In occasione dell’uscita di Strange Timez, prima stagione del progetto Song Machine, ripercorriamo insieme la carriera del progetto cross e trans-mediale Gorillaz

Stando a quanto dichiarato qualche anno fa da Jamie Hewlett, che dei Gorillaz rappresenta la parte grafica e che concretizza la virtualità della band che ha creato insieme al musicista Damon Albarn, l’idea per il gruppo è venuta ai due in un periodo in cui erano coinquilini. Seduti sul divano, i nostri hanno notato come le televisioni musicali dell’epoca – MTV in particolare – potessero avere un effetto quasi ipnotico su chi stava guardando i videoclip su quelle piattaforme. È quindi per una necessità di fornire contenuti e materiale di cui discutere a spettatori e spettatrici che nasce, nel 1998, una delle band che si è dimostrata più capace di coniugare visivo e musica, rendendo uno dipendente dall’altra e viceversa, oltre che dimostrarci l’impellenza di una narrazione cross e trans-mediale anche in ciò che ascoltiamo.

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Jamie Hewlett e Damon Albarn

Quel che più di ogni altra cosa ha contraddistinto il progetto è, come vedremo più avanti, la costante attenzione al cercare dei mezzi nuovi con cui portare avanti il messaggio principale. Un intento che vuole porre in primo piano l’unicità di ciò che i Gorillaz rappresentano al di là della notorietà di chi ci sta dietro – ricordiamoci che all’epoca Albarn era da poco uscito dai Blur e Tank Girl di Hewlett continuava a macinare consensi come fumetto di culto e simbolo della cultura underground britannica e non solo – e sempre in ascolto per le novità che i media via via potevano offrire ai due creativi inglesi. Non soltanto una curiosa trovata che due dei più famosi artisti inglesi dell’epoca hanno creato come conseguenza del tedio, ma vero e proprio canale attraverso il quale raccontare una storia e negli anni costruire un mondo totalmente parallelo al nostro che si connette con esso prendendone in prestito e cedendone pezzi senza soluzione di continuità.

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Nata come la possibilità per Damon Albarn di esplorare i territori del trip-hop e del rap alternativo e per Jamie Hewlett di cimentarsi con l’animazione, Gorillaz vive da sempre e contemporaneamente due rappresentazione di sé. Da un lato quella dei suoi due creatori, che mai hanno nascosto la paternità del progetto, arrivando al punto di organizzare finte interviste post-fuga da un manicomio per celebrare il lancio del primo omonimo album nel 2001. Dall’altro abbiamo invece i vari personaggi che compongono la finta rappresentazione del gruppo, i sei personaggi che hanno accompagnato tutti i video del progetto dai suoi inizi a oggi.

Una doppia realtà che via via negli anni, attraverso le varie “fasi” della band che corrono in parallelo tra realtà e finzione scandendo l’uscita dei vari album, si è sempre più assottigliata arrivando a confondersi e non essere più unicamente da un lato o da un altro ma sempre più coesistente in entrambe le dimensioni. Una storia che racconta di 2-D, Murdoc, Russel e Noodle (e dei membri temporanei Cyborg Noodle e Ace, personaggio della serie animata Le Superchicche) tramite i videoclip realizzati interamente da Hewlett, ma anche con materiale aggiuntivo a cui la band ha sempre teso un occhio di riguardo.

Non sono mai mancati, infatti, brevi corti animati, siti internet esplorabili e podcast in cui i Gorillaz “finti” si raccontano al loro pubblico reale. Tutto questo è il segno e il frutto di una ricerca costante e inesorabile di nuovi modi per arricchire l’impianto musicale, per dare un senso e un’atmosfera uniche che potessero accompagnare i suoni. Sonorità che, d’altro canto, hanno saputo nel tempo maturare e modificarsi anche in funzione di come stesse andando la trama della specifica fase in corso e, a sua volta, influenzarla dandoci piccoli indizi su che piega le cose potessero prendere.

Se quindi l’inizio della carriera della band, con il disco omonimo, risente di una grande voglia di ancorarsi al territorio urbano e smaccatamente hip-hop, via via il senso estetico dei Gorillaz ha cambiato il suo modo di manifestarsi. Ciascuno dei prodotti del gruppo, infatti, riflette tanto una porzione della storia dei quattro componenti fittizi quanto uno stato del rapporto tra Albarn e Hewlett, cosa volevano portare sul mercato musicale e – infine – il punto di contatto tra queste due anime e il resto del mondo.

Si hanno così momenti carichi di introspezione – il disco The Fall, registrato in totale solitudine da Albarn e che da inizio alla pausa della band – che fanno seguito ad altri in cui invece il gruppo si circonda di tantissime collaborazioni per poi tornare in auge come progetto unico compatto e solido. La storia raccontata dai Gorillaz nel materiale promozionale diventa quindi anche un parallelismo di quella della collaborazione tra Albarn Hewlett, dei loro momenti di allontanamento in seguito a un grande successo seguiti dal ritorno sui propri passi di nuovo pronti a costruire qualcosa insieme.

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Più di vent’anni di produzione che ha saputo attraversare media differenti sconfinando la musica, ma portando sempre quest’ultima in primo piano. I Gorillaz sono sempre stato questo sia per chi li ha creati che per chi li ha ascoltati: un laboratorio di storie in cui raccontare a tempo di hip hop di una band che non esiste e che vive avventure allegoriche, spaventose e avventurose mentre quella vera esplora se stessa toccando sonorità e visioni sempre diverse. Un gruppo che da qualche anno è saputo tornare alla ribalta con due album di qualità – l’oscuro Humanz e lo psichedelico The Now Now – che ora sta portando nelle scene una novità assoluta: Song Machine.

Pensato come una vera e propria serie composta da stagioni, il progetto utilizza le caratteristiche dei servizi online come Youtube e Spotify per raccontarsi via via nel tempo. Una narrazione seriale che ripesca il concetto di ibridazione tra la nostra realtà e quella dei Gorillaz posizionando band (sia reale che finta), collaboratrici e collaboratori nello stesso luogo cancellando totalmente i confini e facendoli interagire tra di loro. Un lavoro che chiama la moderna creazione di storie in un terreno nuovo e che, con somma gioia di chi li ascolta e guarda, funziona alla grande perché coerente con ciò che il progetto è sempre stato: una fucina di ibridazione di mondi, dove i concerti sono fatti con gli ologrammi e i dischi accompagnati da corti animati.

Luca Parri
Nato a Torino, nel 1991, Luca studia scienze della comunicazione come conseguenza della sua ossessione nei confronti delle possibilità che offrono i mezzi di comunicazione e ha lavorato come grafico e consulente marketing (lavoro che ha fatto crescere esponenzialmente la sua ossessivo-compulsività per le cose simmetriche e precise). Lo studio gli ha permesso di concretizzare la sua passione per i differenti linguaggi dei media, sperimentando con mano l'analisi linguistica e semiotica; il lavoro gli ha dato la possibilità di provare a inserire la teoria nel pratico. Studio e lavoro, insieme, lo hanno portato a scrivere di, tra gli altri argomenti, grafica pubblicitaria, marketing, comunicazione e comunicazione visiva collegata al videogioco.