cartastraccia è il magazine mensile “usa & getta” di Stay Nerd dedicato al fumetto underground, alternativo e alle autoproduzioni.

In questo primo numero esploriamo insieme il significato stesso del fumetto underground e qual è lo stato delle cose.

Non alternativo, non indipendente

Cominciare qualcosa di nuovo da zero è sempre complicato. Perché il rischio di fare un lavoro ridondante, che si perde nello scopo di essere introduttivo per finire poi in un mucchio di un milione di altri lavori tutti uguali e mai abbastanza approfonditi, è sempre molto alto. L’ossessione per il punto di partenza, per quel contenuto che serve da porta d’accesso a un pubblico ampio, è limitante e può portare a un appiattimento generalizzato di tutto quello che riguarda e coinvolge un argomento specifico.

Legittimamente vi starete chiedendo a che cosa serve un preambolo simile in un articolo che dovrebbe parlare di fumetto underground, di autoproduzioni e di tutto quel che gravita intorno a queste realtà, in Italia e nel mondo. Innanzitutto perché, come già largamente detto, voglio evitare che questo primo articolo del magazine mensile cartastraccia diventi l’ennesima guida fine a sé stessa come ce ne sono milioni. Elencare e raccogliere il meglio di qualcosa è uno strumento utile ma poco lungimirante, che racconta davvero pochissimo sia di ciò che si parla che con quale taglio intende orientare il discorso chi scrive.

Secondariamente, ma forse più importante ancora, è una scelta dettata e dovuta proprio in relazione al cosa tratterò qui e negli appuntamenti a venire. In generale nell’arte e nella cultura tutta, parole come “alternativo” e “indipendente” hanno assunto negli anni aspetti e modalità di essere intese decisamente multiformi e stratificate; se non addirittura agli antipodi tra di loro a seconda dell’occorrenza. Diventa quindi piuttosto difficile trovare davvero una definizione univoca e trasversale che possa descrivere il panorama.

Quando si parla di alternativa o di indipendenza, infatti, si presuppone una distanza dal mercato. Questa cosa è sicuramente vera, certamente nobile ma – purtroppo – in un certo senso non totalmente esaustiva. Viviamo infatti in un mondo fatto di nicchie, di pubblici di riferimento e di target e – giocoforza – anche le produzioni più ristrette hanno destinazioni specifiche rappresentate da archetipi di persone. Per questo, più che di indipendenza o di alternativa, ha senso parlare di cultura underground, di etica diy e di autoproduzione. Perché più onesto intellettualmente e più specifico nelle intenzioni: dal sotterraneo per chi frequenta questi luoghi, rifuggendo il consumismo ma con la consapevolezza di avere a che fare comunque con produzioni e target.

“più che di indipendenza o di alternativa, ha senso parlare di cultura underground, di etica diy e di autoproduzione

Fare IN AUTONOMIA quel che altrove non si potrebbe fare

L’etica diy (acronimo che indica l’espressione inglese “do it yourself”, traducibile con l’italiana “fai da te”) nasce tra gli anni ‘70 e gli ‘80 del secolo scorso nelle comunità punk e nelle case occupate dell’epoca. All’interno di essa si celebrava l’anticonsumismo e una logica secondo la quale non era la professione a legittimare una conoscenza ma che qualunque persona potesse raggiungere risultati soddisfacenti in proprio una volta appresi gli strumenti e le nozioni. Tutto ciò aveva come principale obiettivo e arte di riferimento la musica, per la quale band come Black Flag e Fugazi rifiutavano il supporto di distributori e case discografiche autoproducendo tutto quello che potevano: dai dischi veri e propri al merchandise.

Questa etica, negli anni, è ovviamente tracimata anche in altri contesti e media. I centri sociali, le case occupate e i festival underground di tutto il mondo diventano il contesto in cui cresce una cultura trasversale che attraversa le arti: da quella musicale, passando per quella visiva. Incrociandosi con la già esistente realtà della stampa autoprodotta (che, tra gli altri, ha visto nascere realtà fin troppo poco ricordate oggi come l’italiana Frigidaire che ha nella sua sede Frigolandia – e nel relativo archivio – un futuro incertissimo), si forma in modo preciso e identitario quella che oggi possiamo definire cultura underground: derivata dal punk come attitudine, riluttante nei confronti delle logiche della società dei consumi ma ben consapevole di stare creando a sua volta un pubblico.

Questo rifiuto categorico, ovviamente, è anche e soprattutto contenutistico. La volontà di esprimere concetti distanti dall’ordinario e in contrapposizione con esso, arrivando magari anche a contesti più di richiamo ma mantenendo sempre e comunque la propria integrità non scendendo mai a compromessi di editing, di modifica o di (nei casi più estremi) di censura. Di esempi concreti ce ne sono un milione, sia di realtà rimaste volontariamente ai margini che di prodotti che invece hanno sfondato i margini della loro nicchia rimanendo fedeli alla linea.

“Questo rifiuto categorico, ovviamente, è anche e soprattutto contenutistico.

La volontà di esprimere concetti distanti dall’ordinario e in contrapposizione con esso”

THE SHAPE OF PUNK TO COME

Parlando del presente, perché tanto del passato è sempre molto facile riuscire a recuperare cose, potrei citare il lavoro che Chierichetti Editore e Hollow Press compiono in Italia per quanto riguarda l’assoluta integrità e consapevolezza della loro condizione marginale nella quale si crogiolano facendo una bandiera (tanto di contenuti quanto di forma) e, sempre rimanendo in Italia, quanto svolto da Eris Edizioni e Canicola per un lavoro più esteso e che va anche volontariamente a incontrare (e a scontrarsi con) il mainstream ma mantenendo un’integrità morale di fondo molto percepibile.

Questo scenario, poi, si ripercuote all’estero sia editorialmente ma anche in realtà collaterali come eventi o aggregatori. Parlando del primo caso è importantissimo citare l’editore lituano kuš! comics che attraverso la sua rivista š! e gli spillati monografici autoconclusivi mini kuš! sta diventando un vero e proprio punto di riferimento su cui approdare per poter leggere praticamente tutte le firme più in voga della scena internazionale.

Spostandosi al secondo, invece, la situazione diventa leggermente più complicata anche solo riferendosi al nostro paese. Non è notizia nuova quella della progressiva riduzione degli spazi delle cosiddette self area delle fiere del settore più famose, così come il futuro di manifestazioni più strettamente legate all’underground (Borda, Ratatata e AFA! sono solo degli esempi) sia per intenzioni che per spazi ospitanti diventa ogni giorno più incerto.

Incertezza che, poi, sta diventando anche di approcci. I collettivi, vera linfa vitale di auto-determinazione e gestione, stanno via via abbandonando sempre più quella spinta antisistema che preponderava a livello contenutistico (e quindi quel “pubblicare quel che non potremmo altrove”) in favore di una generica e generalizzata omologazione verso ciò che normalmente si trova nelle case editrici più famose. Si assiste quindi a un meccanismo che anziché voler essere alternativo diventa collaterale, non più una contrapposizione ma quasi una rampa di lancio con cui si spera di accedere ai piani alti.

Luca Parri
Nato a Torino, nel 1991, Luca studia scienze della comunicazione come conseguenza della sua ossessione nei confronti delle possibilità che offrono i mezzi di comunicazione e ha lavorato come grafico e consulente marketing (lavoro che ha fatto crescere esponenzialmente la sua ossessivo-compulsività per le cose simmetriche e precise). Lo studio gli ha permesso di concretizzare la sua passione per i differenti linguaggi dei media, sperimentando con mano l'analisi linguistica e semiotica; il lavoro gli ha dato la possibilità di provare a inserire la teoria nel pratico. Studio e lavoro, insieme, lo hanno portato a scrivere di, tra gli altri argomenti, grafica pubblicitaria, marketing, comunicazione e comunicazione visiva collegata al videogioco.