Do what you want ‘cause a pirate is free, you are a pirate!

La vita del pirata è sicuramente appassionante, ma anche pericolosa e imprevedibile. Mari aperti, a perdita d’occhio, in attesa di essere esplorati alla ricerca di tesori inimmaginabili, da spendere rigorosamente in grog in qualche taverna la sera. I misteri che attendono un pirata sono ignoti, o almeno lo erano prima dell’arrivo di Sea of Thieves.

Ormai la nuova produzione Rare la conosciamo bene e il risultato finale è limpido come l’oceano caraibico, ma anche confusionario come quel malessere che prende da ubriachi o quando si soffre di mal di mare. Una sensazione che dopo ore non è mai svanita e che pone il gioco su un equilibrio precario dal quale non sarà semplice andarsene. Una cosa è sicura: siamo lontani dalla perfezione, ma anche incredibilmente vicini.

Nel malaugurato caso vi foste persi i nostri due hands on precedenti, Sea of Thieves è un gioco che ci permette di vivere la vita da pirata che abbiamo sempre sognato, navigando in cerca di tesori e misteri in un mondo aperto che più aperto non si può. Passando ad un gergo un po’ più tecnico parliamo di un sandbox, genere ormai più che in voga che indica titoli dall’ampio respiro e che lavorano principalmente in sync con la fantasia del giocatore, mettendogli a disposizione degli strumenti che serviranno a creare la propria avventura personale.

Dopo aver scelto un avatar generato casualmente dal gioco, ci sveglieremo all’interno di una delle tante taverne e inizieremo a prendere confidenza con alcune delle meccaniche di gioco tramite un tutorial a nostro avviso molto scialbo. Oltre a imparare le nozioni base del sistema di controllo e la gestione delle missioni in modo piuttosto approssimativo, Sea of Thieves non spiega nulla: una scelta di game design ben precisa ma che, sinceramente, ci ha lasciato molto perplessi e ha reso le nostre ore di gioco iniziali abbastanza frustranti. La stessa logica di base si applica al momento di conoscere le tre fazioni che regolano il mondo di gioco, fazioni che permetteranno ad ogni lupo di mare di accettare missioni e cominciare così a creare la nostra fortuna. Abbiamo i cacciatori d’oro, fornitori ufficiali di mappe del tesoro, ma anche l’Ordine delle Anime, specializzato nella distruzione di ex ciurme ormai ridotte a scheletri dannati e bramosi di sangue fresco e infine i mercanti, pronti a renderci dei corrieri caraibici in cerca di avventure più esaltanti del raccordo di prima mattina.

Al momento, questo è tutto ciò che Sea of Thieves ha da offrire in termini di gameplay. Il gioco è privo di qualsivoglia progressione verticale e, eccezion fatta per qualche kraken di passaggio o le missioni globali incentrate sull’assalto ai fortini, non vi è altro da fare. Una linea di confine netta che rappresenta un punto debolissimo di questa produzione in termini ludici ma che, allo stesso tempo, può essere visto come qualcosa di geniale e audace come le nostre avventure in mare.

Parliamo ad esempio dell’enorme differenza tra il giocare da soli o in compagnia: all’inizio può risultare intelligente partire in solitaria, se non altro per comprendere le meccaniche che il gioco si ostina a non spiegare e prendere confidenza con il mondo di gioco. Solo salpando con una piccola ciurma, possibilmente composta da persone che parlano la vostra lingua, si comprende quanto l’esperienza di Sea of Thieves sia incredibile. La gestione della nave è tutt’altro che facile ma con i giusti compagni sa essere dannatamente divertente e il mondo aperto, pur mancando di nemici, sa instillare nel cuore una genuina ansia. Basti pensare che le missioni che accetteremo sono spesso condivise, ragion per cui capiterà non di rado di incontrare altre ciurme: se vi state immaginando sguardi storti e stalli alla messicana, siamo sulla lunghezza d’onda giusta.

L’atmosfera può cambiare da un momento all’altro, così come il mare calmo può diventare tempestoso quando meno ce lo aspettiamo, raggiungendo l’apice nei già citati eventi globali: laddove ci sarà un teschio dagli occhi verdi pulsanti, ci sarà un fortino di scheletri pronto per essere depredato. Tutto molto bello finché si tratta di collaborare per la distruzione di ogni essere malvagio, ma sfido voi a non sentirvi in ansia nel momento in cui si tratta di dividere il bottino, ammesso e non concesso che qualcuno voglia farlo. Tutto potrebbe finire a tarallucci e grog, ma chi mi assicura che quelle palle di cannone che l’equipaggio dell’altra nave tiene in bella vista non possano bucare la mia nave nonostante l’accordo di non belligeranza? A questo discorso potrebbero seguirne altri, ed altri ancora perché tra i punti di forza del gioco vi è l’impossibilità di sapere cosa accadrà ad ogni partita, evento ormai più unico che raro in un mondo videoludico così omologato e che non può non essere considerato come un’impresa lodevole da parte di Rare.

A fare da contraltare a questa eccellente esperienza di gioco, però, vi è un’enorme assenza di contenuti e meccaniche che rischiano seriamente di minare ogni cosa buona. Tralasciando la già citata assenza di tutorial fatti come Dio comanda, il vero limite del gioco è l’assenza di una progressione verticale. Sea of Thieves opera delle scelte che dividono nettamente il pubblico e che hanno messo in difficoltà anche noi in sede di recensione: l’assenza di una storia può essere considerato un difetto molto relativo e soggettivo, tuttavia non possono bastare delle semplici scorribande a rendere il gioco davvero esaustivo. Il concetto di loot semplicemente non esiste e l’accumulo d’oro è volto solo all’acquisto di personalizzazioni cosmetiche, indubbiamente lodevoli per quantità e qualità e che ci permetteranno di rendere il nostro pirata e la nostra nave degni di ammirazione e invidia da parte delle altre ciurme, ma che non possono regalare la medesima soddisfazione concessa da giochi come Destiny o The Division. Qualcuno potrebbe dire che una meccanica simile non serve in un gioco del genere, magari le stesse persone che hanno criticato aspramente un No Man’s Sky che però dalla sua aveva degli accenni di trama e motivava l’accumulo di materiali in modo molto più convincente di Rare. A motivare tutto vi è ovviamente una scelta di game design, volta ad equiparare ogni giocatore e impedendo quell’orribile senso di inadeguatezza dei giochi massivi in multiplayer, dove il giocatore skillato e con montagne di ore di gioco sulle spalle liquida ogni nuovo arrivato come niubbo, detronizzando ogni abilità personale con oggetti di gioco di gran lunga superiori a quelli base. L’ennesimo dualismo che non manca di far discutere e che, di nuovo, può essere un punto di forza e una debolezza senza precedenti.

Quello di Rare è un sandbox da intendersi nel modo più puro e semplice, un vero e proprio parco giochi a tema piratesco dove ognuno può fare quello che gli passa nella testa e questo è sicuramente da apprezzare, anche perché il gioco non è mai stato oggetto di proclami sensazionalistici circa i suoi contenuti. L’onestà intellettuale tuttavia cozza con una varietà di contenuti talmente risicata da lasciare attoniti, basti pensare che gli scheletri e il kraken sono gli unici nemici presenti in tutto il gioco e le uniche tipologie di missioni disponibili sono quelle delle fazioni di cui abbiamo parlato prima, oltre ad alcuni eventi temporanei sotto forma di messaggi in bottiglia. Un vero peccato anche perché, nel caso delle missioni dei cercatori d’oro, è possibile avvistare il guizzo creativo di Rare all’opera: non tutti i forzieri infatti sono uguali e, ad esempio, potremmo imbatterci in un forziere del grog che, una volta afferrato, ci renderà automaticamente ubriachi marci rendendo il trasporto dalla terra alla nave qualcosa di incredibilmente divertente e spassoso. Oppure i forzieri piangenti, i quali non smetteranno di versare lacrime rischiando di far affondare la nave per colpa dell’acqua che comincerà ad invadere la stiva. Può la sola fantasia di un manipolo di giocatori e qualche idea brillante a rendere questo gioco “pieno”? Forse, ma siamo altrettanto sicuri che se Minecraft avesse avuto solo Creepers e pale di legno non sarebbe diventato un successo planetario.

Una cosa è certa però: da vedere Sea of Thieves è fuori parametro. Rare ci ha sempre abituati a lavori eccellenti sotto il profilo tecnico e il titolo in tal senso rasenta la perfezione grazie ad una direzione artistica abbastanza classica ed una realizzazione impressionante, tale da farci cascare la mascella. Il mare è una tavola blu, limpida ed animata alla perfezione, talmente bello che vorremmo avere un costume e la possibilità di sguazzarci dentro e solo per questo potremmo archiviare tutto. Ma più in generale i lavori svolti con Unreal Engine 4 sono tutti allo stato dell’arte, con belle animazioni e lavori artistici che strizzano l’occhio ad uno stile unico che pesca tanto dal passato della casa britannica che di altre produzioni a tema, prima fra tutte Monkey Island. La draw distance è notevole e i dettagli presenti rendono il nostro peregrinare qualcosa di davvero splendido e affascinante. Merito anche del comparto audio che regala enormi soddisfazioni e ci cala nell’atmosfera piratesca migliore di sempre, con musiche a tema e, perché no, suonate con la fisarmonica o di ghironda, dotazione standard di ogni pirata e che allieteranno ogni traversata con simpatici motivetti, al momento solo tre, ma sorprendentemente azzeccati ad ogni situazione.

Verdetto

Sea of Thieves non è un gioco per tutti: gli amanti del single player non vi troveranno nulla, ma una ciurma ben organizzata potrebbe trovarci il gioco della vita. A livello di contenuti non siamo lontani dal vuoto cosmico, ma un supporto post-lancio adeguato potrebbe rendere questi mari virtuali uno dei luoghi esplorabili più belli degli ultimi anni. Il gioco dunque con due facce ben distinte, una filosofia di gioco e impostazioni videoludiche che entrano in conflitto e nessuna delle due riesce a prevalere. Un’esperienza sicuramente da provare, ma i cui esiti sono squisitamente soggettivi e unici, il che è tanto un bene quanto un male.

Francesco Paternesi
Pur essendo del 1988, Francesco non ha ricordi della sua vita prima del ’94, anno in cui gli regalarono un NES: da quel giorno i videogiochi sono stati quasi la sua linfa vitale e, crescendo con loro, li vede come il fratello maggiore che non ha mai avuto. Quando non gioca suona il basso elettrico oppure sbraita nel traffico di Roma. Occasionalmente svolge anche quello che le persone a lui non affini chiamano “un lavoro vero”.