Netflix mette in scena una serie urban con tanta forma, ma poco sostanza

Palazzoni spogli e alti come palme nella giungla.
Strade povere, ma ricche di gente.
La vita  nel “Barrio” di Milano è dura e spietata.
La strada è cruda, ti spezza e ti trascina giù, soprattutto se ad affrontarla è un giovane, povero e nero.


La storia di Zero, narrata dalla penna di Antonio Dikele Distefano, è uno spaccato della società che fagocita i giovani italiani nella periferia. Un mondo crudo che attanaglia l’anima e i sogni di chi come Omar, italiano di seconda generazione, vuole esistere e volare via.
Zero è giovane, fresca, con uno stile estremamente urban. Un prodotto impreziosito da una cornice sonora di prim’ordine che vede artisti come Marra, Mahmood  e tha Supreme, giganteggiare nelle nostre orecchie mentre vediamo Omar consegnare pizze sulla sua bici.

Netflix, con Zero, vuole andare oltre il noto. Le vicissitudini delle zone più povere della metropoli sono state raccontate in tutti i modi possibili. Come si può trovare un nuovo punto di vista? Semplice(?), diamo spazio ad un giovane che si ritrova ad essere un eroe per caso essendo sé stesso.

Omar, dopo aver mostrato allo spettatore di essere in grado di diventare invisibile a suo piacimento, proverà a ridare lustro al suo quartiere e combattere la “Teoria dei vetri rotti”.

Perché è vero, se ti abitui ad un vetro rotto e non lo ripari, alla fine ti abituerai anche a molti altri vetri infranti, senza riuscire più a cambiare la situazione. Peccato che l’intenzione si debba scontrare, inevitabilmente, con la realtà dei fatti.

Non stiamo parlando delle dinamiche sociali che impediscono alla società di far tornare a respirare il Barrio, ma delle problematiche strutturali della serie in sé.
Perché se da un lato le premesse possono risultare interessanti e fresche, dall’altro lato ci ritroviamo davanti ad un’opera estremamente acerba.

Lo script di Zero è veloce, Netflix ci mostra l’ennesima serie youngadult, ma con tinte diverse e più attaccate alla realtà. Il problema è dato però dalla totale mancanza di fame e voglia di raggiungere il reale obiettivo.
Oltre a personaggi stereotipati fino al midollo (con Sharif messo in prima linea sotto questo spiacevole aspetto), il giovanissimo cast della serie si ritrova spesso e volentieri a provare a soddisfare lo spettatore, piuttosto che i propri alterego.

Qual è il messaggio reale? Il potere di Zero è una semplice metafora dell’essere ancor più invisibili agli occhi della società? Cosa ci vuole far vedere questa produzione?

Il tutto è un peccato incredibile perché il ritmo leggero e scanzonato permette alle puntate (intelligentemente da 25 minuti ciascuna) di viaggiare senza troppi intoppi. Le risoluzioni a diversi eventi, sparse qua e là nello sviluppo dello script, sono banali e spesso facilmente intuibili, ma questo non è il reale problema.
Il giusto interrogativo da porsi è:”Dove ci sta portando questo viaggio?”

Le attenuanti del caso sono numerosissime, soprattutto fornite dall’età media della produzione, ma è anche giusto battere dove è necessario. Il materiale c’è, bisogna semplicemente riuscire a sgrezzarlo per il futuro.

Zero sembra essere una produzione solo per giovanissimi, ma incapace di comunicare messaggi di alcun tipo, o intrattenere adeguatamente. Non basta l’ambientazione milanese, la gustosa cura registica di Paola Randi, Mohamed Hossameldin, Margherita Ferri e Ivan Silvestrini (promossi nonostante alcune sbavature), e l’azzeccata e pregiata colonna sonora.

Netflix, con Zero, ci porta in un mondo noto, vero, ma stereotipato fino all’eccesso (non abbiamo bisogno del giovane milanese doc. che organizza festini clandestini per ricconi).
Il messaggio, che pone al centro del progetto un gruppo di giovanissimi italiani di seconda generazione, non riesce ad essere veicolato correttamente, buttando qua e là le intuizioni dell’opera originale di Dikele.


Le dinamiche sociali ci sono, appaiono su schermo, ma vengono impoverite costantemente dalla mancanza di mordente. I giovani attori sono bravi, arrivano nonostante gli ovvi e giustificabili errori, ma vengono sacrificati ad uno script privo di  idee.
Con Zero iniziamo un viaggio confusionario. Ci muoviamo in un ambiente conosciuto, dritti per una strada facilmente catalogabile, ma senza riuscire mai a comprendere quale sarà la meta finale di questo tram abbandonato nella periferia milanese. Una dinamica che, in questo caso, è tutto fuorché un pregio.


Si vuole raccontare una strada violenta, ma non armata. Una strada credibile e viva, ma la si sacrifica alle finalità della N rossa, perdendo i contenuti durante il cammino.
Ed è così che, finita la visione, non potremo far altro che pensare a Marracash in 64Bars “è come se si presentano per fare una rissa e tu tiri fuori un mitra e…” Niente, tante azioni, ma poca sostanza.

Leonardo Diofebo
Classe '95, nato a Roma dove si laurea in scienze della comunicazione. Cresciuto tra le pellicole di Tim Burton e Martin Scorsese, passa la vita recensendo serie TV e film, sia sul web che dietro un microfono. Dopo la magistrale in giornalismo proverà a evocare un Grande Antico per incontrare uno dei suoi idoli: H. P. Lovecraft.