Licorice Pizza di Paul Thomas Anderson è un’allegra e spensierata storia d’amore che fa da sfondo a un articolato pensiero generazionale nella California degli anni ’70

al 1996 – anno di uscita di Sydney – a oggi l’opera di Paul Thomas Anderson ha permesso di individuare dei tratti comuni e ricorrenti di come il regista californiano intende, pensa e vede il proprio cinema. Un percorso di senso che si è evoluto, modificato e reso più specifico con il passare del tempo. Una trattazione che, nei vari film, tocca e attraversa temi e tempi diversi con modalità, intenzioni e caratteri che ritornano fino a diventare cardine vero e proprio su cui si basa il suo intero lavoro. Con questo articolo voglio tentare di delineare queste figure ricorrenti e come esse vengono declinate e intonate nel suo ultimo film, Licorice Pizza.

Mediazioni di media medi

Negli anni, Anderson ha reso sempre più chiaro ed esplicito il suo punto di vista, le sue ispirazioni e in generale il tono con cui desidera far arrivare al pubblico tutta una serie di messaggi che hanno alla base un concetto molto preciso: la mediazione. Che sia quella dei mezzi di comunicazione, quella delle letture religiose tramandate e interpretate o ancora il rapporto di negoziazione alla base della vendita e del commercio, il meccanismo di mediazione nell’interazione tra essere umani è forse il vero e proprio cardine che unisce e collega ciascuno dei nove film realizzati dal regista, compreso Licorice Pizza.

Tutto questo deriva e amplifica direttamente l’autore stesso, che nella cultura americana post-bellica e nello specifico in quella dei mass media di estrazione californiana ci è cresciuto interagendo e venendo investito ripetutamente da essa. I film di Paul Thomas Anderson, quindi, riflettono sul postmodernismo e la rimasticazione del passato mediata da ricordi parziali non per velleità fine a se stessa o per una vuotezza generalizzata di contenuti da riempire con le sole suggestioni (o forse sì per entrambe le cose, ma ci arriveremo).

Questa scelta stilistica quindi nasce prima di tutto, come spesso accade nei lavori di altri colleghi della cosiddetta Sundance invasion degli anni ’90 (di cui fanno parte tra le altre e gli altri: Quentin Tarantino, Kathryn Bigelow, David Fincher e Steven Soderbergh), per un influsso subito. Assistiamo, guardando i film di queste persone, al postmodernismo e al tardocapitalismo con i loro caratteri invasivi, speculativi e di sostituzione dei ricordi passati con un pastiche di suggestioni indotte dai media che agiscono su di loro portando a creare di conseguenza prodotti che hanno alla base questo stesso meccanismo, in una matrioska di combinazioni che prima di questa esplosione non solo non era diffusa ma non era neanche possibile.

Ciò che rende Paul Thomas Anderson e la sua carriera degni di analisi è però, come già parzialmente anticipato, il suo inserimento volontario e spesso ambiguo, incoerente e difficilissimo da decifrare in modo ideologicamente preciso. Licorice Pizza e tutti i suoi altri film sono infatti specchio concreto della persona che li ha concepiti. Del suo conflitto interno tra critica spietata al capitale, allo star system passato e presente (tantissimi sono infatti i ragionamenti che il regista fa su personaggi dei suoi film a partire da ciò che lui intende di una specifica stella hollywoodiana) e l’inevitabile inserimento in queste logiche. La mediazione sempre presente ritorna ancora una volta, nel suo dividersi tra sguardo distante e accusatorio e quello fondamentalmente impossibilitato da non cedere a un amore fin troppo lusinghiero nella sua pericolosità (per il cinema, per le persone che popolano i suoi film, per l’infantile incoerenza dei dopoguerra occidentali e dell’America in particolare).

licorice pizza

Generazioni che (si) invidiano tra conflitti, vendite e amori

Lasciati da parte i preamboli, per chi vi scrive cruciali per poter sviluppare un discorso coerente al passato di un regista a cui sono particolarmente legato, possiamo dunque passare a scendere più nel dettaglio di Licorice Pizza e di come quanto scritto prima viene coniugato nella storia del film. Ambientato in quella California tanto cara ad Anderson, che negli anni ne ha sviluppato le dolci e amare incongruenze attraverso diversi scorci di diversi decenni dal primo dopoguerra a oggi, questo lungometraggio ha al suo centro la storia d’amore tra Alana e Gary: la prima hostess per studi fotografici venticinquenne che anela a un’adolescenza che le sta sfuggendo dalle dita senza che lei possa realmente controllare tutto questo, il secondo un attore sedicenne con un forte desiderio imprenditoriale forse fin incompatibile con la sua età.

Da questa breve descrizione dell’incipit alla base del film viene chiaro come il conflitto generazionale tra i due protagonisti (e tra tutti gli altri personaggi comprimari con cui si interfacciano) si poggia anche questa volta su una mediazione, su una negoziazione e un rimasticamento imperfetto. Il passato viene filtrato dagli occhi della cultura di massa che ci restituisce un ritratto delle persone che vivevano la valle di San Fernando negli anni ’70, sì credibile ma irrimediabilmente figlio di una ricostruzione parziale, quanto volontaria ed esplicita. Le situazioni in cui Alana e Gary (interpretati rispettivamente dalla cantante Alana Haim e dal figlio d’arte Cooper Hoffman, entrambi al loro esordio cinematografico) si trovano e le persone che incontrano rendono via via sempre più palese il lavoro che Anderson intende fare sulle analisi generazionali, rendendo il conflitto e l’invidia tra di esse il tema principale di Licorice Pizza.

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Giovanissimi studenti che vogliono diventare venditori a tutti i costi perché la società americana gli ha instillato un sogno distorto e contorto in cui la vendita è l’unico metro di successo, attori e produttori di mezza età che vogliono imporsi come simboli indimenticabili della vita estrema e sregolata (Bradley Cooper e Sean Penn, scelte che tra l’altro fanno ritornare quel meccanismo di trattazione dei personaggi per parlare della considerazione che il regista ha degli attori stessi). Paul Thomas Anderson usa la storia d’amore tra i due protagonisti, raccontata con leggerezza e senza mai scadere nella sdolcinata pesantezza, per riflettere sulla puerile necessità delle generazioni di basare la loro identità su quel che gli manca delle altre e viceversa.

Licorice Pizza è ancora una volta una riflessione del suo regista prima di tutto sulla sua vita passata, sul cinema che ama (non mancano neanche questa volta riferimenti diretti a Robert Altman e Woody Allen) e sugli effetti che la cultura di massa e i concetti dello stile di vita americano hanno sul suo presente e avranno sul suo futuro. Anderson si mette ancora una volta davanti la sua persona, per analizzarsi e perché no arrabbiarsi con se stesso ma soprattutto per innamorarsi ancora di quel che lo ha reso l’uomo che è oggi. Cosciente della incoerenza assoluta che lo attraversa, critico quando serve ma mai totalmente distante da tutto questo, e anzi razionalmente inserito in quei contesti.

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Prima di concludere questo piccolo percorso all’interno delle suggestioni alla base del linguaggio di Anderson e di come esso viene inserito in Licorice Pizza occorre parlare anche di musica. Il nome del film, infatti, si riferisce a uno slang con cui negli anni ’70 venivano chiamati gli album musicali in vinile (e anche a un negozio di dischi piuttosto famoso proprio della zona della valle di San Fernando). Ancora una volta la musica quindi ha un valore evocativo e comunicativo preponderante, utile per aggiungere credibilità alle suggestioni messe in scena e condirle con un gusto particolare. La colonna sonora, in parte originale e in parte su licenza, è anche questa volta curata da Johnny Greenwood (polistrumentista noto per la sua militanza nella band britannica Radiohead). In questa si nota una volontà molto netta di utilizzare canzoni molto famose delle epoche proprio in funzione narrativa, come accenti che sottolineano il senso di una scena specifica.

In definitiva Licorice Pizza è un film che conferma il percorso argomentativo e narrativo di Anderson nelle personalità americane, nel tratteggiarne i caratteri e nel celebrarne ogni sfaccettatura. Un racconto innamorato di un innamoramento, reso nel modo più consono tanto al suo autore quanto al periodo in cui viene ambientato. Una corsa liberatoria, ridendo e dimenticandosi delle invidie per chi ha una età diversa della nostra ma anzi amandole incondizionatamente.

Luca Parri
Nato a Torino, nel 1991, Luca studia scienze della comunicazione come conseguenza della sua ossessione nei confronti delle possibilità che offrono i mezzi di comunicazione e ha lavorato come grafico e consulente marketing (lavoro che ha fatto crescere esponenzialmente la sua ossessivo-compulsività per le cose simmetriche e precise). Lo studio gli ha permesso di concretizzare la sua passione per i differenti linguaggi dei media, sperimentando con mano l'analisi linguistica e semiotica; il lavoro gli ha dato la possibilità di provare a inserire la teoria nel pratico. Studio e lavoro, insieme, lo hanno portato a scrivere di, tra gli altri argomenti, grafica pubblicitaria, marketing, comunicazione e comunicazione visiva collegata al videogioco.