Mutanti e mutamenti: il successo degli X-Men, paladini del cambiamento

essuno sa chi siano i mutanti. Questo si sentì dire Stan Lee quando, nel 1963, propose un nuovo gruppo di personaggi all’editor in chief della Marvel Comics, Martin Goodman. Non un rifiuto, ma un’imposizione. Quella di attuare un cambiamento al nome della sua nuova creatura in qualcosa di più immediato, più commerciale: non più mutanti, ma X-Men.
Non deve essere stata una pillola facile da mandare giù tanto per il Sorridente quanto per il suo sodale dell’epoca, Jack Kirby. Entrambi non amavano ingerenze di alcun tipo, figurarsi qualcosa di enorme come il cambio del nome della testata. Eppure, quella X che suscitò parecchie perplessità nel Re, fu proprio ciò che fece la fortuna dei mutanti.

Quella che sembrava una testata nata sotto una cattiva stella, mero tentativo di replicare alla fortuna della Doom Patrol della DC Comics, si sarebbe imposta nel cuore dei fan. Gli X-Men dimostrarono, nel corso dei decenni, non solo di saper cogliere lo spirito del tempo, come altri fumetti Marvel, ma anche una eccezionale capacità di adattamento, trovando sempre il modo di vivere al meglio il periodo storico di pubblicazione e dare ai lettori qualcosa di attuale.

La fortuna degli X-Men getta le radici nella miseria umana. Emarginazione, discriminazione, razzismo. L’incapacità della nostra società di superare tutto questo ha fatto sì che Charles Xavier e i suoi ragazzi continuassero a essere personaggi al passo coi tempi. Sognatori di un eterno ideale di convivenza pacifica con l’Homo Sapiens. Un ideale che per noi, esseri umani e lettori di fumetti, è un mondo dove non si possa più essere discriminati ed emarginati solo per ciò che si è.

Gli X-Men sono anche questo: una metafora del diverso, di ciò che ci rende unici ma anche oggetto di odio da parte di altri. Proprio tale aspetto, ha reso il fumetto di Lee e Kirby un perfetto veicolo per parlare di diversità. Oggi ancor più di ieri, in un mondo in cui il ricordo dell’isolamento è ancora fresco e dove conflitti di ogni tipo mettono uno contro l’altro gli individui, minando le basi stesse della società.

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Una croce sulla segregazione

Quando il primo numero di X-Men fece la sua comparsa nelle edicole degli States era il 2 Luglio del 1963. Per l’epoca era un titolo coraggioso, considerato che gli anni sessanta erano il periodo di massimo splendore della Comics Code Authority, quando la censura dominava il fumetto e tanti (troppi) erano gli argomenti vietati perché considerati scabrosi. E la diversità, in quel contesto, era uno di quegli argomenti. Un tema delicato, ancor più difficile se pensiamo che quelli erano gli Stati Uniti della segregazione razziale.

Parlare di diversità era parlare di discriminazione, e farlo così apertamente, nel 1963 poteva equivalere a un suicidio editoriale. Più della metà degli Stati americani applicava leggi discriminatorie e vedeva le diversità con sospetto. Non solo quelle legate al colore della pelle, sia chiaro. Gli anni Sessanta erano il periodo in cui anche gli omosessuali, le donne e i disabili iniziavano a far valere la propria voce. Ma la società americana, ancora legata a doppio filo all’epoca del conformismo, non sembrava voler ascoltare queste istanze egualitarie.

Come spesso accaduto nella storia umana, la scelta più comune da parte del popolo era quella di nascondere i problemi sotto il tappeto. Porli lontani dalla vista e, quindi, dal cuore. Segregarli. Difficile credere che Stan Lee e Jack Kirby non osservassero gli eventi in moto in quegli anni. Più plausibile è pensare che il Sorridente e il Re non fossero del tutto consapevoli di quale meravigliosa macchina stessero mettendo in moto, scegliendo di parlare di una diversità basata sui geni, sulla nascita.

Nati sotto il segno della X

Gli eroi vengono creati. Non nascono. Certo, esistono delle eccezioni. Pensiamo a Martian Manhunter, a Wonder Woman, a Superman. Che, tuttavia, sono personaggi della DC Comics. La Marvel, in quel primo scorcio di anni Sessanta, sembrava prendere una direzione diversa. Ai supereroi della Casa delle Idee il potere veniva imposto: vuoi per un siero del supersoldato, vuoi per dei raggi cosmici, qualche volta per un morso di ragno. E il superpotere portava sempre superproblemi.

Non è un caso che proprio negli anni Sessanta il campo sia pronto per una vera e propria fucina di superumani. Sono gli anni in cui le masse iniziano a conoscere il concetto di DNA, grazie alla vittoria del Nobel da parte di Watson, Crick e Wilkins. Il Sorridente fece subito proprie quelle tre lettere. Nell’estate del 1962 fu creato Spider-Man, portatore del DNA di ragno. Mentre, l’anno successivo, toccò agli X-Men, umani portatori del gene X, “dotati di poteri X-tra“. Ma i ragazzi di Xavier sarebbero stati diversi rispetto agli altri eroi: perché sarebbero nati diversi. Nati con qualcosa che li avrebbe per sempre costretti a essere paria della società. Sarebbero stati emarginati, negletti, odiati e segregati: sarebbero stati mutanti.

Se è vero che gli X-Men nascevano come risposta alla Doom Patrol, altrettanto vero è che il loro ruolo di individui marginalizzati dalla società sarebbe stato accentuato. Ciclope, Bestia, Uomo Ghiaccio, Angelo e Marvel Girl non erano diventati eroi per un bizzarro svolgersi degli eventi. I loro poteri erano affiorati con la pubertà, rendendoli antitetici per i canoni della società. Scott, primo leader della formazione, non poteva rimuovere le sue lenti al quarzo rubino, pena la cecità e l’incapacità di controllare il suo potere. Hank e Warren sarebbero stati costretti a nascondere in eterno i propri corpi. E Bobby, il più giovane del gruppo, era anche quello col potere più difficile da controllare, cosa che lo aveva portato vicino al linciaggio da parte di una folla inferocita.

Insomma, non si può certo dire che il rapporto con i poteri fosse qualcosa di spensierato per gli X-Men come per la Torcia Umana, loro coetaneo nei Fantastici Quattro. E anche rispetto all’Uomo Ragno i mutanti si trovavano in una posizione del tutto diversa: Spidey sceglieva di usare i suoi poteri a fin di bene. Il gruppetto di Mutanti era costretto dal cambiamento subìto a percorrere questa strada.

Non guastava il fatto che il nemico principale del gruppo, Magneto, avesse un’aura grigia attorno a sé. Da un lato i suoi metodi erano certo quelli di un criminale, ma la sua biografia, quella di un uomo sopravvissuto agli orrori dell’Olocausto, portava i lettori a provare una certa empatia per lui. Laddove l’Homo Sapiens aveva miseramente fallito, Eric Lehnsherr sognava che l’Homo Superior potesse creare un’utopia sul pianeta. Un’utopia che avrebbe ottenuto con qualsiasi mezzo e che avrebbe visto lui a capo.

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Diversità e unicità

Se è vero che gli X-Men ottennero un buon successo nei primi numeri di quel torrido 1963, non si può certo dire che la testata macinasse i risultati sperati. Le vendite non erano quelle che la Marvel sperava e i Mutanti, pur con una solida base di appassionati, iniziarono a vivere di ristampe a partire da X-Men #67: non certo il cambiamento in cui speravano Lee e Kirby. Difficile dire cosa fosse andato storto. La cosa più probabile è che la diversità degli X-Men non fosse abbastanza marcata per piacere a un vasto pubblico, ma che fosse comunque troppo per la nicchia di lettori di fumetti, per la maggioranza ancora composta da W.A.S.P.

Per cinque anni, tra l’aprile del 1970 e quello del 1975, gli X-Men non proposero storie nuove. Ma le cose stavano per cambiare. Lee, ormai promosso ai piani alti della Marvel e divenuto editore, credeva ancora nella sua creatura mutante: ordinò quindi un rilancio in grande stile della testata, affidandola a Len Wein.

Tutto iniziò con Giant size X-Men #1. Il concetto di diversità fu qui portato all’estremo. Wein attuò un cambiamento radicale, assemblando un team composto da mutanti provenienti da ogni angolo del globo e rivoluzionando gli X-Men. A Ciclope, unico rimasto del vecchio team, si unirono, l’irlandese Banshee, il sovietico Colosso, il giapponese Sole Ardente, l’apache Thunderbird. Ma, soprattutto, si unirono tre personaggi destinati a diventare un’icona del fumetto con la X. L’africana Tempesta, una delle prime eroine di colore presenti nei fumetti Marvel. Il tedesco Nightcrawler, forse il mutante con l’aspetto più spaventoso mai creato e, proprio per questo, impossibilitato a trovare una collocazione nel mondo. E infine Wolverine, l’eroe destinato a diventare l’icona del genere mutante nel fumetto.

Ulteriore fattore di successo per gli X-Men fu il cambiamento delle dinamiche interne al gruppo di Mutanti. Dopo una prima formazione composta da teenager, il gruppo vedeva al suo interno personaggi più maturi. Scott Summers si trovò così a capo di una squadra dove molti membri erano più esperti e potenti di lui. Con buona pace del vecchio Logan, costretto a obbedire a un ragazzino. Questo rimescolamento delle carte portò a un interesse costante da parte dei lettori, che autori come Chris Claremont seppero mantenere in vita con continue innovazioni. Gli X-Men erano un piccolo mondo nel mondo: un’entità separata ma viva nel mondo degli eroi Marvel, con la loro unicità.

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Tutto scorre, tutto muta

Nel corso degli anni gli X-Men hanno mostrato quanto fosse difficile per alcuni trovare una propria collocazione nel mondo. Genosha, Utopia, New Tian e Krakoa sono solo alcuni dei luoghi dove i Mutanti hanno tentato di creare una propria indipendenza, costituendosi come nazione a sé. Questa scelta da parte degli sceneggiatori della Marvel rispecchia in fondo il nuovo modo con cui il mondo cerca di fare fronte ai problemi, trovando luoghi dove poter nascondere e isolare quelli che considera diversi. Ma dove questi possono anche sentirsi al sicuro, protetti.

La parabola dei Mutanti, in oltre cinquant’anni di pubblicazioni, ha finito per diventare un modo perfetto per raccontare come la razza umana abbia sempre guardato con sospetto le proprie minoranze. E come queste abbiano cercato un riparo, un contesto dove essere libere. Nel tempo l’atteggiamento degli esseri umani è cambiato, e oggi si cerca una maggiore sensibilità verso gruppi di persone le cui sofferenze, un tempo, non avrebbero scaldato i cuori delle persone.

L’ingresso nel team di un nuovo X-Man o di una nuova X-Woman indicava anche lo scorrere del tempo. Nuovi eroi entrarono nelle fila dei giovani dello Xavier Institute, contribuendo a rendere sempre più vario il caleidoscopio delle diversità presenti nel fumetto. Dagli anni Settanta, quando fu Kitty Pride (ebrea praticante e bisessuale) a unirsi al team, fino all’inizio degli anni 2000, quando fu Northstar (primo supereroe della Marvel dichiaratamente omosessuale) a partecipare al gruppo.

Un nuovo membro degli X-Men, ormai, significa anche una nuova minoranza che cerca di emergere, di affermare il proprio diritto ad avere una vita normale, senza dover subire marginalizzazione e pregiudizio. Ma è anche una piccola, per quanto timida, denuncia di quello che nella vita molti, per la semplice appartenenza a una categoria, hanno dovuto subire. Perché in fondo i Mutanti non sono altro che la razza umana. Quel variopinto mosaico di persone, differenze, unicità che rende la nostra specie qualcosa di speciale. Un organismo in costante cambiamento, che i Mutanti e gli X-Men hanno con successo rappresentato nel corso di quasi sei decenni di storie.

Federico Galdi
Genovese, classe 1988. Laureato in Scienze Storiche, Archivistiche e Librarie, Federico dedica la maggior parte del suo tempo a leggere cose che vanno dal fantastico estremo all'intellettuale frustrato. Autore di quattro romanzi scritti mentre cercava di diventare docente di storia, al momento è il primo nella lista di quelli da mettere al muro quando arriverà la rivoluzione letteraria e il fantasy verrà (giustamente) bandito.