Ryan Murphy racconta la Hollywood degli anni ’40, che avrebbe potuto riscrivere le sorti della storia e della società

Hollywood è sogno, è illusione. È ciò che vorremmo, ciò a cui aspiriamo. È il glamour, lo scintillio, le storie che non sono come quelle che ci ritroviamo a vivere tutti i giorni, ma che filtrate dall’occhio di registi e sceneggiatori diventano mitologia, fiaba, l’inaspettato che si fa reale. Il reale. E in fondo cosa sono quei racconti che vediamo da anni sul grande (e adesso anche piccolo) schermo se non la speranza che quei personaggi, quelle vicende, qui valori vengano riflessi nel mondo ordinario, soggiogato da una brutalità che l’universo immaginifico può sublimare, forzando a volte i paradigmi della realtà, ma rimodellandola per farne un concetto diverso, superiore.

Il potere del cinema, quello maestoso, che ha smosso masse, spettatori, che ha ridefinito stili di vita, di lavoro, movimenti culturali; che si è fatto mano a mano sempre più cosciente di quello che avrebbe potuto significare per il pubblico e che, assecondandolo o spiazzandolo, lo ha estasiato ogni volta.

La meraviglia di Hollywood è un mito che precede se stesso, che prima ancora di far saltare alla mente storie o aneddoti su quell’industria magnifica quanto feroce si palesa davanti al nostro sguardo come luminosa e immensa, ingestibile per la portata artistica, ma ben controllata da pochi eletti al dominio che ne hanno scritto la storia. Ed è proprio la storia che, quindi, deve essere riscritta. È proprio la violenza oligarchica dei pochi a dover essere smantellata, l’insicurezza di molti a dover venir rinvigorita, l’ignoranza di tanti altri che dovrebbe essere fronteggiata e annullata.

Benvenuti a Hollywood

Hollywood fa questo. E non la Hollywood che tutti noi conosciamo, non la Hollywood con i suoi studios americani e un circolo assuefatto dalla sua stessa marcia reputazione. È la Hollywood di Ryan Murphy, la Hollywood di una miniserie che vuole cambiare il corso degli accadimenti, che vuole mostrarci la fama, ma anche la croce di quel palazzo dorato che erano le produzioni cinematografiche e di quanto male possano aver fatto al pubblico e alle persone. 

Nel suo voler, letteralmente, ri-editare la storia, Ryan Murphy prende ciò che gli anni di lotte e emancipazione ci hanno insegnato per inserirle in un contesto lontano e ristretto a confronto con le aperture – ancora da definire, ancora da ben legittimare – della contemporaneità artistica dell’ambiente culturale odierno.

Le ridefinisce secondo canoni inadeguati, se si va a considerare l’area di conservazione e ghettizzazione che una classe come quella dirigenziale e produttiva esercitava sui principali regni della bolla dello spettacolo, ridefinendo delle direttive che sarebbero state impensabili anche solo pochi anni fa, costringendo la stessa industria a riflettersi davanti a uno sporco, corrotto specchio e ripensandosi in base a ciò che è e a ciò che, per troppo tempo, è stato.

Dalla Hollywood dei magnati alla Hollywood delle diversità

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Se nella propria costruzione Hollywood attraversa quelle traiettorie che era impensabile non poter trovare, come i cliché sulla mercificazione sessuale dei suoi appartenenti fino alle più consuete esaltazioni dell’ambizione verso la fama, è nel disattenderne molti altri sostanziali che la serie originale Netflix si appropria di un territorio che vuole – o meglio, vorrebbe – appianato, per poter essere, così, edificato nuovamente.

Scegliendo, per questo, una strada che annulla quasi i conflitti e le increspature che ci si sarebbero aspettati, mostrando maggior attenzione nel veicolare il proprio messaggio (sotto forma di un augurio per il futuro) più che nel voler solamente raccontare una storia. 

Nella personale rivisitazione della Hollywood negli anni Quaranta, Ryan Murphy non accetta solo la crudeltà che scaturiva tra produttori e star, non scende nelle rivalità accese seppur spesso sospinte da una (ir)razionale paura dello svanire, ma accoglie quello che, proprio in quegli anni, non era concesso di accogliere.

Sottolinea la potenza che questo mondo teneva ben stretto tra le mani, non giudicando quello che non ha potuto – e voluto – fare, ma dando una seconda possibilità per una comprensione che è opportuno si propaghi fino ai giorni nostri. E così quei magnati che hanno fatto grande – ma elitaria, promiscua, perseguitata, omologata, razzista, omofoba, misogina – Hollywood si concedono la lungimiranza di poter affidarsi ai pareri di una produttrice ebrea, di poter concedere il nome sulla scena a uno sceneggiatore nero omosessuale, di affidare un ruolo da Oscar a un’attrice asiatica. 

La genuina utopia di Ryan Murphy

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In quella patina che è il riconoscimento stilistico della mano di Ryan Murphy, in quell’amore per i corpi e il gusto estetico che caratterizzano i suoi quadri visivi, Hollywood è la rivincita della moralità che non vuole farsi presuntuosa e arrogante, bensì la genuina utopia di un mondo e un pubblico che avrebbero potuto ambire a una società differente, che sarebbe potuta partire da chi le storie poteva raccontarle, da chi avrebbe potuto sin da principio far sentire la moltitudine di voci che ci appartiene.

Una riconciliazione sicuramente forzata, riappacificante, priva di umiliazioni e sconfitte. Finta, ma per un progressismo e un miraggio, un’apertura e degli ideali che valgono per Ryan Murphy più di verità e bigottismo, di chiusura e ostracismo, promettendoci anche l’impossibile, proprio come Hollywood ha sempre fatto. Promettendoci quello che Hollywood avrebbe dovuto fare per noi.

E dunque, con Hollywood, richiudiamo sul sogno, sull’illusione. Ma un sogno e un’illusione politici, inverosimili, esplicativi più di saggi e teorie di genere e generalizzate. Una serie che rivolta le ipocrisie e, sicuramente, ne innalza delle altre, ma sempre nella buona fede di poter entrare in un cinema per poi uscirne migliori. “Non è per te, è per il sogno”. È per una favola che è bello sentirci raccontare