La città dell’orca, di Sam J. Miller, è l’ultimo arrivato in casa (editrice) Zona 42, e a Bookcity Milano abbiamo avuto il piacere di parlare con l’autore e con la traduttrice del romanzo, Chiara Reali, in occasione della presentazione che si è tenuta alla Libreria Covo della Ladra, in via Scutari, a Milano.

Sam è arrivato a Milano da una Venezia allagata, come ha documentato sul suo profilo Instagram, esperienza, ci ha detto, molto forte per uno scrittore che ha ben presente il problema del cambiamento climatico e come eventi simili cambieranno drasticamente la società umana.

 

Le storie sono molto importanti nella città di Qaanaaq, sono ciò che resta di culture e terre sommerse dal mare. Cosa significa per te essere uno storyteller e da dove arrivano le tue storie?

Ho iniziato a raccontare storie molto giovane, quando andavo alle scuole elementari e non ero per niente popolare, non avevo amici, non ero neanche bravo negli sport; perciò durante l’intervallo ho iniziato a raccontare agli altri bambini che la sera prima avevo visto un film horror e raccontavo loro la trama del film; era una completa bugia, perché in realtà non avevo visto nessun film, ma raccontavo loro queste lunghe, assurde storie che non avevano niente a che vedere con i film, ma alla fine dell’intervallo dicevo loro “non è finita qui, domani continuerò a raccontarvi”; in questo modo ho passato due settimane a raccontare la trama di Shining – che non aveva niente a che fare con Shining – facendo sì che la gente tornasse ogni giorno ad ascoltare quello che stavo raccontando.

Perciò possiamo dire che la mia carriera di storyteller è iniziata raccontando bugie per piacere alle persone, per farmi degli amici.

 

Ne La città dell’orca, però, metti anche in guardia il lettore dal rischio di un eccessivo uso degli strumenti dello storytelling nel mondo del giornalismo; come dice Masaaraq “eravamo una buona storia. Pensavano che fosse abbastanza”.

Tutte le storie sono un eccesso di semplificazione, ogni volta che proviamo a raccontarne una, siamo costretti a renderla più facile, perché la realtà è così caotica e complicata e non è possibile raccontare una storia semplice basata su una notizia senza considerare le dinamiche geopolitiche tra due paese, o cinque paesi, o il mondo intero; ogni cosa è molto più complessa di quanto noi possiamo esprimere in una storia, che sia un romanzo o un articolo di giornale. Perciò credo che per i giornalisti, così come per gli scrittori di fiction, la sfida sia di raccontare storie che sono vere, con la consapevolezza che non puoi raccontare l’intera storia. Quando si racconta una storia, due persone possono avere una percezione opposta degli eventi, perciò la verità di una persona è la bugia di un’altra.

Perciò, che si parli di giornalismo o di fiction, se qualcuno vuole dirti qualcosa, ci sarà una semplificazione che qualcuno potrà chiamare menzogna. Non credo che sia qualcosa contro cui i giornalisti debbano combattere, ma è qualcosa che chiunque racconti una storia  deve tenere in considerazione per potersi domandare quale sia il modo migliore per rispettare la complessità della storia, senza eccedere, perché un’eccessiva complessità allontanerebbe i lettori: ho cercato di informarmi sull’allagamento di Venezia, i giornali parlano di corruzione, del cambiamento climatico, perciò anche la storia più semplice nasconde delle complessità. Il nostro ruolo è rendere una storia fruibile, mantenendo queste complessità.

 

Qual è il ruolo della fantascienza e dello scrittore di sci-fi, in questo contesto?

Sono stato per molti anni attivista, lavoro molto su quei temi che sono importanti per me, i senzatetto, gli atti di razzismo della polizia nei confronti delle persone di colore, le emergenze abitative, la guerra in Iraq; ci sono un sacco di cose che mi fanno arrabbiare e cerco sempre di parlare di questi temi, ma spesso le persone non riescono a sentire, perché sono spaventate, perché sono questioni che le toccano personalmente, perché avere paura spinge a essere arrabbiati e quando si è arrabbiati si tende ad attaccare gli altri. Perciò quando per qualcuno esiste un problema, non sempre ascoltano entrambe le parti, perché sono accecati dalla paura; la fantascienza ci permette di portare gli stessi problemi su un terreno diverso.

Città orca

Per esempio, a New York mi sono occupato molto del problema degli alloggi, del fatto che ci sono interi palazzi vuoti quando continuano a esserci persone che non hanno una casa; ho passato anni a lavorare su questo tema, tentando di far approvare leggi che rendessero illegale questo tipo di speculazione, ma molte persone, politici e normali cittadini, continuano a negare l’esistenza di questo problema, a sostenere che non succede più, che è stato risolto, ma possiamo provare che non è così, che è ancora un problema.

Le persone non vedono quello che non voglio vedere, perché se ne riconoscessero l’esistenza, dovrebbero fare qualcosa in proposito, o affermare che sono d’accordo con la gestione attuale. Grazie a La città dell’orca sono stato in grado di parlare di questo stesso problema nella cornice di una città fittizia – Qaanaaq non esiste (o meglio, esiste veramente una città con questo nome, in Groenlandia, che ha alle spalle una storia di genocidi, ma questo particolare – quasi profetico – l’ho scoperto dopo la pubblicazione del romanzo), nessuno possiede delle proprietà in Qaanaq, puoi parlare del problema delle case sfitte senza contrariare nessuno. Puoi dire che questo è comunque un problema reale e magari le persone possono vederlo in un modo diverso e interiorizzare quel concetto. Per me la fantascienza è attivismo, un mezzo per far succedere qualcosa in un modo diverso dalla protesta in strada. Sono entrambe forme importanti di attivismo, adoro entrambe, con la fantascienza puoi raggiungere un pubblico diverso.

 

Nella città di Qaanaaq non esiste la proprietà privata e l’isola è amministrata da intelligenze artificiali, ma molti dei problemi della nostra società sono presenti anche ne La città dell’orca.

Credo che qualsiasi sarà la configurazione delle nostre città, in futuro, che la proprietà privata esista o meno, le persone che hanno delle proprietà devono essere responsabili del modo in cui le usano. Allo stesso modo, se le persone sfruttano altre persone, facendo pagare più del valore effettivo dell’abitazione, o pagando una miseria i propri dipendenti, stanno sbagliando. Non sto dicendo che non dovresti avere una casa da affittare, o che non dovresti avere un attività commerciale, ma se le hai, hai anche delle responsabilità e non puoi limitare i diritti degli altri. Qualunque sia lo scenario politico, i diritti dell’uomo devono essere rispettati.

 

Nonostante Qaanaaq abbia gli stessi problemi che hanno le nostre città, ci sono anche degli spiragli di sole, come per esempio il fatto che – finalmente – le tematiche di genere non siano più un problema.

Sai, è facile arrabbiarsi e sentirsi sopraffatti, leggendo le notizie e vedendo quello che succede nel mondo – Venezia affonda, la California è flagellata dagli incendi, Porto Rico devastata da un terribile uragano – è molto facile essere spaventati, terrorizzati, tristi, ma per me La città dell’orca doveva anche concentrarsi su i lati belli dell’umanità; qualcosa è migliorato, rispetto alla nostra realtà, mentre altri aspetti sono andati peggiorando. Ok, magari New York non esiste più, sono successe un sacco di cose terribili, ma ci siamo lasciati alle spalle l’omofobia e la transfobia, la visione binaria del genere come la concepiamo noi è stata superata. Mi piace pensare che non siamo completamente fregati, ma che ci sia ancora un barlume di speranza, che tu possa ancora gustare una ciotola di noodles mentre la tua casa va a fuoco.

Città orca

Possiamo dire che La città dell’orca non è una distopia?

Mi piace pensare che ci sia ancora speranza, ma la distopia vende molto più facilmente di un futuro speranzoso. Le persone sono affamate di futuri cupi perché sentono che è questa la direzione in cui stiamo andando e quindi vogliono sapere come sopravvivere, vogliono essere preparate per affrontare ciò che verrà. Ma il nostro futuro non sarà come in The Walking Dead, non ti sveglierai mai un giorno e inizierai ad uccidere altre persone impunemente – beh, almeno me lo auguro. N.K. Jemisin, l’autrice de La quinta stagione, sostiene che nel momento in cui la società collassa, quello che succede non è la nascita di una distopia: a New Orleans, dopo l’uragano Katrina, le persone si sono prese cura l’una dell’altra, si sono aiutate a vicenda; la distopia la troviamo nella polizia che ha iniziato a sparare. La risposta del governo è stata cattiva, ma le persone non si sono immediatamente convertite al cannibalismo, hanno invece rafforzato il senso di comunità.

 

Quindi possiamo continuare a essere mediamente ottimisti per il futuro; nel tuo futuro, invece, cosa ci sarà?

Vorrei potertelo dire, ma non so cosa succederà nel futuro! Di solito ho un milione di idee contemporaneamente e una dozzina di taccuini su cui appuntarle; mentre venivo qua in treno mi sono venuti in mente tre spunti per delle storie solo leggendo il quotidiano. Perciò ho queste svariate idee che mi rimbalzano in testa come atomi e a volte restano lì a vagare per anni, finché due idee non si uniscono e si inizia a creare una molecola. Per La città dell’orca avevo quest’immagine di una donna che viaggiava in compagnia di – appunto – un’orca e non sapevo che fare con lei, continuava a girarmi in testa finché non si è unita ad altre idee e altri temi a cui stavo pensando. Di solito ho una sorta di gestazione che dura per un po’ e in cui le idee prendono una forma più definita e si incastrano l’una all’altra e non mi metto fretta in questa fase, sto semplicemente tranquillo e osservo come si muovono le cose. Una volta che ho capito cosa fa parte della storia e cosa no, inizio a pensare alla trama. Di solito non inizio un progetto se non conosco il titolo, la prima frase e l’ultima frase, poi penso al viaggio che i personaggi dovranno affrontare.

Per ora l’unica certezza è che il mio prossimo romanzo si intitolerà The Blade Between, sarà pubblicato nel 2020 ed è un thriller sovrannaturale che potremmo presentare come Stephen King incontra House of Cards: gentrificazione e fantasmi.

 

Angela Bernardoni
Toscana emigrata a Torino, impara l'uso della locuzione "solo più" e si diploma in storytelling, realizzando il suo antico sogno di diventare una freelancer come il pifferaio di Hamelin. Si trova a suo agio ovunque ci sia qualcosa da leggere o da scrivere, o un cane da accarezzare. Amante dei dinosauri, divoratrice di mondi immaginari, resta in attesa dello sbarco su Marte, anche se ha paura di volare. Al momento vive a Parma, dove si lamenta del prosciutto troppo dolce e del pane troppo salato.