His House: Remi Weekes usa il genere horror per disegnare una metafora di una realtà ancora più spaventosa, che si consuma continuamente sotto i nostri occhi

Un film sulla migrazione, che permette agli spettatori dei film di genere di entrare in una dimensione vicina, ma parallela. Il miglior Cavallo di Troia possibile per sfondare le resistenze di un pubblico disimpegnato e imporgli un tema di grande attualità, talmente carico di dolore e di narrazione tossica da farci spesso e volentieri far girare la testa dall’altra parte. Letteralmente (questa associazione si capirà dopo aver visto His House) il regista Rami Weekes ci impone di guardare, spostando il nostro sguardo sofferente su un quadro che non abbiamo voluto vedere e adesso è là, in tutto il suo profondo orrore, davanti ai nostri occhi. 

His House di Remi Weekes è una produzione BBC disponibile in streaming su Netflix, che racconta la storia di una coppia di migranti, Bol (Sope Dirisu) e Rial (Wunmi Mosaku) che dal Sudan fuggono verso l’Inghilterra per sopravvivere agli eccidi tribali che massacrano il loro Paese. Nel tragitto in mare perdono numerosi compagni, tra cui la piccola Nyagak (Malaika Wakoli-Abigaba), per cui Rial nutre un rimpianto materno e insopportabile.  

His House: noi e loro

Non possiamo far finta di nulla, il dramma delle condizioni di viaggio dei migranti sono uno dei grandi problemi che attanagliano il nuovo secolo. Raccontarlo, da una prospettiva horror, puntando i riflettori su come i protagonisti di questo dramma vivono la propria esperienza è un’operazione dalla forza straordinaria. A differenza di un film realistico, l’horror permette di mettere in scena la metafora dei sentimenti più oscuri e pesanti dell’Uomo con immagini memorabili. Inoltre, nella sua carica emotiva, si possono respirare l’ansia e l’inquietudine che vivono molti di loro, se non tutti. 

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Loro, noi. La differenza tra queste persone che arrivano dal mare e “noi” è evidente. E non si tratta del banale colore della pelle (una scena, in cui Rial incontra dei britannici neri che la invitano a tornare in Africa, lo racconta in maniera esemplare). Così come racconta Jordan Peele nel suo Us, noi e loro sono due categorie non etniche, ma sociali. Se in alcuni luoghi e in questo tempo “noi” siamo coloro che accolgono, “loro” hanno una storia, una cultura, una filosofia estremamente peculiari. E di questo sono orgogliosi, ma penalizzati da una condizione di necessità.

His House su Netflix è l’horror che dovete vedere

Trovare un buon horror non è impresa facile, anche perché – una volta consolidato il jumpscare come pratica comune – si producono opere in serie, non sempre puntando alla qualità. Alcuni autori, tuttavia, si distinguono o per estetica o per la volontà evidente di dare un messaggio. His House si colloca perfettamente in questa seconda categoria, riuscendo a rendere con efficacia anche la tecnica del genere horror. Il film su Netflix assolve insomma alle richieste del pubblico: fa paura, concede qualche scena un po’ gore (senza rientrare in questo sottogenere), usa con maestria atmosfere e tempistiche. Inoltre, dettaglio da non trascurare, ci regala una fotografia impeccabile e una cura assoluta per il dettaglio

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In più, e questo è un elemento non frequente del genere, offre a due interpreti di altissimo livello (già visti entrambi in Black Mirror) lo spazio per esprimere il proprio talento. Insieme rappresentano i due poli psicologici della migrazione, il desiderio di rimanere ancorati alle proprie radici da un lato e la voglia di ricominciare, di iniziare una nuova vita, dall’altro. Queste due istanze così diverse non possono che entrare in conflitto, mosse ed esasperate dall’emersione dei loro fantasmi. 

Cosa hanno vissuto in mare?

La storia di His House si compone piano piano, svelando minuto dopo minuto i pezzi di un puzzle sempre più sconvolgente. Attenzione, qui si eviterà ogni spoiler proprio per evitare di rovinarvi l’esperienza, il cui impatto è realmente scioccante. Tuttavia, quello che si può dire è quello che tutti noi sappiamo: il viaggio clandestino dall’Africa all’Europa è una prova di inaudita violenza, che devasta l’essere umano e lo porta a convivere col senso di colpa. Il mare Mediterraneo, ormai svuotato dal suo privilegio narrativo dato da ricordi romantici e mitologici, ora diventa un teatro di morte, vorace e spietato. Dalla terra natìa dei protagonisti arriva anche l’idea di una magia ancestrale, legata al sangue, alla giustizia primigenia, dove ogni morte si paga col prezzo definitivo di una nuova vita. 

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Dal mare sconfinato (persino il Mediterraneo diventa angosciante quando è scuro come la notte) a uno spazio angusto. Con lo status di rifugiati, Bol e Rial sono trasferiti in una casa, una bella casa, dove possono ricostruire – sotto gli occhi dell’ufficio migrazione – la loro esistenza. Questo spazio unico diventa una scenografia che si apre verso le vastità del ricordo e l’angoscia del trauma. Come parassiti, i fantasmi divorano le pareti di quello spazio apparentemente sicuro, per riemergere prepotentemente nel presente dei personaggi. Una storia di fantasmi è una storia d’amore? Non sempre. A volte una storia di fantasmi è una storia di rinascita. 

Francesca Torre
Storica dell'arte, giornalista e appassionata di film e fumetti. Si forma come critica tra Bari, Bologna, Parigi e Roma e - soprattutto - al cinema, dove cerca di passare quanto più tempo possibile. Grande sostenitrice della cultura pop, segue con interesse ogni forma d'arte, nella speranza di individuare nuovi capolavori.