamo riprendere quanto detto all’inizio dell’articolo. Le battaglie sono davvero necessarie in un romanzo? Oppure possiamo lasciare gli eserciti a riposo e iniziare a scrivere fantasy senza? La questione dovrebbe essere legata a due diversi aspetti. Da un lato la capacità dell’autore di intrattenere con questo argomento, dall’altro la reale utilità di uno scontro campale ai fini della trama. Per Tolkien e Martin l’intero racconto ruota attorno a una guerra scatenata per mire espansionistiche e politiche. Sarebbe difficile eliminare le battaglie del Fosso di Helm o del Castello Nero.

Troppo spesso l’impressione è che mostrare eserciti e battaglie nel fantasy sia un feticcio degli autori, specie giovani ed esordienti, nel tentativo di mostrare al lettore tutto il loro studio nella creazione del proprio romanzo. Uno studio che, andando oltre la superficie, finisce per mostrare lacune e incomprensioni del periodo storico scelto. Sintomo che, forse, sarebbe bene andare oltre la battaglia nel fantastico e inserirla solo se lo richiede la trama. In fondo questo genere permette agli autori una libertà quasi assoluta nella scelta dei temi. Che proprio la guerra, uno dei più tristi ‘prodotti’ del nostro mondo, sia così spesso al centro del fantastico, ci appare a tutti gli effetti come un limite.

Sono tante le produzioni fantasy che hanno mostrato di poter vivere bene anche senza schierare degli eserciti. Una potrebbe essere Harry Potter dove, per quanto la guerra tra l’Ordine della Fenice e i Mangiamorte sia una parte importante della saga, il vero fulcro della storia ruota attorno alla crescita e alla formazione del giovane protagonista. Esclusa la Battaglia di Hogwarts gli scontri tra due ‘eserciti’ (in senso ampio) non sono mai mostrati. Un risultato simile a quello di J.K. Rowling è presente anche in buona parte dei romanzi di Neil Gaiman. L’autore di Portchester preferisce concentrarsi su conflitti emotivi e personali, oltre che sulla crescita dei propri personaggi. Se è vero che in American Gods tutto ruota attorno a una guerra tra vecchie e nuove divinità, solo in alcune pagine conclusive i due eserciti vengono mostrati in lotta e senza dilungarsi troppo.

L’esempio migliore è tuttavia contenuto in Terramare, opera del genio di Ursula Kroeber Le Guin. Da molti considerato come uno dei migliori prodotti fantasy mai realizzati, il ciclo che vede come personaggio ricorrente l’Arcimago Ged, si concentra su un conflitto personale, quello del giovane che per crescere deve imparare ad accettare anche la propria oscurità. Lo scontro con l’alterità si consuma in una lotta tra il giovane mago e il suo gebbeth, l’entità oscura da lui liberata e destinata a consumarlo. Un duello che si conclude quando Geb accetta come parte di sé qualcosa di orribile in apparenza.

In sostanza, il fantasy riesce a vivere bene anche senza eserciti. Gli autori che si dedicano a questo genere hanno a disposizione una grande varietà di elementi, storici, mitologici e narrativi, che possono far risaltare la loro immaginazione e le loro capacità di creazione di un mondo, senza per questo indulgere in imprese al limite dell’impossibile, come quello di accontentare ogni tipo di lettore nelle scene di battaglia.

Federico Galdi
Genovese, classe 1988. Laureato in Scienze Storiche, Archivistiche e Librarie, Federico dedica la maggior parte del suo tempo a leggere cose che vanno dal fantastico estremo all'intellettuale frustrato. Autore di quattro romanzi scritti mentre cercava di diventare docente di storia, al momento è il primo nella lista di quelli da mettere al muro quando arriverà la rivoluzione letteraria e il fantasy verrà (giustamente) bandito.