Tre testimonianze raccolte e documentate da Marco Rincione

1. Testimonianza di Anita Torresi, figlia del paziente

Sospettavo che una cosa del genere sarebbe accaduta, me lo sentivo. Sin dall’inizio sentivo che qualcosa sarebbe andato storto perché, se sborsi così tanti soldi in una sola volta, è normale che… No, non voglio dire stupidaggini. Il problema non sono i soldi, quelli li ho spesi con tutto il cuore. Ma non sono sorpresa. Sono solo distrutta.

L’operazione mirror è andata bene, se così si può dire. Al modico prezzo di 125.000€, abbiamo avuto il privilegio di sperimentare l’ultima trovata del progresso scientifico in campo medico. Non ho marito, non ho figli: quei soldi erano per me, e non ci ho pensato un istante a dilapidare il frutto di anni di carriera per mio padre. Pur sapendo che non avrebbe risolto nulla.

Ce ne avevano parlato. Mio padre non è mai stato d’accordo con quest’idea, continuava a dire che si trattava soltanto di una perdita inutile di denaro, dato che la terapia (anche così viene chiamata) non avrebbe avuto alcun impatto sull’evoluzione del tumore. E il dottore me l’aveva detto che mio padre si sarebbe opposto, ma io ho continuato su questa strada perché è mio padre, è l’ultimo che mi è rimasto e sta per andare via, e non volevo vivere gli ultimi mesi della sua vita vedendolo precipitare in un dolore che non smette di mangiarlo!

L’operazione mirror era la soluzione migliore e mi sono lasciata convincere a spendere tutti quei soldi. A mio padre ho detto una bugia, gli ho detto che sarebbe stata quasi gratuita grazie al mio posto di lavoro ma non è così. La pagherò fino all’ultimo centesimo, anche dopo la sua morte che ormai sta per arrivare.

E lui soffre! Non dovrebbe soffrire, no! Dovremmo essere insieme, dovremmo potere godere di questi ultimi momenti insieme con gioia e tranquillità, andare al mare, a pranzo fuori insieme… E invece rimane a letto mentre la malattia prosciuga il suo corpo. L’operazione mirror è stata interrotta. Lui l’ha interrotta, e il medico dice di non poter fare nulla. Neanche io che ho sborsato i soldi posso farci nulla, è la volontà del paziente. Forse mi dimezzeranno il costo ma ormai non mi interessa più…

So che è stata colpa mia. Se non mi avesse sentito urlare, quella sera, se non avesse visto la mia sofferenza, non avrebbe cambiato idea. Ho provato a chiarire il mio comportamento, a dirgli esattamente come stanno le cose ma per lui è troppo tardi. Dice che il dolore che gli è stato tolto non può scomparire. Non capisce come mi sento, non capisce quel che voglio…

Rivoglio mio padre. Rivoglio la nostra vita insieme.

Se potessi, pagherei la stessa somma un’altra volta, se questo bastasse a convincerlo. Convincerlo a tornare da me, per gli ultimi giorni.

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2. Testimonianza del dottor Saverio Buglio, oncologo specializzato nel trattamento «mirror»

Il trattamento mirror – «trattamento» è la parola corretta, preferibile a termini quali operazione o terapia, dato che né l’una né l’altra hanno luogo – è l’avanguardia della medicina sperimentale nell’anno 2168. Non è un trattamento che riguarda esclusivamente l’oncologia; anzi, direi che è estendibile a tutte le branche della medicina anche se, in modo comprensibile, essa trova maggiore applicazione nei casi di malattie gravi dalle quali non è possibile guarire e che, in buona percentuale, costituiscono anche causa di morte.

Il trattamento mirror non è una cosa originariamente medica o chirurgica, come si può facilmente vedere. Essa è il frutto di decenni e decenni di ricerche combinate nel campo dell’ingegneria umana e della psicologia cognitiva e della percezione, e la medicina è solo uno dei tanti settori della sua applicazione. Tuttavia, esso è l’unico settore aperto alla fruizione del pubblico, almeno per il momento.

Provo a delineare in breve in cosa consiste il trattamento, evitando tecnicismi. In medicina, il trattamento mirror prevede la messa a punto e l’attivazione di un individuo artificialmente costituito in grado di assumere e assorbire sulla propria base materiale i sintomi e le problematiche legate alla patologia. Inizialmente, questo individuo era poco più di un manichino inespressivo, incapace di mostrare gli effettivi segni della malattia; in più riprese, però, esso ha subito un’evoluzione antropologica. In altri termini, è diventato somigliante all’individuo umano vero e proprio, fino a giungere a modelli di realismo quasi indistinguibile.

L’unità rigida è capace di riflettere su di sé i sintomi e le problematiche legate alla malattia (per questo si chiama mirror, che vuol dire, appunto, «specchio») e, grazie a una sofisticata tecnologia della psicologia cognitiva, si è riusciti a far sì che, tramite questa rifrangenza dei sintomi, il malato non subisca gli effetti dolorosi dell’evoluzione patologica. Nei primi modelli l’assorbimento dei sintomi era invisibile, dato che si trattava di esseri rigidi e inespressivi, ma adesso questi manichini antropomorfi soffrono proprio come i malati (si tratta di una simulazione, ovviamente, e non di effettiva percezione).

Se da una parte il trattamento mirror ha permesso a diversi casi di malati terminali o cronici di vivere una vita perfettamente normale, come se non fossero assolutamente malati, esso non può in alcun modo essere considerato una terapia e non porta a nessuna guarigione: la malattia fa il suo corso, normalmente, ma lo fa nella sua implementazione mirror. Questo significa che, raggiunto uno stadio di disabilità mortale, il decesso sopraggiunge ugualmente al corpo del paziente. Certo, in uno stato asintomatico e indolore.

Il lato negativo del trattamento mirror è che, una volta effettuata l’implementazione, non è più possibile condurre alcuna terapia sulla malattia. Ecco perché solitamente il mirror si applica solo ai casi di malati terminali o comunque disperati. Alcune applicazioni in neurofisiopatologia, per esempio, hanno condotto alla morte (indolore, certo) di pazienti che, con una terapia adeguata, avrebbero potuto vivere ancora parecchi anni. Ma è comprensibile la voglia di vivere di meno senza sintomi rispetto a una vita più lunga ma sovraccaricata da disabilità.

Prima di parlare del caso del signor Torresi e di sua figlia Anita, voglio spendere altre due parole sull’aspetto meramente psicologico del trattamento mirror.

La domanda più gettonata è: perché era necessario raffinare la tecnologia della somiglianza e rendere il manichino-mirror simile a un essere umano anche nella caratterizzazione del dolore? Allora, non è proprio sempre esattamente così. È possibile, secondo volontà del paziente, non venire assolutamente a contatto col mirror: si può ignorare del tutto la sua esistenza e lasciare che esso subisca la patologia all’interno del Mirrorium, un «ospedale» adibito alla sola permanenza di unità mirror. In questo caso, il manichino non deve necessariamente essere troppo accurato, e il prezzo rimane accessibile a più persone.

In un numero limitato di casi, però, c’è l’esplicita volontà di venire a contatto con la malattia, come se essa si incarnasse nel mirror (ovviamente, non è assolutamente così; al contrario, al massimo è il malato che viene trasfigurato). Per questo si richiede un esemplare dalla forma accurata e dettagliata, e tale manichino viene noleggiato dal paziente o dalla sua famiglia fino al momento del decesso.

Il paziente e la famiglia non sanno che il loro comportamento nei confronti del mirror viene registrato, documentato e analizzato, ai fini di una costante ricerca psicologica. Ecco, nel 68% dei casi, il mirror, oltre a dover subire i sintomi legati al corso della malattia, è vittima di maltrattamenti feroci e profondamente crudeli da parte del paziente o della sua famiglia: essi lo considerano la malattia stessa, lo incolpano di tutto il dolore che ha causato loro, di aver distrutto la loro vita, eccetera eccetera… Un copione molto gettonato. Solo il 21% mostra compassione, comprensione, pietà e, in alcuni casi, persino affetto nei confronti del mirror. Il resto è indifferente o non desidera portare con sé il mirror.

Il signor Torresi appartiene a una sottopercentuale di quel 21%. Dopo due mesi dall’attivazione, il signor Torresi, la cui malattia è ormai allo stadio finale, ha deciso di recidere il legame con il mirror ottenuto grazie al finanziamento di sua figlia, Anita. In verità, posso ben affermare che sia stata quasi esclusivamente la signorina Anita a volersi affidare al mirror, e precisamente a uno dei modelli più avanzati e più antropomorfi. E, com’è stato confermato e registrato, la signorina Anita Torresi ha sempre trattato il mirror come una personificazione del cancro che sta uccidendo suo padre.

Renato Torresi, 59 anni, è diverso da sua figlia. Si è quasi subito opposto al trattamento mirror, sebbene esso presentasse vantaggi innegabili per una persona nella sua condizione. Credo che abbia accettato solo per far felice sua figlia, e posso comprenderlo. Dopo la firma del contratto, si ha diritto a tre settimane di prova entro le quali è ancora possibile recidere gratuitamente il legame col mirror, dopodiché non è più prevista la possibilità di rimborso. Consapevole di questo, Renato Torresi ha tuttavia chiesto di interrompere il legame.

Ma non solo: non vuole semplicemente tornare a soffrire i dolori della malattia che lo sta uccidendo, vuole che il manichino-mirror rimanga con lui fino al momento finale. Insomma, come dicevo prima, il signor Torresi appartiene a un gruppo ristrettissimo di persone che, commosse dal dolore simulato del mirror, ne chiedono la liberazione. Sembrerebbe in sé una cosa assurda, e invece tutti gli psicologi sono concordi nel ritenere che anche una decisione del genere sia un bene per la psiche di un malato terminale. Ed è innegabile che, anche se preda di dolori tremendi, il signor Torresi sia adesso in pace con la sua condizione.

Sua figlia Anita crede che sia stato commesso un illecito e intende rivolgersi al suo avvocato. Rischia di spendere molto di più dei 125.000€ che dovrà pagare, se devo dare la mia modesta opinione.

Comunque non credo che il trattamento mirror sia una procedura adatta a tutti, e sarebbe bene togliere al pubblico la possibilità di usufruirne. Questo è il mio parere da medico, uomo di scienza che conosce anche i limiti della propria natura.

Il dolore appartiene alla nostra vita, in ogni forma.

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3. Testimonianza di Renato Torresi, paziente

Il dolore ci appartiene.

Anita non vuole capire questa semplice verità, non riesce a credere che dietro alla decisione di interrompere il trattamento non ci sia alcun interesse indotto dall’alto o complotto. Si tratta della mia volontà, e voglio che questo sia chiaro a tutti. Per questo ho deciso di rilasciare questa testimonianza.

L’idea del trattamento mirror, inizialmente, mi piaceva. Sapevo che sarei morto presto e avevo paura. Sapevo che non c’era alcuna via d’uscita, ma la paura più grande era quella del dolore. Dico «era» perché adesso non lo è più. Non credo.

È stata Anita, mia figlia, a parlarmene per la prima volta: voleva convincermi a sottopormi al trattamento. Ho detto subito di no. Sembrava tutto molto bello, lo ammetto, poter vivere quel che mi rimaneva senza essere costretto a stare a letto mentre il dolore mi mangiava la testa. Ma perché scialacquare tutto quel patrimonio per una cosa che comunque non mi avrebbe salvato? Se fossero stati soldi miei, avrei avuto più libertà… Ma Anita ha deciso per me. È riuscita a convincermi con una bugia, mi ha detto che le sarebbe costato poco grazie a una promozione che non ho capito… e ho detto di sì.

È stato bello.

Dopo aver vissuto per oltre sei mesi in casa di mia figlia, dato che non ero più capace di badare a me stesso, sono potuto tornare a casa mia. Il mio appartamento, lì dove avevo i miei ricordi. Una gioia immensa, indescrivibile. E in quel momento ho pensato di aver fatto bene a dire di sì. Ogni notte, prima di andare a letto, telefonavo ad Anita per dirle grazie. Anche se sentivo che il problema non era stato risolto, che nel giro di poche settimane sarei comunque deceduto, adesso ero vivo e avevo l’ultima occasione.

È stato così per alcune settimane. Un lasso di tempo in cui oscillavo tra il sentirmi vivo e il sentirmi già sepolto. È strano vivere col pensiero che potrebbe essere l’ultimo giorno. Forse il dolore serve a qualcosa, mi sono detto. Cominciavo a capire che ci fosse un senso nel soffrire, poco prima della fine. Bei discorsi, d’accordo, ma non ho pensato minimamente di interrompere la connessione col mirror solo perché stavo facendo un po’ di filosofia.

Pensavo di volerne parlare con mia figlia, e così sono andato a trovarla senza preavviso. Era stata lei a firmare il contratto per il trattamento, io non sapevo bene tutti i dettagli. Sapevo – così mi aveva detto – che il cancro avrebbe continuato a divorare un robot o qualcosa del genere, risparmiandomi i dolori. Fino al momento finale, ecco, poi lì avrei ripreso il mio ruolo, giusto in tempo per morire. Sono andato a trovare mia figlia, dicevo, e lì ho visto qualcosa che…

No, con ordine. Altrimenti non si capisce perché io abbia preso questa decisione.

Anita gridava. Gridava come un animale, la sentivo a metri di distanza dalla casetta isolata in cui abitava. Gridava di rabbia, ce l’aveva con qualcuno. Qualcuno che, stando a quanto diceva, aveva distrutto la sua vita, la mia vita, la nostra vita. Una rovina totale, una disgrazia inevitabile… e un mare di parolacce. Parlava al telefono o con qualcuno in carne e ossa? Ero preoccupato.

Mi sono avvicinato alla casa, l’ho chiamata e… come se non fosse accaduto nulla, Anita mi ha aperto la porta sorridente. Le ho chiesto con chi ce l’avesse e perché fosse tanto arrabbiata e non ha voluto dirmelo. Cristo, che assurdità! Sono entrato di corsa in casa. Ha provato a fermarmi ma sono entrato in quella stanza e…

Che assurdità!

Che cos’era quella cosa? Quell’omino di plastica con la faccia addolorata, gettato per terra, raccolto su se stesso come se una lancia gli attraversasse lo stomaco. Abbandonato sul pavimento del ripostiglio in cui l’ho trovato.

Le ho chiesto che cosa fosse. Si capiva che non era un vero essere umano ma la somiglianza non era trascurabile. L’espressione sofferente sul suo volto non sembrava… non poteva… io sapevo che cos’era! Il mio mirror. Anita possedeva il mio mirror e lo stava giustiziando, per esorcizzare il suo dolore.

È stata una brutta lite. Anita continuava a difendersi, dicendomi che si trattava soltanto di un pupazzo privo di percezione. Insomma, che non stava soffrendo veramente, non dovevo prenderla così male! E lei, sì, lei esagerava un po’, ma dovevo pur comprendere la sua situazione, la sua tristezza, il suo dolore…

Quel dolore di cui mi ero liberato era ancora lì. Non se n’era andato. Nessuno ci aveva ridato la felicità che la malattia ci aveva strappato, e questo Anita lo capiva benissimo. Ho visto che stava accadendo qualcosa di assurdo. Il trattamento mirror era un inganno, una bugia: non mi vendevano solo una fine senza dolore. Volevano vendermi anche una vittima sacrificale, un feticcio su cui scaricare la mia ira. Per vendicarmi.

Anita voleva vendetta per la sofferenza che è costretta a subire.

Ci ho pensato a lungo e, infine, ho deciso di tagliare tutto. Il trattamento mirror si sarà anche rivelato funzionale, ottimo e appropriato per centinaia di malati terminali, ma non è il mio caso.

Chi vede soffrire le persone che ama si riempie di odio. Lo capisco. Ma se avevo accettato di sottopormi all’operazione mirror, era perché volevo dimostrare ad Anita il mio amore. Volevo regalarle gli ultimi giorni con l’illusione di una gioia che non c’era, non darle la possibilità di concretizzare il suo odio verso qualcosa che non c’è.

Una malattia cattiva che mi odia. Non c’è una cosa del genere.

Ci sono solo io, io che vado a rotoli. Io che mi distruggo perché il mio corpo impazzisce fuori dal mio controllo. Voglio che Anita rimanga insieme a me mentre mi spengo.

Una cosa credo di averla imparata. Ho fatto pace con me stesso, con la rabbia e la frustrazione del mio dolore. È successo tutto nell’istante in cui ho visto quegli occhi finti colmi di disperazione. Era la mia disperazione, sul volto di un uomo di plastica. Ma lì la rabbia non c’era. Per questo ho chiesto al dottor Buglio di non disattivare il mirror. Voglio rivederlo, voglio vederlo felice, guarito. Accanto a me.

Voglio dirgli che mi dispiace. Mi dispiace se questo mondo ha iniziato a perdere il suo senso, se alcune cose assurde sono diventate normali. Come è assurdo il fatto che io provi affetto verso una cosa che non vive, un macchinario costruito solo per ingannarci.

Ma è così che voglio andare via. Voglio morire nel dolore che mi appartiene. Non voglio, ma devo.

Forse sarà più bello il ricordo che lascerò di me su questa terra grigia.

***

Renato Torresi è morto il 31 luglio 2168. Secondo il referto del dottor Saverio Buglio, il paziente è trapassato in una condizione di dolore lieve e sopportabile, e si è trattato di un decesso, per quanto improvviso, clinicamente assistito.

Al momento del decesso, Anita Torresi non era presente. Si trovava nello studio legale del suo avvocato, per iniziare le pratiche del processo contro l’azienda ospedaliera presso la quale era in cura suo padre e, in particolare, contro il dottor Buglio, che aveva assistito il signor Torresi durante il trattamento «mirror». A detta della signorina Torresi, il trattamento avrebbe impedito un possibile miglioramento dello stato patologico, miglioramento che sarebbe stato taciuto intenzionalmente.

Soltanto una persona era presente nella stanza in cui era ricoverato il signor Torresi, quando questi è deceduto. Il dottor Buglio riferisce che costui abbia lasciato la mano del paziente solo un minuto dopo il decesso.