Sembra che dei vichinghi non ne abbiamo mai abbastanza. Ma forse è il momento di voltare pagina

vichinghi tv

iciamocelo: anche basta con i vichinghi. Nel senso, non siamo qui a nascondere sotto il tappeto un’innegabile fascinazione per quel popolo facilmente irascibile fatto di nerboruti dalle lunghe trecce e vergini guerriere. Così come non possiamo ignorare la densa cultura norrena legata a doppia mandata a una mitologia affascinante tanto quanto quella di matrice ellenica, ricca di un pantheon variopinto e predisposto alla perfezione per essere rappresentato e consumato come prodotto d’intrattenimento.

Gli anni Dieci del secolo in cui siamo immersi fino al collo ce lo hanno dimostrato alla grande. E forse un grande revival nell’immaginario collettivo è stato innescato proprio dall’arrivo di Vikings, la serie a sfondo storico canado-irlandese creata da Michael Hirst e trasmessa da History Channel per sei stagioni. Di storico qualcosa sicuramente c’è, ma ad emergere da un prodotto nel complesso apprezzato e chiacchierato è soprattutto l’elemento mitico e leggendario di un popolo raccontato attraverso le gesta di un suo membro più che illustre, Ragnar Lothbrok. Una figura frammentaria e sfuggente di cui non sono state tramandate fonti certe, tesa a metà tra il racconto popolare e la mescola di più voci o racconti raccolti un po’ qui e un po’ lì.

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Insomma, un terreno più che fertile per instaurare una serie televisiva che potesse prendersi le giuste libertà di trasposizione e che ha conosciuto fortuna in particolar modo grazie all’interpretazione di Travis Fimmel, modello prestato alla tivvù che del personaggio ha capito tutto e vi ci si è calato dentro con la giusta dose di mistero, lussuria e schizofrenia, e alla discreta alchimia con la Lagertha di Katheryn Winnick. Poi Lothbrok esce di scena dopo qualche stagione assieme alla porzione forse più ricca della storia norrena e le redini della serie sono affidate alle gesta dei suoi figli, che però non sembrano mai sapere replicare per carisma e interesse ciò che è venuto prima. Complice un po’ la scrittura sempre più fragile, e un po’ il relativo magnetismo di interpreti come Alexander Ludwig (Bjorn Ironside) o Alex Hogh Andersen (Ivar Senz’ossa).

Una scia questa del mito vichingo, attraversata anche dalla versione più poppettara del Thor della Marvel, che diviene emblematica quando si va a notare come sia stata intercettata anche dal mondo videoludico. Basti pensare dapprima a God of War, il cui ciclo originale si è dipanato con una trilogia (dal 2005 al 2010) radicata a fondo proprio in quella mitologia greca alla quale accennavamo in precedenza, appresso alle avventure dello spietato e tormentato guerriero Kratos. Eppure per il revival della saga, nel 2018, si è scelto di fare il salto nelle regioni scandinave, di abbracciare totalmente quello che era l’unico bacino nel quale poter calare un personaggio che ne aveva già viste di cotte e di crude. Con risultati più che sbalorditivi, a giudicare dall’immensa eco che il ritorno di Kratos ha suscitato nei fan.

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Ma ancora, pure una saga “vagabonda” come lo è sempre stata quella di Assassin’s Creed decide di trasferirsi nel freddo nord del IX secolo – lo stesso periodo della serie Vikings – in occasione di Valhalla (2020). Ci arriva come il terzo capitolo della stagione GDR accolta da AC, dopo essere passati per le suggestive sabbie dell’antico Egitto di Origins (2017) e, guarda un po’, il frenetico mondo ellenico di Odyssey (2018). Anche se questa porzione di periodo storico misto a racconto leggendario pare in grado di poter conservare più che degnamente il suo scintillio, allo stesso tempo sembra però di aver superato da un pezzo il giro di boa per quello che riguarda lo storytelling del mondo dell’intrattenimento audiovisivo che comincia a rimasticarsi, a ripetersi. Forse per questa ragione il freschissimo arrivo su Netflix dello spin-off Vikings: Valhalla (si chiamano pure tutti uguali oramai) decide di fare un balzo in avanti di un centinaio d’anni. La partita appare comunque in procinto non tanto di essere chiusa, ma perlomeno di andare a un time-out. Eppure popoli e periodi storici da riscoprire ce ne sono eccome.

Ad esempio lo abbiamo tirato in ballo qualche riga sopra con Origins, quindi pensiamo proprio a che humus dall’incredibile richiamo è quello del mondo egizio, che per il gusto di chi scrive è anche quello meglio declinato proprio dalla nuova trilogia della fase ruolistica di AC. Un immaginario sfruttato e spremuto a fondo in chiave cinematografica nella fase del peplum (anche se contestualmente al mondo dell’antica Roma), ovvero di quel cinema in costume e a sfondo storico fatto anche di uomini forti alla Maciste sviluppatosi a partire dagli anni Dieci del Novecento e poi riscoperto a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta. Le carte in regola ci sono tutte, dalla buona dose di misticismo a sufficienti dinastie di re e regine (qualcuno ha detto Tutankhamon? Cleopatra? Ma quanti altri…) da andare a estrapolare e convertire in avventure avvincenti e meritevoli di essere raccontate.

Ma attraversiamo l’oceano. Quale opportunità di mettere nel calderone culto e cultura è meglio offerto dall’esplorazione di civiltà come quelle precolombiane degli Inca, dei Maya, degli Aztechi? Quale miglior spunto per affondare le mani e la testa in uno iato dove si incontrano il vecchio e il nuovo, la luce e la tenebra di popolazioni così evolute e decadute prima del tempo? Ci ha provato Mel Gibson nel 2006 con il suo per certi versi estremo Apocalypto, film che si nutre di viscerali grigi che avvolgono culture che il grande pubblico per lo più ignora o di cui sa pochissimo.

Pellicola che si avvicina anche alla vertigine dello scontro epocale con l’arrivo, letteralmente, di un nuovo mondo portatore di nuove istanze e di una nuova brutalità, quello dei Conquistadores che da lì a poco avrebbero fagocitato per conto delle grandi potenze coloniali europee, in primis la Spagna, i barlumi di bellezza e gloria che si celavano nel cuore della giungla. L’invito ai tempi non fu accolto e su questa strada non proseguì praticamente nessuno, nonostante il fascino innegabile dell’approcciarsi a quei luoghi e a quelle storie che nel mondo dell’audiovisivo trovano posto solo come ruderi da esplorare e saccheggiare.

E per un’ultima suggestione perché non rimanere sempre nelle Americhe ma spostarsi un po’ più a nord, dalle parti di quel territorio che ora è tutto Stati Uniti ma che un tempo era landa indomita attraversata dai bisonti e vissuto dalle popolazioni indigene e per lo più nomadi dei nativi americani. Dicevamo dell’incontro spietato con il nuovo mondo, e chi altri se non queste tristemente note tribù hanno sofferto lo scontro di una progressiva invasione del proprio spazio vitale fino al giungere a quello che è un vero e proprio genocidio perpetrato in maniera sistematica tra l’Ottocento e gli inizi del Novecento dall’aggressiva espansione a ovest degli US.

Forse un po’ tutti abbiamo sentito parlare della leggendaria battaglia di Little Bighorn, dove il 7° cavalleggeri del tenente colonnello Custer venne annientato in battaglia da una coalizione di Lakota Sioux, Cheyenne e Arapaho condotta in battaglia tra gli altri da Cavallo Pazzo e Toro Seduto. Ne ha scritto benissimo in un libro splendido Vittorio Zucconi, Gli spiriti non dimenticano, che nel tracciare i contorni di una figura come quella di Cavallo Pazzo fa un viaggio nella cultura e nella storia strappata dalle mani di questi popoli tormentati. E forse alcuni di voi hanno anche incrociato le vicende di Aquila Che Vola e Pioggia Che Cade in Red Dead Redemption 2, un piccolo spaccato sul tramonto di un’era di queste donne e uomini che a eccezione delle ben poco lusinghiere rappresentazioni nell’epoca del western non hanno mai ottenuto l’adeguato spazio sugli schermi.

Bene, queste qui sopra non erano altro che alcune brevi e semplici idee alternative per colmare uno spazio che i Vichinghi potrebbero ben presto lasciare libero per l’esplorazione di altre storie, altre leggende, altri volti e nomi. Le possibilità sono virtualmente infinite e la fame di racconti non è mai sazia, speriamo solo di non dover sempre ritrovarci a prosciugare mondi che almeno per un po’ potrebbero essere lasciati in pace a riposare.

Alessio Zuccari
Laureato in Arti e Scienze dello Spettacolo all'Università Sapienza di Roma, al momento prosegue lo studio accademico del mirabolante mondo del cinema. Nel fare equilibrismo tra film, videogiochi e serie TV, si interessa pure attivamente alla sfera della critica cinematografica facendo da caporedattore per la webzine studentesca DassCinemag e autore all'interno delle redazioni di IGN Italia e StayNerd. Crede in poche cose, una di quelle è la Forza. This is the way.