Il crimine perfetto è il crimine che non esiste

Alla 75esima edizione del Festival di Venezia, torna il “Giallo all’italiana” e a portarlo è Francesco Andò, regista di Viva la libertà e Sotto falso nome, il quale decide di dirigere una pellicola ricca di intrecci e, purtroppo, cliché.

Partiamo dalla fine, perché è da qui che risulta più facile comprendere la creatura di Andò, che di propone un finale esageratamente grottesco (privo di qualsiasi accezione positiva) e incapace di colpire lo spettatore.
Ecco, questo è ciò che accade durante tutti i 110 minuti di proiezione, visto che il pubblico in sala si ritroverà davanti un prodotto sciapo, ricco di lustrini volti a nascondere il vuoto all’interno dello script.

 


Speranzoso che riuscirete a perdonare questo, seppur breve, commento ed excursus volto a “spoilerarvi” il mio pensiero sull’ultima fatica con Micaela Ramazzotti ed Alessandro Gassman, torniamo all’inizio della pellicola e parliamo di come non dovrebbe mai iniziare un film che vuole essere un Giallo.

Una storia senza nome parla del furto, avvenuto negli anno ’60, della Natività di Caravaggio da parte della Mafia siciliana, trasposto su pellicola tramite uno sceneggiato scritto da una ghost writer (Micaela Ramazzotti) venuta a conoscenza della realtà dei fatti da un misterioso ed anziano individuo.

Di per sé, seppur attraverso 3 semplicissime righe, la storia potrebbe risultare affascinante ed un’ottima base di partenza per la realizzazione di un film accattivante e, paradossalmente, nuovo rispetto alle proposte italiane degli ultimi anni, ma è anche vero che non basta una buona idea per avere un buon risultato.


Le prime sequenze ci danno uno sfizioso incipit introduttivo, peccato per l’accompagnamento sonoro e la caricaturale mimica di Gassman, che distolgono l’attenzione dal focus facendoci credere di trovarci dinnanzi ad una fiction del lunedì sera per famiglie.
Infatti, l’incapacità di riuscire a donare credibilità ad un film costantemente alle prese con il proprio pomposo ego è la caratteristica negativa più deturpante e destabilizzante di Una storia senza nome.
Ogni qualvolta ci si ritrova davanti ad un risvolto intrigante ed accattivante (figlio, come abbiamo già potuto dire, di un’idea gustosa) le scelte registiche e di script smorzano totalmente il nostro interesse, a causa di situazioni paradossali, poco credibili e, il più delle volte, banali.

Un giallo, infatti, per quanto possa essere enigmatico e fitto di incastri (seppur non sia questo il caso), è caratterizzato da una costante presa di coscienza riguardo alla successione degli eventi nell’arco narrativo, con annessa una tensione (minore rispetto ai Thriller) incalzante volta a toccare il suo apice nella risoluzione finale.
Nel nostro caso, invece, ci ritroviamo dinnanzi ad una creatura priva di verve e tristemente scarica di emozioni.

Una maturità cinematografica ricercata, ma mai raggiunta, riscontrabile nelle risoluzioni finali, sempre approssimative e/o inadeguate per una storia verosimile.
Forzature (dovute allo script del regista stesso) ricalcate, peraltro, dai cliché continuamente proposti, volti a fare eco alle pellicole americane dirette o influenzate dai vari Nazarro o, il monumentale, Stout, offrendoci uno spettacolo banale e triste.
L’inesistente appeal è oltretutto offerto anche per mezzo di interpretazioni altamente rivedibili da parte dei protagonisti.
Come già detto, Gassman (sotto la supervisione di Andò) rappresenta un personaggio sciocco, infantile, quasi impresentabile sul grande schermo, mentre la Ramazzotti, seppur in zona Cesarini, interpreta una figura affascinante, ma enormemente mainstream, dal sapore “plasticoso”.

Il tutto si risolve, alla fine della proiezione, con un grosso “peccato”, perché con il giallo (attenzione a non utilizzare impropriamente questo termine) è un genere importante, vivo, realizzato per palati fini, ma soprattutto ben definito e caratterizzato da un ritmo battente, mai su di giri e mai spento, ed è per questo che vedere una pellicola così leggera e superficiale rappresenta un grosso rimpianto.

una storia senza nome
Verdetto

Una storia senza nome (in uscita nelle sale il 20 settembre) è un piccolo punto interrogativo nel marasma cinematografico degli ultimi tempi.
L’opera di Andò non ha una propria anima e finisce quasi per essere priva di vere etichette, una caratteristica dovuta alla storpiatura costante fatta al genere a cui, si presume, appartiene e fa riferimento.
Un ritmo scialbo e sottotono, continui cliché forzati, una recitazione non certo memorabile e l’incapacità di sapersi dare un tono, sono gli elementi che caratterizzano negativamente la creatura del cineasta palermitano, finendo per offrirci un prodotto insipido.
Rimandato l’intero cast, mai nel vivo e mai valorizzato da uno script che prova ad essere interessante, senza però ottenere il risultato sperato.

 

Se vi piacciono i gialli…

Se siete andati al cinema a vedere Una storia senza nome e, in qualche modo, vi è tornata voglia dei Gialli, non possiamo non consigliarvi l’ultimo intrigante e lussuriosa storia di Ferzan Ӧzpetek, Napoli Velata.
A questi aggiungiamo la trasposizione del capolavoro di Agatha Christie, Assassinio sull’Orient Express (qui la nostra recensione) o Nella morsa del ragno, film cult del genere con Morgan Freeman come protagonista.

Leonardo Diofebo
Classe '95, nato a Roma dove si laurea in scienze della comunicazione. Cresciuto tra le pellicole di Tim Burton e Martin Scorsese, passa la vita recensendo serie TV e film, sia sul web che dietro un microfono. Dopo la magistrale in giornalismo proverà a evocare un Grande Antico per incontrare uno dei suoi idoli: H. P. Lovecraft.