Se vivi a Roma ottobre è un mese bellissimo perché ti spari, nell’arco di una settimana, due eventi imperdibili: il Romics (che ormai tutti conoscerete) crogiolo di nerdoni dell’ultim’ora e, soprattutto, amanti del fumetto e del baratto fieristico e il Maker Faire, la cui edizione europea si tiene proprio nella capitale. Del Maker Faire leggerete tra qualche giorno impressioni, divagazioni e novità ma si tratta di un evento che ha un certo fascino per chi, come me, ha il pallino dell’innovazione e delle meccaniche che essa implichi nell’era digitale.

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Perché le idee sono importanti, ma anche quel che comunicano e come lo fanno è un passo fondamentale affinché esse attecchiscano e diventino progetti seminali. In tal senso mi sono trovato a riflettere su quella che è un’innovazione che nell’industria delle idee ha fatto scalpore, ed alla percezione che la gente (nel particolare “la gente di internet”) ha di essa. Parliamo ovviamente della realtà virtuale, e del suo araldo per eccellenza: Oculus Rift. Se avete letto il titolo di questo editoriale l’idea vi sarà già chiara e starete già facendo gli hater, ma prima di tutto proviamo a capirci. Perché la VR non può fare il botto? Prima che qualche idiota se ne esca con uno “gnegnegne ma lo ha già fatto!” cerchiamo di spiegare al meglio la situazione.

Vero: Oculus Rift (citiamo il più famoso per citarli tutti) ha dato al mondo la possibilità di interfacciarsi con una con la realtà virtuale in modi che, fino a qualche tempo fa, non erano possibili. Si tendeva a immaginare la realtà virtuale alla “Il Tagliaerbe” o simili, e diversi erano stati i tentativi (fallimentari) ma diamo a Cesare i suoi meriti e diciamo che, in effetti, senza la rivoluzione di Oculus ad una svolta non si sarebbe arrivati. Certo, non è quella realtà virtuale che ci aspettava dopo anni di sogni di fantascienza. Voli pindarici resi possibile dall’amore per un certo tipo di letteratura e narrativa, ma si tratta comunque della cosa più vicina possibile alla terra promessa e tale da creare quello che gli addetti chiamano “presenza”. A Oculus il merito di aver reso la sensazione di presenza alla portata dei consumatori ma non è l’ultimo tassello del puzzle e non deve essere percepito come tale. Si tratta di un passo, piccolo o grande che sia, ma nulla di più. Perché? Perché Oculus non è la realtà virtuale, ma solo un visore che ci avvicina alla percezione visiva di un mondo che non c’è. Un’illusione ottica, che consiste in uno schermo posto così vicino agli occhi da gabbare il cervello e il senso della vista. C’è la sickness, c’è lo stupore, ma poi non c’è molto di più ed anche quando se ne fruisce in un gioco particolarmente coinvolgente (metti: Skyrim) si resta comunque vincolati a una sedia e, al più, a un pad. Non c’è immersione e non c’è interazione per gli altri sensi. È come essere menomati, ma in un mondo digitale in cui l’unico senso che gode di coinvolgimento è la vista. Certamente il senso più “potente” ma non l’unico. Mancano, per dirne una: una sensazione tattile (per non parlare di una olfattiva), il movimento (cui si può arginare il problema con un’altra periferica sperimentale: Omni Virtuix), senza contare l’azzeramento della motion sickness che, nonostante i passi in avanti, colpisce ancora tantissime persone, soprattutto quelle meno avvezze alle esperienze videoludiche in prima persona. Ci sono insomma, a dispetto dell’idea che qualcuno si era fatto, tantissimi limiti e ancor più compromessi (arrivateci da soli, su!).

Oculus Rift

Ma voi state ancora scalpitanto. Siete ancora lì a chiedere: perché fallirà? Fallirà proprio perché l’attesa che ha creato non corrisponde all’aspettativa. Quando si è detto “la prima vera realtà virtuale” ci si è immaginato di tutto ma quel che se ne ha è semplicemente una tecnologia di contorno. Qualcuno, in rete, lo ha paragonato a quello che è il 3D per il cinema. Una tecnologia bellissima e potenzialmete innovativa, ma che si scontra con la povertà della realtà dei fatti. Oculus Rift non è ovviamente paragonabile a denti stretti, c’è di più ma NON è la rivoluzione che mi era stata promessa. Con tutta la motion tracking di questo mondo, con tutta la compatibilità con i vecchi classici come Doom e Half Life 2. Perchè Oculus è solo un visore. Un visore molto figo, ma comunque un orpello e la percezione entusiastica che se ne ha è irrealistica tant’è che c’è tanta, tantissima gente che risponde a colpi di “meh”. Perché quell’esperienza futuristica da film di fantascienza è stata disillusa.  Allora, in tal senso, mi sento di dare ragione a chi confronta il tutto con il 3D. Non tanto per il valore o il potenziale, ma per la domanda di acquisto che esso ha generato dalla sua nascita fatta di addetti, fan e maniaci ma mai di masse di acquirenti. Mai di utenti dallo stile di vita più easy, che dopo il primo tentativo “casual” si sono sentiti in dovere di continuare a indossare gli occhialetti al cinema.

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Questa meccanica, di fatto, è la stessa che sta investendo Oculus: tanti fan, molti maniaci ma il disinteresse dei più che non trovano esaltante avere un accrocco sulla testa e che comunque non si sentono parte di un mondo digitale, ma solo spettatori di un trucco di illusionisti. Un trucco bello e costoso, talvolta convincente ma nulla di più. Ora, prima che vi strappiate i capelli, il punto è che non dico che Oculus non ci piaccia, che non abbia potenziale o che non sia una manna per i produttori di hardware PC. Quel che dico è che non c’è il potenziale per un prodotto mainstream. Perchè “mainstream” è un qualcosa di cui chiunque sente un bisogno viscerale. È qualcosa la cui “difference” è tale da dover diventare un’abitudine. Mainstream è quando proprio non se ne può fare a meno ma, sinceramente, non sono sicuro che anche ci dice di nn poter fare a meno di Oculus stia dicendo la verità. In tal senso il gran guru del parere videoludico Michael Patcher (uno che personalmente non tollero, e che spesso si lancia nel toto-scommesse digitale) ha detto una cosa su Oculus intelligente e, una volta tanto, sensata. Parlando dell’acquisizione di Oculus VR da parte di Facebook, l’analista ha detto la sua su come e quanto dovrà investire il marchio di Zuckerberg per rendere la piattaforma attrattiva per gli sviluppatori. Senza le spalle coperte, infatti, chi investirebbe mai diversi milioni di dollari senza la garanzia di ottenerne un ritorno? L’acquisto da parte di Facebook, di per sé, è già un sospiro di sollievo per chi voleva dedicare la sua vita alla VR, perché con alle spalle una società ormai praticamente “incrollabile” si prospetta un lavoro nei confronti del progetto Oculus che sperperi denaro per i migliori investimenti possibili. O no? Al di là del mercato indie (che, diciamocelo, lascia un po’ il tempo che torva in termini di visibilità), per spingere l’acquirente a desiderare un Oculus ci vogliono titoli che spingano le vendite. Ma quale produttore Tripla A farebbe un investimento esoso per una piattaforma dalle vendite incerte? A maggior ragione di un mercato che, soprattutto negli ultimi anni, ha visto omogeneizzare le uscite in virtù del formato multiconsole?

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Ma lo farà? Facebook spenderà davvero così tanto? C’è chi dice sì, c’è chi dice di no. Io dico di no e penso che, molto prevedibilmente, quella che sarà messa in commercio sarà una periferica. Oh! Libero di sbagliarmi, ma la carne che c’è adesso sul fuoco sta solo alzando polveroni di fuliggine a dispetto di una bistecca di pochi grammi. Oculus è una roba molto figa, molto costosa, ma un surplus e nulla di più. Una tecnologia di successo ma di cui la gente, tutto sommato, può fare a meno… metti un esempio “simile ma diverso”: il tablet. Oh figo il tablet! Ma a che diamine serve?! La massa, o meglio, la grande massa, non considererà i benefici derivanti dall’acquisti superiore agli svantaggi. Non considererà un visore HMD una priorità ma un ninnolo. Un qualcosa per chi non può fare a meno di vivere di acquisti tecnologici, questo e poco più (se si è sviluppatori). Arriverà allora la rivoluzione? Sì, ma non oggi, non domani, non così. Quindi basta sparare le botte quando si dice “Oculus Rift“. Si vivrebbe meglio con un po’ di realismo e, metti, ci si godrebbe la tecnologia anche meglio.