Tunic appare come l’ennesimo clone di Zelda, ma la realtà è un’altra

Negli anni ’90 giocare a un qualsiasi videogioco era un’esperienza sotto alcuni aspetti più complessa di quanto non lo sia oggi. Non perché i giochi fossero meccanicamente più complessi, anzi, ma perché la mancanza di quelle feature che oggi definiamo quality of life, oltre a una serie di artifici necessari ad allungare la durata dei prodotti, rendeva spesso più difficile completare un videogioco. E poi, certo, eravamo anche più piccini e quindi giocoforza avevamo più difficoltà a comprendere determinate cose. I tutorial non esistevano, le wiki figuriamoci, e anche nel caso si riuscisse a completare un gioco c’era poi la voglia di trovare tutti i segreti perché bisognava farselo durare per mesi e mesi. E poi ancora, per noi italiani c’era la barriera della lingua in un periodo in cui moltissimi videogiochi non erano tradotti.

Si innescavano così diverse dinamiche oggi abbandonate che esistevano anche all’esterno del gioco stesso. Normalmente siamo oggi abituati a relazionarci con il videogioco premendo “inizia” e trovando quasi tutto quello di cui abbiamo necessità al suo interno, con qualche capatina online in caso vogliamo sbrigarci a trovare tutti i collezionabili o vogliamo capire una strategia per abbattere quel boss che ci fa penare, senza avere più la pazienza per fare tutti i tentativi possibili o senza impegnarci più di tanto per “leggere” i suggerimenti che un buon game design dovrebbe darci.

Uno dei grandi meriti di Demon’s Souls è stato quello di ricreare un senso di comunità, creando gruppi che si aiutavano per preparare le migliori strategie per affrontare le situazioni a seconda delle diverse build o per scoprirne tutti i segreti con un lavoro collettivo, per un titolo che faceva della sottrazione di tutti gli elementi espliciti a cui siamo normalmente abituati il suo punto di forza e il punto di partenza del suo fascino.

Tunic è tutto questo. Il mercato indie ci ha già abituato a ottimi ritorni al passato, ma normalmente ci si limitava a riproporre tipologie di gioco dei “gloriosi anni ‘90” senza però mai riflettere su quale fosse complessivamente il “pacchetto completo degli anni ‘90”. Realizzare un metroidvania in pixel art, per quanto eccezionale, non significa riportare l’esperienza Super Metroid all’epoca dell’uscita ai nostri tempi, così come Link’s Awakening giocato oggi su Switch non è Link’s Awakening giocato nel 1993 su Game Boy.

tunic recensione

Quello che rende unico Tunic non è il suo rimando agli Zelda che furono nell’esplorazione o la riproposizione di meccaniche soulslike all’interno di un action adventure isometrico; non è nemmeno la sua estetica low poly deliziosa, il comparto audio synth in grado di commentare con delicatezza ogni momento o il protagonista di cui vorrei un peluche ora a renderlo il capolavoro che è.

Il game design di Tunic si costruisce attorno alla necessità creativa di ricreare quell’esperienza anni ’90 con tutti i suoi spigoli, portando a schermo anche quello che una volta sarebbe stato al di qua dello schermo.

Come nel già citato Link’s Awakening ci svegliamo su una spiaggia. Siamo disarmati, e non sappiamo dove andare. Proviamo a leggere il primo cartello, ma la lingua mostrata a schermo è una lingua che non possiamo comprendere. Avanziamo a tentoni, pigiamo tutti i tasti nel tentativo di capire cosa serve a cosa. Troviamo un bastoncino e cerchiamo di capire come si equipaggia.

Mossi i primi passi troviamo un oggetto, che scopriamo essere una parte del libretto di istruzioni del gioco. Anche questo però, è scritto in una lingua misteriosa. Continuiamo a raccogliere pagine e il libretto prende forma: suggerimenti su come giocare, suggerimenti su alcuni misteri, mappe e annotazioni a penna, che come (quasi) ogni appunto ha senso solo per chi l’ha scritto.

Continuiamo a non capire cosa c’è scritto, salvo qualche parola che riusciamo a leggere, come quando da piccoli si aveva un libretto in inglese e si capivano quelle poche parole contenute nel nostro piccolo dizionario mentale di bambini.


La prima difficoltà di Tunic, il fulcro del suo gameplay, è proprio il libretto da decifrare, guida parzialmente incomprensibile ma contemporaneamente necessaria per svelare la trama e capire anche, semplicemente, come potenziare il personaggio o l’utilità di alcuni oggetti. O come avanzare, dove andare.

Ci ritroveremo spessissimo a consultarlo, anche grazie alle splendide illustrazioni che sono sempre un piacere da guardare.

Zoomeremo sul libretto, per cercare di capire se c’è un dettaglio in un’immagine utile a risolvere un puzzle, apprezzandone contemporaneamente la stampa e individuando altri appunti a penna. Lo potremo abbassare, per guardare lo schermo del gioco, che però sarà trasformato in un CRT quasi illeggibile, probabilmente a suggerirci come ricordiamo la grafica dei vecchi giochi “più bella” di quanto in realtà non fosse.

L’altro aspetto eccezionale è lo stimolo alla collaborazione in un gioco così criptico: durante la fase di recensione gli sviluppatori hanno aperto un server Discord dedicato alla stampa nel quale ci si poteva scambiare consigli su come proseguire nell’avventura. L’ambiente che ne è scaturito era però estremamente diverso da quello che normalmente troviamo nelle community online, avvicinandosi di più alle situazioni dell’infanzia in cui si giocava tutti allo stesso gioco nello stesso momento e si chiedevano suggerimenti il giorno dopo a ricreazione sperando che qualcuno avesse raggiunto quel punto e fosse riuscito a risolverlo. Si è arrivati infine con alcuni giornalisti che collaboravano nel tentativo di tradurre la lingua di Tunic per scoprire ogni segreto nascosto dal libretto.

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Se l’esperienza di Tunic è tutta riassumibile qui, perché queste sono le meccaniche che lo caratterizzano e lo rendono unico, non constatare come oltre questi spunti eseguiti perfettamente ci sia anche un fantastico gioco d’avventura sarebbe fargli torto.

Come accennato Tunic è un classico gioco à la Zelda che pesca qualche elemento da Dark Souls, come la perdita di una parte di valuta quando si incontra la morte e un approccio criptico sia al racconto che alle meccaniche. Da Zelda invece eredita l’esplorazione, la progressione, il sistema di combattimento e l’inventario, ma anche quel tono solo in apparenza leggero che nasconde in realtà diverse sfumature più dark.

Tunic è un susseguirsi di macroaree e dungeon, ognuno con i suoi segreti, le sue scorciatoie e i suoi oggetti unici da trovare per proseguire in altre zone o per scovare tutti i segreti del gioco. Questo sempre dialogando con il libretto di istruzioni, e perché no, con la community.

Quello che resta dopo aver giocato a Tunic è la sensazione non del tuffo nel passato fine a sé stesso, o di un passato ricreato a partire da meccaniche o scelte estetiche, quanto la consapevolezza di aver fatto un’esperienza che ci ha riportato a dialogare con il videogioco in un modo perduto (e non per forza migliore, eh), reso accessibile nel mondo dei giochi solo digitali.

Una possibilità per i più “anziani”, e sicuramente un modo per i più giovani di fare esperienza di un modo di approcciare il videogioco come non hanno mai fatto. Ma è anche un ottimo Zelda-like con protagonista una volpina super carina, che buttalo via.

Luca Marinelli Brambilla
Nato a Roma nel 1989, dal 2018 riveste la carica di Direttore Editoriale di Stay Nerd. Laureato in Editoria e Scrittura dopo la triennale in Relazioni Internazionali, decide di preferire i videogiochi e gli anime alla politica. Da questa strana unione nasce il suo interesse per l'analisi di questo tipo di opere in una prospettiva storico-politica. Tra i suoi interessi principali, oltre a quelli già citati, si possono trovare i Gunpla, il tech, la musica progressive, gli orsi e le lontre. Forse gli orsi sono effettivamente il suo interesse principale.