Jordan Peele torna al cinema con Nope, un ibrido tra sci-fi e horror che sa intrattenere alla grande

nope peele

Sul fatto che Jordan Peele sia uno degli astri del cinema statunitense contemporaneo ci sono pochi dubbi. Un regista e sceneggiatore già premio Oscar per Get Out – che di questo cinema americano dell’oggi traccia un prima e un dopo -, capace di fare con i suoi lavori teorema all’interno della cornice di genere. Teorema che non rimane avviluppato nelle corde delle sue formulazioni, ma anzi sa pagare, e bene, pure al botteghino, scia confermata anche con il debutto di questo singolare oggetto d’intrattenimento che è Nope, in apertura del primo weekend USA con 44 milioni di dollari.

Una creatura, questo Nope qui, che a partire dalla sua enigmatica natura di ibrido western-sci-fi-horror-thriller esce in parte fuori dal seminato di un percorso narrativo che Peele aveva ben piantato nella sintassi politica sulla condizione del nero in America. Sicuramente con il brillante, millimetrico e ironico Get Out, seguito poi da un Us dalla grana più grossa, ma pure con tutta una feconda e intensa attività produttiva, anche seriale.

nope peele

Se in parte il terzo rintocco nelle aspettative chiamava quindi a sé l’idea di un’ipotetica trilogia militante, Nope si scrolla di dosso la necessità di farsi altro al di sotto di quel che mostra. Non che voglia esaurirsi in un pugno di mosche, tutt’altro, ma è proprio un western-sci-fi-horror-thriller che convoglia tutto nell’atto della visione, nell’attesa della visione di un qualcosa, di un oscuro scrutare in mezzo a quelle nubi dove, chissà, magari si sta celando l’ignoto.

Mentre Peele sembra voler depistare, piazzare qui e lì false traiettorie per l’accesso a questa riflessione o a quel significato da indagare, Nope le utilizza come specchi per le allodole cogliendo l’occasione per planare in una valle californiana piena di incertezze, dove OJ (Daniel Kaluuya), che sta per Otis Junior, ed Emerald (Keke Palmer) Haywood possiedono un’attività d’allevamento di cavalli per uso cinematografico e televisivo. Affermano di essere i pro-pro-pro nipoti del fantino nero, di cui nessuno conosce mai il nome, che cavalcava il cavallo nelle prime immagini in movimento catturate dall’inventore Eadweard Muybridge sul finire del 1800. In qualche maniera, insomma, la famiglia (che è pure quella nera, ma qui inizia e finisce la questione) è nel business sin da quando esiste.

In questo assolato ranch però succedono cose strane. Prima una strana pioggia di oggetti metallici uccide Otis Senior (Keith David), poi si verificano sempre più spesso improvvisi sbalzi di corrente. Gli animali reagiscono male, alcuni scappano, altri non si ritrovano. OJ ed Emerald guardano all’orizzonte come farebbero i migliori protagonisti del cinema di Steven Spielberg (che in Nope c’è dai fuori campo di Jaws agli alieni celati di Incontri ravvicinati del terzo tipo), mentre una nube, tra quelle nubi che si addensano sul crinale attorno alla valle, ha una storia da raccontare tutta sua.

nope peele

E la prima ora di Nope è una fine operazione di accumulo delle aspettative, di lenta e attenta semina giocata con il gusto di chi sa di star mettendo in scena il topos del gatto col topo. Peele è divertito, sogna in grande il suo terrore a occhi aperti e respira a pieni polmoni da una libertà creativa che gli permette di attingere a palate da un immaginario precostituito. C’è tutto quello che serve per spingere in avanti: i cavalli (la cinetica), il campo aperto e brullo (dove far sprigionare quella cinetica), il disco volante (la propulsione all’evento). Un film costituito in tutte le sue parti per farsi motore intrattenitivo, macchina spettacolare che salta indietro, scarta di lato, offre spunti e crea diversivi che però rimangono strumenti interpretativi interni, non escono mai al di fuori della cornice di questo hic et nunc, non vogliono aprire al dibattito da enunciato.

C’è anche qualcosa che forse inciampa un pelo di troppo quando rimane nel mezzo tra l’utilità e il generare dubbio, come per il Ricky “Jupe” Park di un sottoutilizzato Steven Yeun. La vicenda che lo lega allo scimpanzé killer Gordy è a suo modo terrificante, ma si prende troppo spazio nel momento in cui è leggibile come chiavistello metaforico (sempre nell’economia interna del film) nei confronti dell’approccio questo UFO nascosto lassù, e troppo poco come discorso a sé stante.

Con lo scattare della seconda metà, e a partire da un “Nope” che è dichiarazione d’intenti della preda nei confronti del predatore, il film si fa manifesto, ancora più diretto, ancora più impattante. Si galvanizza nella confezione affascinante che l’autore gli cuce addosso, perché di fascino il film ne ha da vendere, dove certi meccanismi da cultura cinefila si innescano e disinnescano in funzione di questa caccia all’oggetto non identificato, come ad esempio l’eterno e romantico scontro tra digitale e analogico o la disperata ricerca della “ripresa impossibile”, messa anzi da Peele alla berlina come l’ossessione di un bianco che tiene più a quella che a salvare la pelle.

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Ecco, se proprio vogliamo trovare a Nope un ragionare che vada di pari passo alla squisita fattura da western-sci-fi-horror-thriller che scalpita, intriga, incolla alla poltrona, c’è la dualità di un film fatto per essere ammirato (gran parte del lavoro la fanno la splendida fotografia di Hoyte van Hoytema e un sound design da capogiro, Johnnie Burn), dal quale non possiamo staccare gli occhi o esimerci dal cercare la creatura aliena quando però in primo piano uno stralunato, e sempre perfetto, Kaluuya deve distogliere lo sguardo per non fare una brutta fine.

Eco che riverbera sul prurito del voler guardare e consumare a ogni costo, sintomo della malattia di un’era in cui dell’immagine, anche la più terribile e scioccante, è fatto uno show dal quale non sappiamo tirarci fuori? Sì, ci può stare, ma ancora una volta è un esercizio d’accademia, parte minore di un sistema che conferma il talento di Peele di prendere il noto, anche cinematografico, e rovesciarlo in seno alla weirdness, all’ironia, alla tensione di un ottimo cinema che alla ricerca della qualità affianca il cartone di popcorn.

Alessio Zuccari
Laureato in Arti e Scienze dello Spettacolo all'Università Sapienza di Roma, al momento prosegue lo studio accademico del mirabolante mondo del cinema. Nel fare equilibrismo tra film, videogiochi e serie TV, si interessa pure attivamente alla sfera della critica cinematografica facendo da caporedattore per la webzine studentesca DassCinemag e autore all'interno delle redazioni di IGN Italia e StayNerd. Crede in poche cose, una di quelle è la Forza. This is the way.