If we were all on trial for our thoughts, we would all be hanged

Tra i diversi generi di tv show e serie tv, ce n’è uno in particolare che non stanca mai e la cui ascesa, soprattutto nell’ultimo decennio, appare inarrestabile: stiamo parlando del true crime drama. Forse perché va a solleticare la nostra curiosità perversa verso un mondo che è sempre al limite tra fictional horror e realtà; forse perché proviamo un interesse morboso (e inconscio) verso tutto ciò che riguarda la morte, soprattutto quella inferta; forse perché siamo attratti da ciò che di più macabro la nostra mente può partorire, restiamo incollati allo schermo, quasi ipnotizzati da questo limite labile tra psicotico e sano. Eppure, questa ossessione per il macabro e l’ignoto è qualcosa che fa probabilmente parte della stessa natura umana: la fascinazione esercitata sulla mente era ancora maggiore centinaia di anni fa, quando le neuroscienze muovevano i primi passi tra medicina, mesmerismo ed ipnosi.

L’altra Grace (Alias Grace), miniserie di 6 puntate targata Netflix e ispirata all’omonimo romanzo di Margaret Atwood, affonda le sue radici ambigue proprio in questa terra di confine: è la vera storia di Grace Marks, interpretata da Sarah Gadon (Maps to the star, A royal night out), una ragazza di sedici anni, immigrata dall’Irlanda al Canada, che nel 1834 viene accusata e condannata per il duplice omicidio del notabile Thomas Kinnear (Paul Gross) e Nancy Montgomery (Anna Paquin), governante e amante del padrone di casa, insieme a James McDermott (Kerr Logan, già visto in Game of Thrones e London Irish), lo stalliere di casa Kinnear. Mentre McDermott viene condannato a morte per impiccagione, Grace Marks viene prima rinchiusa in un manicomio e poi trasferita in prigione, dove resterà per quasi trent’anni con una condotta esemplare. Questi i fatti reali su cui la Atwood ha basato il suo romanzo, a cui si è ispirata la sceneggiatrice Sarah Polley per riportare sullo schermo una storia in cui è la parola letteraria a fare la padrona di casa, aprendo la porta di ogni episodio con una citazione poetica di uno scrittore o scrittrice del periodo, che inquadra l’atmosfera dell’episodio che segue. A coadiuvare tutto ciò, troviamo una fotografia pulviscolare, come dopo aver sbattuto una trapunta polverosa, dai toni freddi e duri che ben restituiscono l’imperturbabilità della protagonista.

Tutta la serie ruota attorno alla presunta colpevolezza o innocenza della sedicenne irlandese, indagata tramite l’intervento del dottor Simon Jordan (Edward Holcroft), medico specializzato in malattie mentali: Grace Marks infatti, dopo essere stata convinta dal suo avvocato a raccontare una versione falsa della vicenda durante il processo, dichiarerà fino all’ultimo di non ricordare niente. Un comitato di fedeli metodisti guidati dal reverendo Verrenger (David Cronenberg), sostenitori di Grace, chiederanno al dr. Jordan di sottoporla ad un numero di sedute utili a dimostrarne l’innocenza. Attraverso un viaggio nei ricordi della ragazza, veniamo a conoscenza della sua vita prima che partisse per il Canada, delle violenze subite dal padre, del suo primo lavoro come servant e della sua amicizia con la ribelle e carismatica Mary Whitney (Rebbeca Liddiard), fino al trasferimento in casa Kinnear.

It’s a man’s man’s man’s world

Grace così ci racconta, in prima persona, la storia della sua vita, perlopiù lavorativa: mentre continua a cucire la sua trapunta, espone quasi con distacco la storia di una ragazza che cerca di barcamenarsi alla bene e meglio per poter vivere in modo accettabile una esistenza normale, se non fosse per alcuni strani sussurri e alcuni sogni ed episodi di sonnambulismo che iniziano a farci storcere il naso.

Scopriamo anche che lei e tutte le donne che hanno fatto parte della sua vita, oltre ad avere la stessa estrazione sociale, condividono anche una situazione di inferiorità che sfocia nella violenza, sessuale e non, da parte degli uomini che le circondano.
Viene così tratteggiato il mostro protagonista di quest’horror: la società patriarcale, di volta in volta rappresentata da persone autoritarie (padre, padrone di casa, dottore) e istituzioni (la prigione e il manicomio), che reprime, violenta, ingabbia le donne, in questo caso Grace.

E dunque, in un mondo di uomini, in cui sono loro a decidere ogni aspetto della vita delle donne, cosa rimane ad una ragazza vessata sin dall’infanzia? Qual è la risonanza che ha la sua voce? Si perde tra mille altre voci maschili che la sovrastano ed il cui volume è reso perfettamente dal resoconto che Grace stessa fa, e che commuove per l’indifferenza che solo la sofferenza è in grado di generare. Sarah Gadon, la formidabile Grace donna angelo o demone, ci inchioda allo schermo coi suoi occhi azzurri, ci interroga su noi stessi, ci chiede di decidere e di schierarci: è successo davvero? È colpevole o è innocente? E se fosse colpevole, ma soffrisse di amnesia a causa dei traumi subiti? E se fosse innocente, ma avesse comunque istigato McDermott ad uccidere a causa dell’odio represso per gli uomini, per come è stata trattata? Ci sentiamo di giustificarla? Ma soprattutto: ciò che stiamo vedendo è reale o è un’allucinazione?

Chi ci accompagna nel viaggio alla ricerca di questa voce e della verità è Mary Harron (American Psycho, I shot Andy Wharol), con una regia intima e affilata che ci trascina all’interno della psiche di Grace Marks, episodio dopo episodio, tramite continui monologhi interiori e flashback che culmineranno in un’ultima seduta al confine col paranormale e che non toglieranno quel dubbio, sottile come uno stiletto, che l’enigmatica adolescente già donna, ci ha conficcato al centro del petto.

l'altra grace recensione

Verdetto:

Con un team d’eccezione canadese, questa è la seconda opera letteraria della Atwood che viene adattata a serie TV, dopo The Haindmaid’s Tale. Ancora una volta, è la storia di una donna ad esser raccontata da una donna, caratterizzata da un crescente senso di terrore che evolve puntata dopo puntata e soddisfa pienamente la fame di creepy stories di cui si andava ghiotti già durante l’età vittoriana. Sottile, inafferrabile e diafana come la sua protagonista, questa miniserie è un piccolo gioiello tutto al femminile che, nel frequentatissimo panorama del true crime, splende di luce propria.