Tra un Thor e l’altro, Taika Waititi si prende una pausa con il suo Jojo Rabbit. Commedia dissacrante sui modi del nazismo e sugli effetti che ha avuto sui bambini degli anni ’30,tratto dal libro Caging Skies di Christine Leunens e presentato in anteprima nazionale al Torino Film Festival .

Suona un po’ come il ritorno del figliol prodigo questo film d’apertura della trentasettesima edizione del Torino Film Festival; perché è proprio nel capoluogo piemontese che il pubblico e la critica italiani hanno potuto fare conoscenza in modo più ravvicinato di Waititi. Prima ancora delle incursioni in Marvel, infatti, l’esilarante mockumentary su uno strampalato gruppo di vampiri intitolato Vita da Vampiri – What We do in the Shadows capitò proprio sugli schermi della rassegna, partecipando al concorso nel 2014. Un ritorno accolto con grande curiosità e attenzione, dati i buonissimi risultati collezionati negli ultimi anni e l’affetto che lega Torino e il regista neozelandese. Un’apertura che ha il sapore delle rimpatriate quindi questa anteprima nazionale di Jojo Rabbit con l’aspettativa di trovare la solita dirompente carica dissacrante a cui l’autore ci ha abituato, coniugata nel più terribile e spietato regime di tutti i tempi.

Come ti cancello l’infanzia: una guida pratica

Johannes Betzler è un bambino di dieci anni come tanti altri, se ci riferiamo agli standard della Germania nazista più provinciale. Il protagonista di Jojo Rabbit vive il regime in modo religiosamente fedele a tal punto da avere un amico immaginario – un consigliere strampalato e inopportunamente fuori luogo – d’eccezione: il dittatore in persona; una proiezione mentale dell’immagine che il ragazzo ha di Adolf Hitler, che dice di mangiare carne d’unicorno e avere quattro testicoli. Jojo sta per entrare nella Gioventù Hitleriana e partecipare ai campi estivi della stessa, ed è particolarmente elettrizzato, certamente agitato ma carico per la sua entrata ufficiale nelle fila del Reich.

Quello a cui non è evidentemente preparato è il limite dovuto dalla sua giovinezza. È un bambino che, come molti altri suoi coetanei, ha subito una propaganda feroce arrivando a interessarsi di argomenti troppo grandi per lui trovandosi costretto a rinunciare alla sua infanzia per sottostare ai dettami folli del regime.

Non ha idea di come si impugni un’arma perché non dovrebbe essere affar suo, ha una opinione degli ebrei e delle razze inferiori a quella ariana che mescola realtà e finzione, perché troppo sensibile a ciò che il nazismo gli ha inculcato. Non ha il coraggio di uccidere un coniglio – situazione che gli vale il soprannome di “Jojo Rabbit” – ma si getta nella mischia per rubare una granata e compiere il gesto eroico che quel che lui pensa di Hitler si aspetta, dimenticandosi totalmente di quel che – in una situazione normale – un bambino come lui dovrebbe fare. È in totale balia di quello che gli succede intorno e lotta costantemente tra i limiti anagrafici e il bombardamento politico che passivamente lo ha trasformato.

jojo rabbit

I bambini non sanno, è un mantra che circola per tutta la durata del lungometraggio. Questo si traduce con tentativi goffi e maldestri da parte di tutti, siano essi fanciulli o meno, di sopperire a queste mancanze con dettagli immaginifici e favolistici che forse così possono essere assimilati. La realtà e la messinscena, in Jojo Rabbit come era nella realtà, diventano irriconoscibili tra loro per tutti, le regole e le leggende sul culto del dittatore diventano l’unico contatto con ciò che accade intorno ai tedeschi di ogni età. E poco importa se un bambino di nove anni è costretto a imbracciare un fucile indossando una divisa di cartone, lo sta facendo per un ideale superiore e leggendario che viene condiviso da tutti con il terrore e la mitologia.

In questa Germania delle assurdità la guerra e la politica sono trattati come un gioco da affidare ai più piccoli, facendo loro sembrare tutto una favola da accettare e vivere per proteggere il proprio paese. Taika Waititi, con Jojo Rabbit, vuole comunicare le assurdità totali che stavano dietro il reclutamento infantile e la dottrina politica del Nazismo in una storia dai toni comici e dolcissimi che si sviluppa gradualmente e prendendosi il giusto tempo per avere un gradiente di tono che sia credibile.

Le atmosfere e i ragionamenti sulla fanciullezza (e anche alcuni tratti estetici) ricordano da vicino quelli del miglior Wes Anderson di Moonrise Kingdom opportunamente declinati in una situazione in cui gli stessi erano particolarmente messi in pericolo. I bambini devono essere bambini e gli adulti devono credergli per quel che sono, è l’insegnamento che la mamma anti-nazista Rosie (Scarlett Johansson) vuole dare a suo figlio e che forse lui e il capitano Klenzendorf (Sam Rockwell) hanno capito troppo in ritardo. Il tutto viene comunicato con una tenerezza calda e avvolgente, proprio come sono le favole che scaldano le notti dei bimbi.

jojo rabbit

L’avventura giocosa e tenerissima sulla banalità del male

La cosa che maggiormente spicca e definisce la totalità di Jojo Rabbit è certamente il suo tono. Probabilmente sarebbe stato molto più semplice infarcire il film di situazioni commoventi o, per estremo contrario, creare una distruttiva commedia atta a ridicolizzare i dettami e i modi dei regimi. Ciò che il regista neozelandese ha fatto, invece, è stato costruire quello che è a tutti gli effetti un film sì comico ma prima di tutto avventuroso nel senso più fanciullesco del termine. Tutto qui è orientato secondo gli occhi dei bambini ed è presentato sotto questa lente.

Jojo Rabbit è un film di purezza giovanile che cresce insieme al suo protagonista, variando la voce proprio come succede quando arriva la pubertà. Waititi ha confezionato un film che si prende la libertà di comunicare una via diversa al facile pietismo o alla totale macchietta ironica per parlare di Nazismo. Una via personale, forse un po’ distante dal suo solito (anche se ci sono dei momenti di comicità weird tipicamente waititiani), ma certamente convincente. Una storia di amore pre-adolescenziale spontanea e credibile, orientata per mettere in luce tutte le dolcissime incongruenze dell’avere dieci anni che vengono ancor di più rese evidenti dalle assurde maniere del più incomprensibile dei momenti storici della vita dell’uomo.

Luca Parri
Nato a Torino, nel 1991, Luca studia scienze della comunicazione come conseguenza della sua ossessione nei confronti delle possibilità che offrono i mezzi di comunicazione e ha lavorato come grafico e consulente marketing (lavoro che ha fatto crescere esponenzialmente la sua ossessivo-compulsività per le cose simmetriche e precise). Lo studio gli ha permesso di concretizzare la sua passione per i differenti linguaggi dei media, sperimentando con mano l'analisi linguistica e semiotica; il lavoro gli ha dato la possibilità di provare a inserire la teoria nel pratico. Studio e lavoro, insieme, lo hanno portato a scrivere di, tra gli altri argomenti, grafica pubblicitaria, marketing, comunicazione e comunicazione visiva collegata al videogioco.