Grand Theft Auto: The Trilogy – Definitive Edition è un dilemma ludico e morale tanto inutile quanto necessario

Nella vita sono abbastanza smemorato, o comunque faccio molta fatica a ricordare determinate cose, eppure se penso alle mie esperienze di vita con Grand Theft Auto, i ricordi sembrano essere cristalli perfettamente conservati nella mente. Ricordo il primo incontro con la sua primissima iterazione su PlayStation, ovviamente avvenuto con una copia pirata (ma poi comprai una collection originale per essere in pace con la mia coscienza) e ricordo anche di GTA III, arrivato per Natale da mia zia dopo aver ricevuto una PlayStation 2 per il mio tredicesimo compleanno nel lontano 2001. E poi a seguire l’arrivo di Vice City l’anno successivo, uno dei primi giochi comprati in semi autonomia ad un negozio vicino casa ormai sostituito da una pizzeria da asporto e poi San Andreas, comprato addirittura in un Blockbuster. Oltre a sottolineare la mia vecchiaia, questa introduzione si rende necessaria per incastonare la serie in un periodo storico preciso, una pietra miliare virtuale che indica il momento in cui il videogioco, grazie all’influenza della serie, ha compiuto un passo evolutivo i cui segni sono tangibili anche nei giorni nostri.

L’arrivo di GTA III sul mercato fu un evento dalla portata colossale, il che è tutto dire se si considera che il 2001 fu l’anno di Metal Gear Solid 2: Sons of Liberty, Final Fantasy X, Gran Turismo 3 e tanti altri titoli di grande importanza per PlayStation 2, mentre il Dreamcast di SEGA, ormai sul viale del tramonto, pubblicava l’immenso Shenmue 2 e Microsoft debuttava nel mondo console con la sua Xbox. Andrea Bollini nel suo articolo ne parla in termini decisamente più professionali, mentre io mi limiterò a spiegarmi in modo più diretto: fino a quel momento nessun gioco aveva saputo mettere nelle mani del giocatore così tanta libertà in un ambiente così vivo.

La Liberty City di Claude Speed, protagonista silenzioso di GTA III, era un ecosistema pieno di vita ed immersivo come pochi altri (forse solo Shenmue faceva di meglio) e titolo più venduto dell’anno in Europa e Stati Uniti.
Un ecosistema che nei tre anni successivi ha saputo ampliarsi sia in termini quantitativi che qualitativi: Vice City, uscito nel 2002, introduce nuovi veicoli come moto e barche, introduce timidamente delle opzioni di personalizzazione del protagonista Tommy Vercetti, che stavolta parla parecchio e che, a livello personale, è uno dei miei giochi del cuore e principale causa del mio amore/odio smodato nei confronti degli anni ‘80, in particolar modo della musica. Vice City, infatti, eleva la radio di gioco e la trasforma da sottofondo generico ad un elemento distintivo e caratterizzante, capace di immergere il giocatore meglio di qualunque camicia hawaiiana, vestitini fluo e baffi prominenti. Il giro di giostra finale è San Andreas, anno 2004, un gioco talmente pieno di attività secondarie da far impallidire il quarto capitolo della serie, una scrittura che mostra un certo livello di maturità e abbastanza pesante sotto il profilo tecnico da mandare in crisi le console dell’epoca (inclusa la mia).

Un successo sotto tutti i fronti, al punto da diventare il titolo più venduto di sempre su PlayStation 2, seguito da Vice City. In questo lasso di tempo relativamente breve, Rockstar Games ancora saldamente al terreno le sue radici per la costruzione del suo “impero”, mostrando una concretezza senza eguali e innescando un processo di maturità riscontrabile anche a distanza di anni. La trilogia di Grand Theft Auto può sembrare incredibilmente distante rispetto ad opere come Red Dead Redemption 2 sia in termini narrativi che tecnici, ma restano ancora dei titoli validi per studiare l’evoluzione della serie e per vedere in azione per la prima volta meccaniche che ormai diamo per scontate oppure cose ormai sparite dal nostro immaginario attuale come i celeberrimi trucchi.

Grand Theft Auto Trilogy

In questa ottica, Grand Theft Auto: The Trilogy – Definitive Edition è un forte schiaffo in faccia ai giocatori o comunque alle persone curiose di rigiocare le avventure di Claude, Tommy e CJ e i motivi sono numerosi. Una delle principali critiche, ancor prima della sua uscita, riguardavano il revamp grafico, da molti giudicato indegno e cartoonesco rispetto ai picchi qualitativi raggiunti negli ultimi anni dal videogioco o, rimanendo nei confini del franchise, in GTA V. Personalmente ho visto in questa scelta estetica il desiderio di mantenere intatto uno stile figlio delle limitazioni tecniche dell’epoca, tuttavia sono numerose le cutscenes in cui questa scelta risulta spiazzante, rompendo spesso e malvolentieri l’atmosfera. A infastidirmi, all’atto pratico, è il lavoro svolto nel suo complesso che trasuda dozzinalità da tutti i pixel, con effetti cromatici capaci di accecare il giocatore ed una pioggia che rende impossibile capire cosa accada su schermo e una vasta gamma di glitch, bug e crash degni di un gioco ancora in sviluppo, o comunque di una build che avrebbe decisamente bisogno di un ulteriore controllo qualità.

A peggiorare la situazione, a mio avviso, è la pochezza dell’ammodernamento promesso: a livello di gameplay il gioco è sostanzialmente quello di vent’anni fa con tutti i pro e i contro del caso. Sparare da una macchina nei Grand Theft Auto era ed è una roba di una scomodità unica, oltre che limitante dato che non è possibile farlo senza un’arma automatica, il layout dei comandi a volte richiede operazioni insensate per compiere azioni tutto sommato semplici come tirare il freno a mano (ma non è mappabile) e la mira assistita è forse una delle più brutte di sempre, costringendo a sparare a raffica per poter colpire un nemico. Insomma, l’unica aggiunta di valore al gameplay è la ruota delle armi e della radio e nulla più.

Il difetto peggiore di Grand Theft Auto: The Trilogy – Definitive Edition è il suo essere un’operazione ibrida, fatta più per attirare l’occhio che per svecchiare in modo dignitoso titoli di vecchia data e che non ha alcun senso se non mettere sullo scaffale un prodotto utile per i bilanci in vista del Natale. A questo punto verrebbe naturale consigliare a chi desidera rivivere determinate emozioni di giocarsi direttamente le versioni originali; lo sarebbe se non fosse che Rockstar Games ha deciso, in concomitanza con l’uscita di questa riedizione, di toglierle da ogni store digitale assestando l’ennesimo colpo basso nei confronti della preservazione videoludica. Probabilmente è anche per questo che differenziare remastered e remake risulta così complesso per il pubblico, per colpa di una comunicazione rarefatta e non sempre trasparente circa le reali migliorie e i cambiamenti realizzati per queste operazioni e una progressiva cancellazione del passato.

Concludendo, qualcuno ha anche paragonato Grand Theft Auto: The Trilogy – Definitive Edition a Cyberpunk 2077 e posso comprenderlo, se parliamo del fatto che Rockstar Games ha una nomea di sviluppatore infallibile e, anche stavolta, i giocatori di mezzo mondo sono costretti a pagare un prezzo salato per ritrovarsi tra le mani prodotti incompleti. Un torto rifilato da chi ha ormai piena fiducia da parte dei consumatori e che sottolinea, per l’ennesima volta, la necessità di scardinare le tante pratiche abituali dei giocatori come l’hype costruito sul nulla cosmico e l’estenuante invito al preordine. Non tanto per fare i bulli con le corporazioni, casomai come atto d’amore verso noi stessi e la nostra passione sempre più sfruttata per arricchire chi non lo merita.

Francesco Paternesi
Pur essendo del 1988, Francesco non ha ricordi della sua vita prima del ’94, anno in cui gli regalarono un NES: da quel giorno i videogiochi sono stati quasi la sua linfa vitale e, crescendo con loro, li vede come il fratello maggiore che non ha mai avuto. Quando non gioca suona il basso elettrico oppure sbraita nel traffico di Roma. Occasionalmente svolge anche quello che le persone a lui non affini chiamano “un lavoro vero”.