Gli Anelli del Potere: troppo fantasy per essere Tolkien?

anelli potere finale

n fondo sapevamo tutti, lettori fantasy e non, che sarebbe finita così con Gli Anelli del Potere. Alzi la mano chi pensava che questa serie, liberamente ispirata agli scritti di J.R.R. Tolkien, potesse essere apprezzata da tutto il pubblico. Specie da quel fandom intransigente che ha fatto del Legendarium la propria ragione di vita. All’inizio della serie ci siamo voluti concentrare sui lati positivi (che non erano e non sono pochi) piuttosto che sulla scarsa canonicità dell’opera. Ma più si progrediva nella visione, più risultava arduo per noi, lettori di Tolkien, accettare alcuni aspetti del prodotto degli Amazon Studios. Perché spesso (troppo spesso) gli sceneggiatori hanno dato l’impressione di voler ignorare la ricca “lore” di Arda. La volontà era creare un’opera nuova, destinata non tanto a chi ama il lavoro del Professore, quanto a chi desiderava una serie fantasy leggera. Capace di intrattenere.

Perché alla fine, al netto di tutte le possibili critiche, al netto del dispiacere per aver visto un’opera quasi venerata così pesantemente modificata, gli Anelli del Potere resta questo: una discreta serie fantasy. Assodato ciò, anche la sospensione dell’incredulità si fa un pochino più solida, per quanto talvolta traballante. Una diga con le falle tappate da stucco e calce, che ogni tanto sembra dare segni di cedimento. Ma che, nonostante tutto, regge, facendo esattamente ciò che deve fare una serie fantasy: intrattenere rendendo credibile un altro mondo, diverso dal nostro.

Alle volte, però, la diga ha qualche scossone. Traballa e sembra voler cadere come un castello di carte. Un buco di troppo nella trama, qualche colpo di scena malamente concepito, una o due scelte registiche sbagliate. E, soprattutto, la volontà di giocare con i lettori di Tolkien. Forse troppo. Ma è bene, prima di iniziare la nostra disamina, fare un passo indietro e tornare a quando venne annunciata la collaborazione tra Amazon e la Tolkien Estate, al fine di creare uno show che avrebbe riportato gli spettatori nella Terra di Mezzo, circa tremiladuecento anni prima degli eventi de Lo Hobbit.

Diritti e canonicità: la guerra prima della guerra

Le due discussioni principali, nate ancora prima della messa in onda e della diffusione del trailer de Gli Anelli del Potere, riguardavano i diritti e l’aderenza al canone della saga fantasy di Tolkien nella serie Amazon. Si tratta di due facce della stessa medaglia, sulle quali sarebbe bene fare chiarezza. Impresa non facile: non sappiamo quali siano state le opere che la Tolkien Estate (compagnia che cura i diritti dei lavori del Professore) abbia concesso alla società di Jeff Bezos per realizzare lo show.

Come noto l’autore del Legendarium lavorò su di esso per buona parte della sua vita, motivo per cui gli scritti su Arda sono molti, talvolta contraddittori. Oltre al trittico composto da Lo Hobbit, Il Signore degli Anelli e Il Silmarillion, andrebbero considerate anche le lettere del Professore, i Racconti Incompiuti e i vari libri, quasi tutti inediti in Italia, della History of Middle-Earth. Di questo Mare Magnum di opere Amazon non ha mai dichiarato quali diritti siano stati acquisiti.

Già questo potrebbe far crollare ogni pretesa di aderenza al canone. Se solo una parte delle opere canoniche può essere trasposta, non può esserci canonicità. Oltre a ciò va considerato che esiste una certa confusione di fondo su cosa sia canonico per questo universo narrativo. Qualche tempo fa avevano fatto discutere alcune prese di posizione secondo cui Il Silmarillion stesso non fosse da considerarsi canonico. Se volete saperne di più vi rimandiamo al seguente link, dove troverete il video di Valinor – il portale della Terra di Mezzo, in cui sono elencate le motivazioni per cui Il Silmarillion vada considerato a tutti gli effetti parte fondamentale dell’epopea di Arda. In questo clima si sono aggiunte anche le critiche riservate all’etnia degli attori, esacerbando il dibattito all’interno del fandom e polarizzandolo in due fronti contrapposti. Ma di questo abbiamo già parlato.

Insomma, attorno alla serie, ancor prima della messa in onda, c’era una forte curiosità di comprendere non tanto cosa avremmo visto, ma cosa sarebbe stato trasposto. L’unica certezza era che gli sceneggiatori avrebbero sfruttato non tanto gli scritti di Tolkien, quanto le zone d’ombra lasciate al loro interno. Ma, soprattutto, il vero riferimento non sarebbe stato tanto Il Signore degli Anelli letterario, quanto quello cinematografico: i rimandi estetici e narrativi de Gli Anelli del Potere sembrano in effetti più vicini alla trilogia fantasy di Peter Jackson di quanto non siano a quella di J.R.R. Tolkien, con buona pace di chi sperava il contrario.

Adattamento e tradimento

Quando parliamo di film o show televisivi tratti da romanzi, dobbiamo sempre considerare che una trasposizione, ora più ora meno, è sempre un tradimento del canone. Se pensiamo al capolavoro cinematografico della prima trilogia di Jackson non possiamo non considerare le numerose libertà creative del regista. Dall’eliminazione di determinati personaggi (scusate fan di Tom Bombadil) fino alla modifica di alcune “linee temporali” (Jackson spostò parte del secondo libro nel terzo film). Più marcate le differenze nella trilogia de Lo Hobbit, dove la trama mostrò modifiche invasive su personaggi ed eventi. Tutto al fine di rendere una bella storia per bambini un kolossal fantasy appetibile per il grande pubblico.

Tuttavia Jackson sembrò sempre operare con un certo rispetto per la canonicità delle opere del Professore. Non ci sono elementi, nei sei film da lui realizzati, che vadano a stravolgere il canone di Arda. Sostituire Glorfindel con Arwen o si far comparire Legolas durante la Cerca di Erebor in fondo è plausibile. La domanda allora diventa diversa: assodato che un adattamento è sempre un (piccolo) tradimento dell’originale, quale limite si è posta la serie scritta da J. D. Payne e Patrick McKay? I cambiamenti saranno stati accettabili?

A questa domanda avevamo già fornito una nostra impressione con l’uscita dei primi episodi. Impressione che gli sviluppi della serie hanno sia confermato che disatteso. Lo show si è mostrato molto più autonomo di quanto ci aspettassimo. Durante la visione abbiamo spesso avuto l’impressione che gli autori volessero giocare con una parte di pubblico, quella che potremmo definire “erudita”. La parte avida lettrice dell’epopea di Arda. Molto spesso, qualche sceneggiatore che Tolkien deve averlo letto (e amato) si è divertito a disseminare qualche ‘aringa rossa’ basandosi sugli scritti del Professore (basti pensare al dibattito sull’identità di Sauron).

Questo, sia chiaro, non è di per sé un danno per una qualsiasi trasposizione televisiva. Quando uscì la prima stagione di American Gods restammo piacevolmente sorpresi da come la serie, pur prendendosi molte libertà rispetto al libro di Neil Gaiman, ne mantenesse lo spirito e la coerenza di fondo. Le variazioni non si sono rivelate tali da pregiudicare la qualità dello show. Stesso discorso può dirsi per La Ruota del Tempo. Cambiamenti ve ne sono stati molti, ma lo spirito del libro di Robert Jordan è rimasto nella serie. Insomma, si può cambiare, anche radicalmente, purché l’autore sia rispettato e la sua voce, ciò che lui ha voluto trasmettere con il suo romanzo, parli agli spettatori come parla ai lettori.

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Tanto è solo fantasy?

La linea degli sceneggiatori de Gli Anelli del Potere è stata dunque questa. In teoria. Nella pratica molto spesso le variazioni compiute non sempre hanno fatto il bene della serie. Anzi, spesso hanno finito per azzoppare la sospensione dell’incredulità dello spettatore, erudito o neofita che fosse. L’impressione è che Payen e McKay si siano affidati qualche volta di troppo a un vecchio modo di dire, noto a tutti gli autori pigri che si sono cimentati nella scrittura di genere fantastico. Il vecchio, temutissimo “tanto è fantasy, no?”. Peccato che proprio questo concetto sia quanto di più distante possa esistere dalla logica dell’autore originale dell’opera.

Da un punto di vista superficiale si potrebbe credere che Tolkien sia il padre di tutto il fantasy irrealistico. Elfi, hobbit, nani, aquile giganti e anelli magici certo non sono elementi realistici. Ma ciò che il Professore ha sempre ribadito (consigliamo la lettura dell’articolo On Fairy-Stories per farsi un’idea) è che debba esistere una coerenza di fondo nella narrazione fantastica. L’autore deve stabilire delle regole, proprio perché tali regole sono l’ancora alla realtà che fornisce al lettore la sospensione dell’incredulità. Senza di essa passa tutto in secondo piano: trama, personaggi, ambientazione. Tutto viene dimenticato e lettura o visione diventano impossibili da portare avanti.

Si potrebbe obiettare che all’interno di una trasposizione siano gli sceneggiatori a stabilire le regole. Ma se si sceglie di trasporre un’opera, si sceglie anche di adeguarsi alle regole scelte dall’autore di quell’opera. L’idea quindi che un gruppo di persone possa sopravvivere a una nube piroclastica, elfi o numenoreani che siano, è difficile da accettare in qualsiasi contesto fantastico. Specialmente nel contesto di un fantasy basato su Tolkien come dovrebbe essere Gli Anelli del Potere. Il Professore (è bene ribadirlo) era maniacale su questi aspetti delle sue opere. Nasce proprio qui uno dei difetti maggiori della serie, ovvero la scelta di dimenticare Tolkien quando sarebbe stato più opportuno. Forse per problemi di diritti, forse solo per la volontà di non essere prevedibili (ma può davvero ritenersi un difetto la prevedibilità in una trasposizione?) troppo spesso il metro con cui l’autore aveva immaginato Arda è stato lasciato da parte.

Un tempo, un luogo e un motivo per ogni cosa

Parlando di metro, è proprio con le “unità di misura tolkieniane” che si consuma la prima, enorme frattura con il lavoro del Professore. Spazio e tempo sono due concetti che Gli Anelli del Potere interpreta a modo suo, miscelando eventi, spostando luoghi e ignorando le distanze e la cronologia di Tolkien.

Quello più immediato si ha nella gestione delle distanze nella Terra di Mezzo. Non si può dire che il peccato originale appartenga a Gli Anelli del Potere, dato che già Peter Jackson aveva fornito agli spettatori l’impressione che i luoghi descritti da Tolkien fossero più piccoli rispetto ai libri. Gli Anelli del Potere non fa molto per migliorare questa impressione. Se ne Lo Hobbit Legolas sembrava andare e tornare in una notte da Erebor a Gundabad (circa mille chilometri), qui la cavalleria di Numenor riesce ad arrivare dal Pelennor a Mordor (valicando le montagne…) in un giorno e una notte. Forse uno di loro era già stato da quelle parti e aveva sbloccato l’opzione “viaggio rapido”. Come a Skyrim.

Al problema topico si unisce quello cronologico. All’inizio della serie l’impressione è di trovarci nel 1000 della Seconda Era. Un periodo che in effetti coincide con la fondazione del Regno di Mordor a opera di Sauron negli scritti, ma che al contrario mostra criticità per quanto riguarda altri eventi, come la fine del regno di Tar-Palantir e la successione a sua figlia Tar-Miriel (nata nel 3117 SE). Come detto anche Peter Jackson lavorò accorciando alcune linee temporali (nei libri trascorrono ben diciassette anni tra la festa di Bilbo e la partenza di Frodo), ma in questo caso abbiamo eventi della Terza Era anticipati alla Seconda (l’arrivo di uno degli Istari) o posticipati dalla Prima, come la scoperta del Mithril (Fëanor, creatore dei Silmaril, ne era un estimatore). Quanto tutto questo sia utile alla trama, è questione da rimandare alla conclusione della serie.

A questo si accompagna la scelta di andare spesso contro la canonicità di Tolkien in maniera quasi forzata. Come detto lo scopo è creare una trama indipendente per lo show. Proprio la questione del Mithril ne è un esempio. La presunta filiazione del minerale da uno dei Silmaril, del quale viene svelata anche l’ubicazione, contraddice il finale del Quenta Silmarillion. Oppure la creazione degli Anelli del Potere, che vede quelli elfici come i primi creati, contravvenendo a quanto raccontato nel fantasy del Professore, secondo il quale vennero prima fatte numerose prove da parte degli artigiani dell’Eregion. Insomma, Tolkien è stato messo da parte in una serie ispirata a un romanzo di Tolkien più spesso di quanto sarebbe stato opportuno.

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Quel che resta di Tolkien

La visione dello show, nonostante numerosi alti e bassi, prosegue riuscendo a fare ciò che dovrebbe fare una buona serie fantasy: gli Anelli del Potere intrattiene e questo, con buona pace di noi lettori del Legendarium, era lo scopo ultimo di Amazon. Lo fa, lo abbiamo detto, tra alti e bassi. Tralasciando alcune scelte registiche discutibili (lo slow-motion sulla cavalcata di Galadriel ci ha rievocato quello di Stanis La Rochelle ne Il Giovane Ratzinger) la serie conserva dei tratti di interesse nella gestione di trame e personaggi.

In primo luogo Galadriel, che nel corso della serie è artefice di una maturazione (un po’ altalenante) che trasforma un’ossessione in uno scopo. Una delle sorprese più positive è senza dubbio Arondir, il tanto discusso “elfo nero”, che nella sua interpretazione ha mostrato di aver incarnato l’introspezione e la malinconia tipica del popolo elfico, così come concepita nel Legendarium: non esageriamo nell’affermare che Arondir è forse il personaggio più Tolkieniano della seriea. Un’altra graditissima sorpresa è quella del personaggio di Durin IV, capace di unire alcuni dei tratti migliori dei nani di Arda con un’interpretazione davvero gradevole.

Ma un pregio della serie, qualcosa che per l’appunto ci fornisce un motivo per aspettare la seconda stagione, sono i momenti in cui Tolkien emerge con maggiore forza. Momenti in cui la voce del Professore di Oxford risuona nelle scene dello show Amazon, trasmettendo due dei concetti fondamentali all’interno del Legendarium. Da un lato l’idea che il mondo non sia guidato dal semplice caos e che il male, per quanto terribile e astuto possa essere, finirà sempre per soccombere per sua stessa mano. Ma c’è anche un altro concetto, forse il più affascinante di Tolkien, ovvero il suo profondo titanismo. L’idea che qualcosa di bello sia anche fragile e destinato, presto o tardi, a essere perduto. Ed è questo il concetto alla base degli Anelli del Potere, a rendere questo fantasy, in qualche maniera (forse nella migliore) legato a Tolkien.

Insomma, ancora una volta si è scelto di lasciare da parte quanto scritto dall’autore (troppo, forse) per reinterpretarlo e lasciarne il messaggio di fondo. Gli Anelli del Potere è una serie fantasy realizzata con un budget migliore di altre, capace quindi di abbagliare lo spettatore quanto basta per tenere in vita il sense-of-wonder e fornirgli il giusto intrattenimento. Sta quindi ai lettori di Tolkien decidere se valga la pena di lasciare da parte l’opera del Professore e tuffarsi in una Terra di Mezzo diversa. Solo… un po’ più piccola.