“Voglio suggerire a chi ha passione per il videogioco di riflettere un attimo, perché i modi per comunicare all’esterno sono molto più semplici di quanto può spesso sembrare”

uando si parla di hobby, è sempre abbastanza automatico pensare che sia più semplice e stimolante fare discorsi e ragionamenti con chi condivide la nostra passione. Le bolle di interesse e le echo chambers funzionano proprio perché socialmente come specie abbiamo l’abitudine a formare gruppi sociali intorno alla nostra visione del mondo e circondarci di persone che la condividano, in parte o totalmente. Di conseguenza la percezione che abbiamo di un aspetto della nostra realtà (cose, persone, eventi) è molto soggetta alla pressione che ha sulla nostra bolla e non è detto che quello che noi sentiamo come aspetto risonante e importante lo sia anche al di fuori per la media delle persone che popolano il mondo. 

A volte, però, è anche necessario e sano andare al di là della propria stretta cerchia, anche solamente rivolgendo l’oggetto della discussione a un’altra bolla che fa parte della nostra vita: ad altre persone che sono coincidenti con il nostro modo di vivere e di pensare ma che non sono particolarmente avvezze a un interesse. È un esercizio piuttosto stimolante per due motivi essenziali.

Il primo è che, molto banalmente, permette di creare delle intersezioni tra le nostre bolle (perché se delle persone hanno sensibilità simili alla nostra è facile che si trovi un punto di incontro). Il secondo (per me quello più importante e oggetto stretto di questo articolo) è perché è molto probabile che – rispetto alla media dei discorsi interni all’interesse a cui abbiamo fatto l’abitudine – la percezione sia molto differente al solito e che ne venga fuori una prospettiva nuova che può creare ragionamenti da proporre all’interno della cerchia di chi invece ha passione approfondita. 

Da una bolla all’altra

Rapportando la cosa su di me e sulla mia esperienza, posso citare centinaia di esempi in cui mi capitava che una persona mi chiedesse delle delucidazioni su qualcosa che sapeva rientrare nei miei interessi o ancora che io consigliassi (o che mi venisse consigliato) qualcosa al di fuori della zona di comfort e degli interessi a una persona che sapevo però avere quel che serviva per essere colpita dal mio suggerimento (e viceversa). Di tutti, però, i più interessanti e stimolanti in assoluto li ho vissuti recentemente riguardo al videogioco. 

Persone che hanno un background culturale molto simile al mio (per gusti musicali, cinematografici, estetici e prospettive sul mondo) hanno iniziato a interessarsi in modo molto sentito e sensibile al videogioco e a rivolgersi a me per comprendere in che modo il loro spazio di vedute potesse inserirsi su questo medium. Certo, va ovviamente specificato che grazie al cielo il videogioco è un mezzo composito e stratificato (come tutti i mezzi di comunicazione) e che può essere approcciato a livelli diversissimi che si adattano alle vedute di chi vi si approccia. Però è altrettanto vero che quel che mi è capitato di sentir dire alle persone mi ha sorpreso e lasciato con diversi interrogativi e ragionamenti che mi sembra doveroso porre in oggetto a chi videogioca regolarmente, anche soltanto per prendere un attimo fiato e rivedere come ne stiamo parlando. 

Le conversazioni che ho avuto, per quanto in origine e da ambo le parti sempre guidate in modo tale che il contenuto fosse il più possibile attinente e pertinente alle persone coinvolte e alle nostre sensibilità e visioni, quasi sempre sono partite con la curiosità dell’altra persona che mi confessava di giocare pochissimo o addirittura per nulla ma voler approfondire.

Sapendo il concerto di intenzioni (e di affetto) che lega me e queste persone ovviamente andava fatto un processo di scrematura che, a differenza di quanto accade con chi videogioca abitualmente, mi ha sorpreso per l’approccio che stava alla base del mio interloquire: non stavo consigliando per stupire o dimostrare che il videogioco possa essere un linguaggio alto (e qui gioca tanto anche il fatto che tutte le volte mi è capitato di parlare con persone che non hanno stigmi o pregiudizi verso il videogioco, ma che anzi ne vedono le velleità molto più di chi gioca), ma piuttosto che stavo ritagliando e cucendo il mio presentare a loro il videogioco in base proprio alla bolla e al rapporto che mi lega a loro. Partendo da altri interessi e da altre suggestioni, arrivavamo insieme al videogioco.

Cambiare prospettiva per cambiare approccio

Nei discorsi veniva fuori piano piano una distanza piuttosto considerevole con le “norme” di quello che sento, leggo e penso quotidianamente sul videogioco all’interno del contesto di persone appassionate. L’assenza di filtri era su tantissimi livelli differenti: alcuni che mi hanno portato a dare specificazioni e altri che mi hanno spinto a ragionamenti che non avevo mai considerato. Entrambi, però, mi hanno confermato che le percezioni che abbiamo all’interno delle bolle sono spesso distorte e serve un confronto con l’esterno piuttosto costante. Per esempio, parlando un po’ di entrambi i piani di lettura, mi sono capitati due casi piuttosto peculiari. 

Il primo riguarda le community che affollano i giochi massivi multiplayer e la percezione comune di chi videogioca abitualmente. Una persona mi ha detto che sì, ha perfettamente senso il mio specificare che ci possa essere problematicità e tossicità sociale all’interno di questi contesti ma che, a volte, i videogiochi online (nel suo caso Fortnite e League Of Legends, che ha giocato in modo leggero e discontinuo) possono e devono anche essere considerati utilitaristicamente e ricondotti al loro cardine: condividere un’esperienza ludica con persone a noi vicine. È una cosa che spesso e volentieri diamo troppo per scontata e che andrebbe rivista, ripensata e considerata molto di più degli aspetti negativi e aprioristici che ci allontanano da queste esperienze. 

Il secondo caso, invece, mi ha colpito per quanto comune e sistematico fosse in ogni discorso che spuntava con queste persone. Nel mio raccontare loro di sperimentazioni e nuovi utilizzi dei linguaggi del videogioco, vedevo sempre un certo stupore per un uso così avanguardistico di un mezzo che nell’opinione pubblica è sempre abbastanza relegato all’abilità e alla tecnologia. La sorpresa nel venire a conoscenza dell’uso dell’audio in Hellblade, o ancora dei ragionamenti complessi sull’immagine nella carriera di Sam Barlow per finire con l’esplosione di senso del multiplayer muto di Journey mi ha fatto rendere conto di quanto ci sia bisogno di parlare di questi esperimenti all’esterno. E questo non per velleità, non per testimoniare un modo alternativo di fare e pensare videogiochi ma – più semplicemente – per restituire al mondo la testimonianza di un mezzo molto più ricco e adattivo di quanto spesso anche internamente ci diamo da pensare. 

Dal personale al globale: un suggerimento

Non so se sia fortuna o semplice onestà verso una cosa che amo e che so potrebbe essere apprezzata anche al di fuori di un contesto specifico (e qui la mia volontà di evangelizzare costantemente le persone un po’ fa il suo). Ma è semplicemente straordinaria la semplicità e la curiosità che ho riscontrato verso un certo tipo di sperimentazione, di contesti autoriali e soprattutto di retroscena che accompagnano lo sviluppo. Non c’era dietrologia, non c’era faziosità o tifo ma soltanto purissimo interesse verso una cosa che incredibilmente si sposa con qualcos’altro proprio per la sua natura multiforme e adattiva. Il videogioco cambia tantissimo da persona a persona, e questo spesso e volentieri è una cosa che lasciamo troppo da parte. 

Quindi, per concludere, perché mi sono sperticato in questo ragionamento? Per vantarmi delle mie conoscenze, che pur non giocando si vedono più interessate a The Return Of The Obra Dinn rispetto alle produzioni narrative tripla A di Sony? Forse, perché sono eternamente grato di essere parte di queste fittissime bolle e di circondarmi di persone che possono intersecarsi con il mio modo di vedere così facilmente. Però anche perché voglio suggerire a chi ha passione per il videogioco di riflettere un attimo, perché i modi per comunicare all’esterno sono molto più semplici di quanto può spesso sembrare. Pensiamo in piccolo e al più vicino possibile, arriveremo al grande e lontanissimo. 

Luca Parri
Nato a Torino, nel 1991, Luca studia scienze della comunicazione come conseguenza della sua ossessione nei confronti delle possibilità che offrono i mezzi di comunicazione e ha lavorato come grafico e consulente marketing (lavoro che ha fatto crescere esponenzialmente la sua ossessivo-compulsività per le cose simmetriche e precise). Lo studio gli ha permesso di concretizzare la sua passione per i differenti linguaggi dei media, sperimentando con mano l'analisi linguistica e semiotica; il lavoro gli ha dato la possibilità di provare a inserire la teoria nel pratico. Studio e lavoro, insieme, lo hanno portato a scrivere di, tra gli altri argomenti, grafica pubblicitaria, marketing, comunicazione e comunicazione visiva collegata al videogioco.