4K, 120fps, 100 pollici e 5g: la definizione è un riflesso della classe sociale?

C’è un’errata convinzione particolarmente diffusa nel mondo dell’intrattenimento: che un’immagine rappresenti sempre la stessa cosa, indipendentemente dalla qualità tecnologica con la quale essa stessa viene rappresentata. Il frame che cattura un personaggio di un gioco rappresenta sempre il personaggio stesso, che sia in un formato minuscolo diffuso tramite social, o che sia invece condiviso tra i migliori sistemi di circolazione d’immagini disponibili (come imgur, per esempio). 

Ecco perché quando appare un pop up o c’è un problema con le texture si dice che il gioco ha un problema “tecnico”, e che la macchina che lo sta facendo girare è dunque inferiore a quella che invece rende il tutto fluido, senza alcun intoppo, permettendoci di giocare la versione più “vera” e “migliore” di quel particolare gioco. L’intero concetto di next-gen ruota da sempre attorno a questo tema: una nuova generazione di macchine prestanti e potenti, capaci non solo di permettere nuove conquiste tecnologiche, ma oramai persino in grado di migliorare gli “errori” del passato. Abbiamo infatti assistito alla pubblicazione di decine di remastered negli ultimi anni, basate sulla promessa di “potenziamento” grafico e tecnico dei giochi che avrebbero “migliorato“.

In Harry a pezzi, Woody Allen ci racconta di un personaggio che è fuori fuoco. Lo spettatore vede un Robin Williams che ha un dettaglio molto meno elevato di quello di chi sta intorno a lui, e se ne rendono conto anche gli altri personaggi del film: la moglie gli chiede se sta male, mentre il regista del film dove partecipa come attore gli suggerisce di andare a casa e riposarsi. L’assenza di chiarezza della sua immagine su schermo diventa assenza di chiarezza della sua immagine sociale: Williams, in quanto immagine povera di dettaglio, non può trovare lavoro, e il problema della qualità dell’immagine diventa un problema materiale. Come dice Hito Steyerl in “in difesa della povera immagine“: “In Harry a pezzi, essere a fuoco identifica una posizione sociale di privilegio, mentre essere fuori fuoco abbassa il valore dell’individuo come immagine sociale”.

È curioso che tale riflessione emerga all’interno di un mezzo, quello cinematografico, che ha oramai istituito più di ogni altro il concetto di qualità di dettaglio e definizione come elemento di distinzione tra il “bello” e il “brutto”. In ogni caso, sul tema si è espressa già la stessa Steyerl: “la risoluzione è stata feticizzata come se la sua mancanza comportasse una castrazione dell’autore (nota di chi scrive il pezzo: in realtà, è spesso opposto). Il culto della risoluzione ha dominato persino la produzione di cinema indipendente. L’immagine ricca ha stabilito il suo set di gerarchie, con nuove tecnologie che offrono sempre più possibilità creative di degradarla”. Oggi, i video reali caricati su twitter delle manifestazioni in Cile o a Hong Kong hanno un dettaglio inferiore delle manifestazioni fittizie di Watch Dogs Legion su PS4. 

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Parlavamo di dettaglio su schermo che diventa dettaglio sociale, e quindi materiale. Ci si chiede mai, dunque, quale sia il legame tra la gerarchizzazione elevata dell’immagine ricca con il sistema che la produce? Viviamo in un mondo in cui i mezzi di produzione creativa sono in mano a chi li usa per accrescere capitali d’investimento per nuovi progetti: è il mondo del cosiddetto intrattenimento, ossia un servizio finalizzato a riempire il tempo libero, che non pone alcuna distinzione tra cinema e modellismo, sport e lettura. Tutto ciò ha storicamente contribuito a una lenta e indiretta censura, a un’erosione implicita di contenuti non culturali e/o creativi, a meno che non fossero come minimo anche commerciali.

L’indie, quello vero, teoricamente rivolto alle fasce sociali più emarginate e resistenti rispetto al dominio culturale delle classi più agiate, divenne dunque paradossalmente un affare per pochi privilegiati: bisognava frequentare circoli, organizzazioni, archivi e collezioni private. L’arrivo della povera immagine ha ribaltato tutto questo: servizi di streaming online hanno reso possibile ricaricare film, corti, pellicole e clip un tempo perse, sia in infiniti accumuli senza catalogazione (YouTube), o in sezioni più curate (Ubuweb).

C’è quindi una sottile ma determinante differenza tra il produrre videogioco o cinema popolare, e produrne uno per il consumo: quello di consumo si modella sulla base del target, mentre quello popolare integra autore e giocatore/spettatore. Il cinema “perfetto”, quello tecnicamente immacolato e distribuito senza alcun singhiozzo, per poter essere tale dimostra dunque di essere perfettamente integrato nel sistema, e di non poter rappresentare in alcun modo coloro che dal sistema stesso vengono emarginati o sfruttati. Non è un caso se già nella seconda metà del ‘900 ci sia stato chi ha sperato nella diffusione di un “cinema imperfetto“: un cinema che vive le sue contraddizioni sistemiche, che è capace di mettere in crisi i concetti di autore e spettatore, di lavoro e di creatività, e che nel riconoscere la sua imperfezione non ha paura di essere immagine povera, piena di soluzioni artificiose e di dettagli carenti.

Il mondo videoludico intorno a noi ci conferma questa realtà: da un lato, i nuovi servizi di condivisione e creazione di immagini e dati hanno permesso l’esplosione di un mondo di “non-professionisti”, di creativi e autrici a tuttotondo che usano il videogioco per impegnare il tempo dell’altro in un discorso, e non per occupare il tempo altrui per estrarne valore. Se si pensa ai titoli che hanno fatto evolvere il linguaggio videoludico in questi anni, raramente potremmo citare l’immagine ricca di un Tripla A, ma facilmente si potrà elencare una lista infinita di immagini povere catturate da cellulari e vecchi PC.

Al contempo, la povera immagine è tale perché viene facilmente decompressa, rimodellata e ricondivisa, ma soprattutto perché perde la sua aderenza con un dispositivo specifico e con un autore predefinito, e ciò ha generato fenomeni positivi ma anche terrificanti di riappropriazione dei significati (si pensi al famosissimo caso di Pepe the Frog), e in un certo senso ha contributo a legittimare un consumo ancora più vuoto e istantaneo delle immagini stesse. D’altronde, come ci racconta la seconda stagione di The Boys così come la realtà stessa, oramai le campagne mediatiche della politica si giocano sulla povera immagine del web, e non sulla ricca immagine degli schermi 4K.

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In tal senso, il videogioco mantiene sempre un carattere di riappropriazione e ricondivisione, che sia in alta o in bassa risoluzione: i Let’s Play, le mod, le traduzioni amatoriali e i montaggi dedicati intervengono quasi sempre sul prodotto originale, modificandolo. Il punto è quanto sia facile avviare questi processi su hardware dal valore elevato, e quanto invece su dispositivi più poveri: se giocassi The Witcher 3 sulla condivisione senza DRM di un amico che l’ha comprato su GOG, e lo avviassi a settaggi minimi e senza effettistica, probabilmente quell’amico mi direbbe che sono un “paesant“, e che lui che l’ha giocato col Ray Tracing è invece un membro della “master race“, la razza superiore. Vedi, a volte, come il linguaggio aiuta a inquadrare meglio le cose.

Come ricorda la stessa Steyerl nella sua riflessione di qualche anno fa, ciò che è accaduto alla povera immagine rispecchia quanto avvenuto con l’arte concettuale e con l’installazione artistica: inizialmente pensata per perdere la sua materialità e la sua chiara visibilità, e quindi per non poter essere rivenduta o trasformata in merce (si pensi al recente caso di Banksy), il sistema ha trovato il modo di trasformare in prodotto il concetto stesso rappresentato, rendendone il consumo ancora più ampio. Come dice Steyerl: “da un lato, la povera immagine opera contro il feticismo del valore dell’alta risoluzione. Dall’altro, proprio per questo motivo si integra perfettamente in un sistema informativo basato sul comprimere la capacità d’attenzione, sull’impressione rispetto all’immersione, sull’intensità piuttosto che sulla contemplazione, sulle anteprime rispetto all’effettiva rappresentazione”. Un mondo più interessato alle preview che al gioco effettivo: vi ricorda qualcosa?

L’immagine povera non è dunque né intrinsecamente positiva né negativa, ma ha invece un pregio innegabile: è radicata nella realtà collettiva, è prodotto e al contempo produce la società stessa. “L’immagine povera è provocazione e appropriazione tanto quanto è conformismo e sfruttamento. In breve: l’immagine povera riguarda la realtà“.

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Bordieu diceva che: “Essere in grado, come lo sono i membri della classe dominante, di contemplare un’opera d’arte al solo livello della forma (prescindendo dalla sua funzione e utilità pratica) significa essere capaci di stabilire una “rottura” rispetto al mondo ordinario: la disposizione estetica presupposta dalla teoria estetica pura viene così a delinearsi come parte di una più ampia, generalizzata capacità di mettere tra parentesi il regno della necessità materiale, dell’esistenza quotidiana, che coincide con l’esperienza “borghese” del mondo. […] È solo nella reintegrazione dei domini tra loro separati e tenuti (non a caso) ben distinti della cultura alta (o legittima) e di quella “popolare”, e quindi nella reintegrazione dei consumi estetici (la lettura, l’ascolto) in quelli comuni (il mangiare, il fare sport) che può identificarsi la logica sociale che presiede ai consumi, a tutti i consumi, quella logica che fa del gusto che in essi si esprime una vera e propria “arma sociale”, o meglio, una forma di violenza simbolica perpetrata dai forti (classe dominante) a danno dei deboli (classi medie e popolari).”
È proprio per questi motivi che quando vedo i dibattiti sulla risoluzione tecnica (immagine ricca) in quanto tale mi deprimo visceralmente: la capacità di contemplazione pura dell’arte è stata sistematicizzata come uno stadio ulteriore del consumo, che prevede che quest’ultima avvenga anche con modalità specifiche spesso escludenti nei confronti di chi magari ha il capitale culturale per contemplarle, ma non quello materiale, come ci suggeriscono i concetti di esclusiva e di perfezione tecnica. E dunque, mentre i teorici appassionati si strappano le vesti per qualche fps in più, e il dibattito critico su questioni reali viene spesso schiacciato dall’apatia dei fan, la povera immagine (anche videoludica) impazza nel mondo, intervenendo e venendo plasmata dalla realtà. Quando decideremo di abbandonare i nostri scranni celesti e ridiscendere tra i comuni mortali, forse ci renderemo conto che la “next-gen” non tecnica ma culturale sta già avvenendo, e ci chiede di prenderne parte attiva.